Il mondo della pesca – IV parte
Fino ai primi decenni del Novecento la pesca in tutto il Mediterraneo veniva esercitata con i sistemi e gli attrezzi tradizionali rimasti invariati da secoli. Il progresso che aveva toccato tanti altri tipi di lavoro (agricolo, estrattivo, minerale, ecc.) con l’applicazione di strumenti più moderni, non aveva neanche sfiorato il mondo della pesca: basta vedere gli aghi per la fabbricazione delle nasse o delle reti: dall’epoca romana essi si sono mantenuti invariati per forma, dimensione, materiale usato.
Dal 1930 ad oggi invece, una serie di innovazioni, tutte importanti, ha radicalmente mutato il lavoro del pescatore influendo positivamente sulle sue condizioni economiche e sociali. La prima di queste innovazioni è stata l’introduzione del motore, che, consentendo di raggiungere velocemente i luoghi di pesca e di spostarsi con facilità, ha permesso al pescatore di trascorrere meno tempo a mare, di faticare meno, dandogli allo stesso tempo una sicurezza in più contro il vento o il mare agitato. I primi motori a benzina, i francesi BIDOUIN, furono acquistati intorno al 1935 per 4.000 lire da Vincenzo Di Fraia, Vincenzo D’Oriano, da Pasquale Rivieccio e poi a seguire da molti altri. La benzina arrivava da Porto Torres attraverso lo spedizioniere Doro Onorato e, essendo “schiavo dogana”, data ai pescatori a prezzo agevolato, doveva esserne giustificato e controllato l’uso. Molto più tardi fu introdotto il motore a nafta. Malgrado l’innegabile utilità di questa innovazione il processo di modernizzazione fu lento forse per l’innata diffidenza di un mondo legato a tradizioni secolari: ancora nel 1958 solo 60 erano le barche da pesca fornite di motore contro le 120 a vela e remi.
La seconda più recente innovazione (databile agli anni Sessanta), fu il verricello che contribuì ad alleggerire il lavoro manuale e diede maggiori possibilità di pesca visto che consentiva di calare e salpare le reti anche in presenza di correnti non favorevoli.
Infine l’altro cambiamento, lento da assorbire, ma non meno importante, fu l’avvento delle reti di nylon, che eliminarono tutto il lavoro di preparazione e riparazione e risultarono quasi indistruttibili. Una di queste, il barracuda, sottile, azzurrina, a maglie strette, molto più elegante delle grossolane, vecchie reti in cotone, è uno strumento preciso al quale i pesci non possono sfuggire, dai più piccoli (che non riescono a passare attraverso gli stretti spazi) ai più grossi (che non riescono a rompere la solida fibra).
Ma, evidenziandone gli indiscutibili vantaggi, alcuni pescatori mostrano per la vecchia rete quasi una punta di rimpianto apparentemente inspiegabile: solo approfondendo l’argomento ci si rende conto che, all’origine di questo sentimento, sta la certezza di aver tolto alla preda ogni scampo: “Bisogna sempre lasciare al pesce la possibilità di salvarsi attraverso il mantenimento della proporzione di forze: per l’uomo gli strumenti di pesca e l’intelligenza, per il pesce l’uso del suo ambiente per sfuggire alla caccia. Prima questa proporzione esisteva, oggi non più”. Scaturisce da questa considerazione una sensibilità insospettata verso la vita del mare che tutti i vecchi pescatori, malgrado le sofferenze e le fatiche passate, continuano ad amare e rispettare come fonte di vita, e, per contro, il rammarico per l’attuale impoverimento, attribuito all’attività cieca dell’uomo, del quale identificano segni inquietanti nella sempre più rara apparizione delle tartarughe di mare, ad esempio, dei delfini, dei pescecani, dei grandi cetacei, nella scomparsa di certi organismi un tempo frequenti sulle coste dopo le mareggiate di ponente quali le velelle (“ruzzu”). Qualcosa evidentemente è cambiato e se ciò è stato possibile nel tempo di una vita umana, c’è da preoccuparsi.
“Avà andà a piscà è una serenata …….” : in questa frase ricorrente c’è l’indicazione precisa di quanto sia tecnicamente più facile e più fruttuoso il lavoro oggi; e c’è anche la certezza del superamento della vecchia situazione economica e sociale, di un cambiamento profondo nel modo di intendere la vita. Per capirlo occorre schematicamente definirne i punti fondamentali richiamandoci alla situazione del passato: non esisteva alcuna proporzione fra la quantità di lavoro prodotto e il guadagno realizzato; l’acquisizione dei mestieri era lenta visto che ne veniva riscattato il possesso con una parte del lavoro; il pescatore non poteva essere nel meccanismo di scambio non avendo possibilità di vendere in proprio; i prezzi erano stabiliti dai magazzinieri in base alle leggi di mercato, difficili da capire e da accettare. La situazione sociale, in un periodo in cui la differenza fra le classi era ben evidente, risentiva fortemente di quella economia, nella quale il gradino più basso era occupato dal marinaio, avente diritto ad una sola parte del guadagno totale (contro le tre del padrone: una personale, una per la barca e una per i mestieri). Per uscirne bisognava realizzare il primo passaggio acquisendo barca e mestieri e rendendosi indipendenti dai magazzini.
