Menotti Garibaldi
Nacque il 16 settembre 1840 in un campo militare tra il villaggio di Mustarda e la città di San Simon, nella Repubblica brasiliana di Rio Grande do Sul, da Giuseppe e da Anita Ribeiro (una successiva ma tarda e probabilmente erronea dichiarazione giurata del padre fissa la data di nascita al 22 settembre e precisa che il battesimo ebbe luogo a Montevideo nel 1842). Chiamato Menotti in memoria del patriota modenese giustiziato nel 1831, era il primo dei quattro figli che Garibaldi ebbe da Anita e vide la luce mentre il padre militava nelle truppe riograndensi impegnate a difendere l’indipendenza della neonata Repubblica dalla controffensiva imperiale. L’infanzia, vissuta a ridosso delle molte campagne paterne in un succedersi di momenti avventurosi, difficoltà domestiche e pericoli scampati a stento (aveva solo 12 giorni di vita quando la madre, rimasta sola, lo salvò fortunosamente da un assalto nemico) conteneva in sé il preannunzio del suo futuro di primogenito dal destino già deciso. Quando, infatti, alla fine del 1847, Anita, precedendo di poco il marito, portò la famiglia in Italia e si stabilì a Nizza, il Garibaldi fu affidato alla nonna paterna e quindi iscritto al locale collegio nazionale; ma la vera educazione la ricevette dal padre il quale tenendolo con sé a Caprera a partire dal 1854, seguendolo giorno per giorno, proponendoglisi come modello e alla fine iniziandolo alla navigazione, fece di tutto per sviluppare in lui – attraverso l’esercizio fisico, la caccia, la vita dei campi, il lavoro tenace – le virtù militari e civili che erano già state le sue; allo stesso tempo gli trasmetteva i principî di un repubblicanesimo laico e anticlericale alieno, in nome dell’unitarismo, dalle rigidezze ideologiche mazziniane e dalla pregiudiziale antimonarchica.
Menotti corrispose abbastanza a queste non facili aspettative. Come soldato, già nel 1859 era messo alla prova come guida a cavallo nella campagna di Lombardia; il vero battesimo del fuoco lo riceveva l’anno dopo in Sicilia dove, a Calatafimi, il 15 maggio, riportava anche una leggera ferita alla mano sinistra. Luogotenente nel battaglione (poi I brigata della 15ª divisione) comandato da Nino Bixio, attraversava poi lo stretto e risaliva la penisola arrivando a Napoli l’11 settembre; venti giorni più tardi partecipava onorevolmente con il grado di “maggiore comandante del battaglione Bersaglieri della 18ª divisione dell’Esercito meridionale” alla battaglia del Volturno. Tutto ciò lo qualificava agli occhi del padre come un promettente braccio destro; e infatti nel 1862, venuto meno il progetto di metterlo alla testa di due battaglioni di carabinieri mobili da impiegare nella lotta contro il brigantaggio (o, più segretamente, nelle iniziative d’oltre Adriatico), il generale se ne serviva per preparare e poi attuare la sfortunata spedizione di Aspromonte, durante la quale, al comando del I battaglione bersaglieri, il Garibaldi restava ancora una volta leggermente ferito, non senza prima avere ordinato ai suoi uomini di fare fuoco sui militari italiani inviati a fermare l’avanzata garibaldina.
Diverso, e più complicato, era il discorso se riferito a responsabilità d’altro genere, troppo grandi per un giovane che, come Menotti, aveva da poco superato i venti anni. Lo dimostrava la sua conduzione della politica orientale, della strategia, cioè, che, favorendo la sollevazione di Slavi, Magiari e Polacchi, avrebbe dovuto condurre l’Impero asburgico alla crisi finale consentendo il pieno completamento dell’Unità e la liberazione delle nazionalità oppresse. Era peraltro in questo contesto, nel pullulare di progetti mai posti in essere, nel fervore di collegamenti con i rivoluzionari dell’Europa orientale che nel 1863 gli fece capitanare un intervento in Polonia, che il Garibaldi destava, assieme con il fratello Ricciotti, l’interesse di G. Mazzini. Questi, pur contrario a improbabili quanto improvvisate strategie internazionali, cercava di legarli più di quanto gli fosse riuscito con il padre al movimento repubblicano, anche per offrire all’esterno l’immagine di una democrazia più compatta e organizzata di quanto non fosse nella realtà. Tale schema, che il Mazzini avrebbe voluto applicare già nel 1864 in occasione del moto friulano dal quale sarebbe dovuta partire la liberazione del Veneto, parve potersi più concretamente realizzare nel 1867, alla vigilia dell’assalto garibaldino allo Stato pontificio: “Voi potete fare grandi cose” – scriveva il 13 ottobre il Mazzini a Menotti – “Gettate da Roma il grido di Repubblica all’Italia. Seguiremo tutti quel grido” (Mazzini, Scritti, LXXXV, p. 239). L’anno prima in Trentino il Garibaldi, agli ordini del padre, aveva comandato con il grado di tenente colonnello il 9° reggimento volontari nella guerra contro l’Austria e a Bezzecca si era guadagnato la medaglia d’oro e la croce militare di Savoia. Si era dunque completata la sua maturazione di soldato, attestata da una relazione che a fine campagna aveva descritto lui e G. Bruzzesi come “i soli tollerabili fra tutti i comandanti di Reggimento” (A. Capone, L’opposizione meridionale nell’età della Destra, Roma 1970, p. 214); ed è comprensibile che nel 1867, con lo stretto controllo cui era sottoposto il padre, toccassero a lui la direzione dei preparativi e, dal 2 ottobre, il comando della spedizione nel Lazio. Il risultato non fu dei più felici: alla testa di una delle tre colonne predisposte per l’invasione il Garibaldi, entrato il 5 ottobre in territorio pontificio nei pressi di Montelibretti, si trovò presto in una situazione di stallo e dovette attendere l’arrivo del padre per imprimere maggiore risolutezza a un’avanzata che si sarebbe conclusa il 3 novembre con la sconfitta di Mentana, giunta dopo che un suo ritardo nella marcia aveva consentito ai Francesi di arrivare per tempo sul luogo della battaglia.