Era necessario perciò lavorare il più possibile, sfruttando al massimo le condizioni favorevoli delle stagioni, facendo del rischio una necessità: era normale prassi di vita spiare il tempo per capirne le mutazioni, interpretare la corsa delle nuvole o un lampo lontano per calcolare quanto tempo utile restava per salpare i mestieri e raggiungere una cala sicura prima dell’arrivo della burrasca: chi usciva e calava reti, nasse o palamiti sapeva che non poteva permettersi il lusso di abbandonarli, neanche se era in pericolo la sua stessa incolumità perché perderli significava ricominciare da zero.
Eppure tutti erano coscienti della fragilità dei mezzi a disposizione e della loro inadeguatezza rispetto alla forza degli elementi; a parte le dimensioni della imbarcazione, che raggiungeva, in pochissimi casi i dieci metri (più comunemente di 6,5 m), in caso di vento forte c’era l’impossibilità di adoperare la vela, che alterava l’assetto della barca; non rimaneva dunque che l’uso dei remi e l’esperienza: poi l’aiuto di Dio o della Fortuna. Subentrava perciò un certo fatalismo col quale si spiega il fatto che molti pescatori non sapessero nuotare; innumerevoli sono le storie di salvataggio a mare, altrettante numerose le morti. Fra tutti i tragici episodi ne ricordiamo alcuni significativi, ancora oggi vivi nella memoria di chi racconta con accenti che riflettono l’angoscia e il dramma.
Il primo, verificatosi il 18 gennaio 1910 nel tratto di mare prospicente Tre Monti con la morte di due persone, fu, con dovizia di particolari per noi importanti, registrato dal Capitano di porto del Compartimento Marittimo di La Maddalena, Pietro Azara, in base alla testimonianza dell’unico superstite, De Roberto Alfonso. Riportiamo la parte del verbale della Capitaneria riguardante il susseguirsi degli avvenimenti: “Si era stati nel golfo di Arzachena e di lì costeggiando si era venuti a Barca Bruciata, da dove avendo pescato alquanto pesce, si decise verso le undici di ieri 18 corrente di far ritorno a Maddalena mettendoci alla vela nell’ora stessa con vento fresco, da ponente. Ci eravamo da poco allontanati dalla costa quando, il vento ed il mare rinforzando contro ogni nostra previsione, fu necessario diminuire le vele. Lasciato il timone in mano al De Luca attendevo a sostituire il fiocco comune con altro più piccolo, allorché un’ondata furiosa prendendo di traverso la barca la riempì quasi totalmente. Aiutato dagli altri cominciai a gettar zavorra di pietre che era a bordo e successivamente buttai buona parte delle reti e la vela di cui sguarnii tosto l’antenna, perché il vento non vi avesse presa; ma la barca era troppo carica d’acqua e non governava più; ogni ondata ne invadeva sempre più l’interno e noi eravamo tutti e tre immersi nell’acqua che raggiungeva i banchi mentre il vento ed il mare facevano deviare la barca in direzione parallela alla costa di Tre Monti verso Capo Ferro. Si stette in tali condizioni molte ore perché la barca cominciò a fare acqua verso le 12 ed il tempo facendosi sempre più burrascoso, la barca si capovolse una prima volta e poi molte altre. Aggrappati alla parte emergente del galleggiante, lottando disperatamente per rimanere con la testa fuori dall’acqua, flagellati dalle onde che minacciavano di strapparci dalla barca, intirizziti dal vento violentissimo e dal freddo, si cominciava a perdere le forze. Io tentavo di incoraggiare i miei compagni dicendo loro che presto il vento ci avrebbe portato a derivare sulla costa e qualche aiuto ci sarebbe stato inviato dalle vicine batterie di Tre Monti e Punta Rossa, ma invano. Il De Luca, che da qualche tempo non parlava e che io a volte sorreggevo col braccio destro, tenendomi col sinistro all’antenna della barca, si abbandonò per primo. Lo vidi mollare il suo appoggio, un’ondata lo portò lontano e disparve. Ripetei gli incoraggiamenti al Colonna dicendogli che un rimorchiatore dirigeva verso di noi, ma esso pure divenuto muto e livido, tralasciando di tenersi aggrappato a me e alla barca, cessò di lottare; non riuscì a trattenerlo e scomparve di un tratto. Rimasto solo continuai a tenermi istintivamente avvinghiato all’antenna ed estenuato di forze svenni. Quando ripresi conoscenza ero nella bassa prua del rimorchiatore n. 12 dal cui personale ero stato raccolto, riscaldato e vestito ed al cui intervento devo esclusivamente la mia salvezza. Tenuto conto che il rovesciamento della barca si è verificato a forse un miglio dalla costa sarda e che il vento era esattamente maestro, suppongo che i corpi del De Luca e del Colonna possano essere portati dal mare sulla costiera di Capo Ferro e su quella della attigua isoletta dei Cappuccini. Sottoscritto Alfonso De Roberto”.