Ultimo episodio di un’epopea che ne aveva messo in risalto il coraggio e l’irruenza, non certo le capacità tattiche, fu per il Garibaldi la campagna dei Vosgi cui partecipò tra il 1870 e il ’71 guidando la III brigata dei garibaldini accorsi a difendere la Francia repubblicana dall’invasione prussiana: distintosi a Digione il 21 genn. 1871, pochi giorni prima era stato promosso generale e per breve tempo aveva anche assunto, in assenza del padre, il comando dell’intera spedizione. Militarmente, fu forse la migliore delle sue esperienze, e chi lo rappresentò “freddo e impassibile” sotto il fuoco nemico segnò la giornata di Digione come il suo punto di massimo avvicinamento al modello paterno.
Al ritorno in Italia anche la sua figura si circondò presso l’opinione pubblica di un’aureola di eroismo che negli anni a venire egli avrebbe rinverdito rappresentando nelle molte cerimonie commemorative il padre e, dopo la sua morte, custodendone il mito tramite il sostegno dato alle varie società di combattenti e reduci. Parallelamente l’ideale repubblicano della giovinezza scoloriva nella graduale accettazione delle istituzioni monarchiche, sia pure in una posizione di prossimità al radicalismo e alla sua anima massonica e associazionistica. Dell’esempio paterno gli erano rimasti l’attenzione per il movimento operaio, qualche atteggiamento tribunizio, l’adesione a molte società popolari, spesso in posizioni di vertice, e una certa capacità d’iniziativa in politica, da lui espressa con la partecipazione alle diverse competizioni elettorali (deputato nel 1876 per Velletri, lo sarà per otto legislature consecutive fino al 1900, con una interruzione dalla XV alla XVII, quando sarà eletto nel collegio di Roma II) e con il ruolo più corposo avuto sulla scena municipale romana e su quella del basso Lazio, dove diede un contributo decisivo per la diffusione del radicalismo; tutto suo era invece un discreto spirito imprenditoriale, d’altronde da lui già palesato quando nel 1869 aveva costituito con A. Fazzari una società che aveva avuto l’appalto di alcuni lavori stradali nel Catanzarese e che si era anche occupata della commercializzazione di prodotti agricoli. In quel settore, però, gli affari non prosperavano, se verso il 1870 il padre gli rimproverava di essere “troppo alla buona” (Curatulo, Il primogenito dell’Eroe…), e se tra il 1873 e il 1875 altri, meno benevolmente, registravano le sue “troppe cambiali” o deprecavano il suo stile di vita dissipatore adombrando anche sospetti, forse eccessivi, di corruzione e di intrighi. Certamente un costo aveva per lui la lotta politica che a ridosso di ogni tornata elettorale lo induceva a investire somme di denaro nella creazione di giornali locali, pensati appunto per sostenere la propria candidatura; né lo sollevava economicamente il vitalizio di 10.000 lire l’anno assegnato a lui e ai suoi fratelli grazie a un apposito disegno di legge presentato e fatto approvare subito dopo la morte del padre.
E tuttavia, per quanto chiacchierata potesse essere la sua situazione personale, non si può accostare la vicenda pubblica e privata del Menotti a quella del fratello Ricciotti, certamente più disinvolto e più compromesso di lui in fatto di speculazioni politico-affaristiche al limite della legalità (e spesso anche oltre). In questo il Garibaldi rivelava il tratto di maggiore somiglianza alla figura paterna, e cioè quell’amore per la terra, come durissimo luogo di impegno ma anche come fonte di ricchezza e come occasione di riscatto per gli umili, che giovanissimo aveva appreso a Caprera nella quotidiana vicinanza al padre agricoltore. Tale lezione i Menotti portò con sé quando si stabilì a Roma, e vi si ricollegò dichiaratamente sostenendo a più riprese che dei due progetti lanciati dal padre al suo arrivo nella capitale nel 1875, uno solo – la sistemazione degli argini del Tevere – aveva avuto compimento, mentre restava da realizzare l’altro – la bonifica dell’Agro romano – che avrebbe consentito alla città e al paese un vero salto di qualità, perché – affermava – “Roma quando avrà intorno a sé duecentomila lavoratori, desterà l’invidia di tutte le città del mondo”. Approfittando della liquidazione dell’asse ecclesiastico, tra il 1874 e il ’75 in parte acquistò dalla Congregazione camaldolese e in parte ottenne in enfiteusi perpetua dal capitolo di S. Pietro alcune vaste estensioni di terreno nell’Agro romano: in totale più di 3000 ettari comprendenti le tenute di Carano – dove si stabilì con la famiglia -, Maranella, Campomorto, Presciano, poste tra Roma, i Castelli e il mare, in una zona infestata dalla malaria che tuttavia egli rese produttiva, soprattutto nel campo della cerealicoltura e della zootecnia.
Altre soddisfazioni gli vennero anche dal ripopolamento e dalle migliorate condizioni di vita dei contadini (gli storici notano che la sua era nell’Agro una delle poche proprietà dotate di un servizio di ambulanza per il trasporto dei malati, di scuole, strade e telegrafo), ma a costo di ingenti spese e dunque esponendosi a continui pericoli di dissesti finanziari, che non sempre tuttavia poté evitare. Molte fonti degne di credito (tra gli altri G. Zanardelli, G. Giolitti, D. Farini) attestano l’esistenza di cambiali di cospicuo ammontare recanti la sua firma, e tra le Carte del Depretis si conservano le sue pressanti richieste di sgravi fiscali o anche le ingiunzioni di pagamento delle esattorie comunali e gli elenchi dei beni mobili pignoratigli (gli anni più critici furono quelli tra il 1885 e il 1887); ma i debiti erano il solo modo per fare fronte a situazioni non più sostenibili, in una spirale che alla fine portò anche il Garibaldi a figurare nelle liste di coloro che, presi i soldi dalla Banca romana, non avevano poi onorato gli impegni sottoscritti. Così si spiegano probabilmente le sue dimissioni dalla Camera, presentate e reiterate il 13 marzo 1890 malgrado il parere contrario di molti colleghi deputati, e la successiva “deplorazione” con cui si concluse per lui lo scandalo bancario. Non fu invece mantenuta la decisione di dimettersi comunicata al Parlamento il 14 maggio 1894.
Non è da escludere che gli aiuti corrispostigli a più riprese da esponenti della Sinistra di governo e dalla stessa casa reale finissero per condizionare in senso moderato gli orientamenti politici del Garibaldi. Già vicino allo Zanardelli e al Depretis, fu però con F. Crispi che il Garibaldi, anche in nome della comune appartenenza alla tradizione democratica e anticlericale, trovò il massimo della sintonia, prima in merito al problema della capitale e della sua amministrazione (Menotti, che era anche presidente del Consiglio provinciale, favorì il disegno accentratore del Crispi), quindi – e soprattutto – in materia di politica coloniale. Proprio in questo snodo fondamentale del progetto crispino, il Garibaldi, che già aveva avuto modi di pronunziarsi in Parlamento a favore della conquista dell’Abissinia, prese una posizione di chiaro sostegno alla scelta espansionistica, argomentandola con ragioni di prestigio internazionale e corroborandola di valutazioni tecnico-militari che talvolta lo portavano a rispolverare il proprio passato di combattente (nel 1887, all’indomani della sconfitta di Dogali, avrebbe voluto guidare insieme con il cognato Stefano Canzio una colonna di volontari, convinto che contro la guerriglia praticata dagli indigeni il sistema di combattimento tipico delle truppe in camicia rossa avrebbe avuto probabilità di successo superiori a quello dei regolari). Era suo l’o.d.g. del 5 marzo 1890 che, approvato dalla Camera, ne sanciva il consenso al “prudente indirizzo della politica africana” deciso dal governo con la recente creazione della colonia Eritrea. In seguito ulteriori suoi atteggiamenti filocrispini avrebbero indotto F. Cavallotti ad ammonirlo con qualche rudezza, scrivendogli: “Vai piano nei brindisi tu che insieme con un gran nome ereditasti dei doveri”.
Ammalatosi di una febbre malarica mentre si trovava nella tenuta di Carano, il Garibaldi, che l’anno prima era uscito quasi incolume da una caduta in un pozzo profondo 14 m, morì a Roma il 23 agosto 1903.
I solenni funerali, con la partecipazione di veterani, reduci, ex combattenti, massoni, di una delegazione dell’Unione liberale di cui era stato a lungo presidente e di una folla di gente comune, muovendo dalla romana porta S. Giovanni trasportarono la salma fino a Carano, dove ebbe luogo la sepoltura. Durante il percorso sull’Appia, all’altezza di Cecchina, sopraggiunse a cavallo G. d’Annunzio il quale, fermato il corteo, pronunziò un ispirato discorso commemorativo.
Il Garibaldi, che aveva sposato Italia Bideschini, alla sua morte lasciò cinque figli: Anita, Rosina, Gemma, Beppina e Giuseppe.