Un altro grave incidente si verificò il 15 novembre 1917 in una delle zone più pericolose con la tramontana, cala Canniccia a Caprera. Tre barche erano quel giorno là: quelle di Leonardo Di Fraia “Scialò”, e di Vincenzo d’Oriano “Ingappamuschi”, riuscirono, con i soli remi, a dirigere pian piano verso Cuticcio dove i pescatori, inzuppati d’acqua, passarono la notte bruciando il legno degli stipetti delle barche per difendersi dal freddo intenso. Quella di Gennaro Grieco, invece, forse perché più lontana delle altre, non riuscì mai ad arrivare poiché il vento impetuoso la capovolse; due dell’equipaggio, Raffaele D’Agostino “Fiarè” e il cugino di questi, trovarono appoggio nell’antenna che li sostenne aiutandoli ad andare a riva. Il giovane Emilio Grieco, allora diciasettenne, riuscì ad afferrare il padre, trascinandolo verso la costa per due volte, lottando con il mare che glielo strappava via, fino a che il vecchio fu definitivamente inghiottito dalle onde. Morirono con lui Beppe Raffaelli, toscano e Primo Spillo di soli 14 anni. Le salme furono ritrovate il giorno seguente a Cala Portese “U Calonu”.
Il 17 novembre 1939 la gravissima tragedia che scosse l’intera comunità maddalenina: cinque persone morirono lasciando altrettante famiglie nel lutto e in una grave situazione economica. All’Arpaia, Pietro Romano “Pidrulla” di 34 anni, il fratello Vincenzo “Tidì”. Gennaro Troise “Paparassellu”, Gennaro Conti “Scisciò” e Giocchino Ferrigno, cercavano, malgrado il maestrale che si rinforzava, di salpare i palamiti: non era la prima volta che Romano, come altri, affrontava situazioni così difficili, ma ne era uscito sempre senza danni; e poi doveva ancora pagare due rate del motore della barca al Partito e non poteva perder il frutto del lavoro della giornata. I padroni delle altre due barche presenti nella zona, i D’Oriano, che “impostavano a boghe” e i Salese, che avevano calato i palamiti, si resero conto che era impossibile lottare contro il mare e, pur imbarcando acqua, riuscirono a trovar riparo, rispettivamente a Spalmatore e a Piticchia, da dove raggiunsero a piedi il paese. L’equipaggio Romano non rientrò e poiché, malgrado l’apprensione, si faceva strada la speranza che si fosse rifugiato a Caprera, l’indomani le ricerche furono dirette là: a Cala Napoletana fu trovato, sulla spiaggia, il corpo di Pietro Romano accanto all’antenna; più a nord, alla Crucitta, i corpi di Vincenzo Romano e di Gennaro Troise, che il mare aveva trasportato insieme ai palamiti e al timone. Degli altri due non si trovò alcuna traccia.
Nella Sardegna settentrionale le isole dell’arcipelago costituiscono il punto centrale di un vasto arco comprendente zone ugualmente pescose e poco sfruttate, quasi fino ai nostri giorni, dalla gente sarda, tradizionalmente ostile al mare: ad oriente il golfo di Cugnana, le isole di Tavolara e Molara, l’isolotto Pedrami, la costa di Siniscola fino a Capo Comino; ad occidente Santa Reparata, Vignola, Cala Serraìna, la costa di Sorso fino a Castelsardo. Seguendo entrambe le direttrici, le nostre barche isolate, o più spesso in “conserva” (due equipaggi si accordavano per la campagna), partivano per l’intera stagione di pesca affrontando condizioni di vita indubbiamente più difficili di quelle locali. Il viaggio di trasferimento era lungo e, in caso di bonaccia, costringeva a estenuanti ore ai remi; era indispensabile fare diverse tappe, secondo la distanza della meta da raggiungere: andando verso occidente si faceva una sosta a Santa Teresa o all’Isola Rossa, dopo circa 9 ore di navigazione. Bisognava vendere giornalmente il pesce, e, se si era lontani da centri abitati, un marinaio doveva imbarcarsene penetrando nelle campagne per raggiungere gli stazzi isolati barattandolo normalmente con altri prodotti alimentari, come formaggio o ricotta.
Non era perciò spettacolo raro vedere un pescatore maddalenino, con la sua cesta, arrivare, ad esempio, a Siniscola, dopo 2 ore di marcia, proveniente dalla Caletta o in uno qualsiasi degli altri centri a qualche chilometro dal mare. Arrivati a destinazione, però, i pescatori cercavano di stabilire un contatto con un commerciante che ritirasse il pescato per rivenderlo: così, per alcuni anni, nella stagione estiva, ogni mattina un “viaggiante” col suo cavallo aspettava sulla spiaggia di Frijana il rientro delle nostre barche provenienti dalla lontana e pescosissima secca di Castelsardo (8 miglia dalla costa e 11 metri di profondità). Queste campagne così lontane comportavano una accurata conoscenza dei luoghi e grande abilità nella navigazione. Conoscere certi segni che annunciavano il cambiamento di vento o l’arrivo di un temporale poteva garantire la sopravvivenza; così i nostri pescatori sapevano che Tavolara “sente il vento” e che se, ancora con la bonaccia o lo scirocco, la montagna “fischiava”, ciò significava che sarebbe arrivato, immancabilmente il ponente. Lungo tutte le coste percorse in interminabili giornate di navigazione bisognava saper trovare l’acqua perchè d’estate, sotto il sole e con la fatica dei remi, la riserva portata da casa finiva presto: i più vecchi indicavano ai “guaglioni” di bordo i luoghi dove potersi rifornire, fino alle pozze più sperdute delle località disabitate. Certi racconti sembrano tratti da scene di altri mondi e invece sono solo d’altri tempi: presso la Punta Pedrami, assolata e completamente priva di case fin dove può arrivare lo sguardo, il vecchio che dà al ragazzo (Pasqualino D’Oriano) l’incarico di scendere a terra a riempire la brocca fornendogli le indicazioni necessarie per trovare l’acqua e il giovane che torna deluso per aver trovato solo una pozza maleodorante, non una sorgente come immaginava, e si sente dire che bisogna accontentarsi.
Nella asta area settentrionale di cui l’arcipelago costituiva il centro, un’altra zona più vicina ma non più agevole si offriva ai nostri pescatori: la Corsica, ufficialmente proibita, ma comune meta di campagne di pesca, pericolose sia per la distanza da percorrere in mare aperto nelle imprevedibili Bocche di Bonifacio (6-7 ore di navigazione), sia perché le vedette còrse operavano un pattugliamento abbastanza serrato dal quale c’era da aspettarsi di tutto: se erano fortunati i pescatori sorpresi in acque territoriali francesi se la cavavano dando ai còrsi esca e pesce; altrimenti perdevano la barca che veniva sequestrata d’autorità mentre l’equipaggio era accompagnato a Bonifacio per l’imbarco. A volte il guardiacoste francese, avvistando una barca italiana sparava in aria provocando il panico a bordo e la voglia di scappare pur con la certezza di non poter sfuggire: momenti drammatici in cui solo la saggezza dei più vecchi ha evitato il peggio come quando Ignazio Salese dovette, minacciandolo con “l’aiaccio”, obbligare il figlio troppo teso per ascoltare le parole, a fermare la barca e aspettare la guardia còrsa che li aveva avvistati. Fughe rocambolesche nella notte come quella di Pasquale Atzeni “Musumartè” che, rifugiatosi a Lavezzi, sentendo arrivare il gurdiacoste, approfittò della precisa conoscenza dei passaggi interni fra i numerosi isolotti e scogli per sfuggire nel più assoluto silenzio passando attraverso un canale inaccessibile alla grossa imbarcazione francese.
Il controllo severo al quale venivano sottoposti i nostri pescatori era più che giustificato, vista l’abitudine, in certi periodi abbastanza generalizzata, ad adoperare per la pesca, oltre agli attrezzi tradizionali, anche l’esplosivo. E non si pensi che tale uso sia legato al dopoguerra, quando la difficoltà nel reperire i mestieri e l’abbondanza invece di bombe inesplose potevano costituire una più che sufficiente e giustificabile tentazione, poiché in realtà, risalendo all’inizio del secolo, troviamo già tracce di pesca con l’esplosivo. Nel 1913 un certo Ernesto Spinola (nome poi risultato inesistente) firmava una denuncia al Ministero della Marina contro la pesca con la dinamite. A La Maddalena non era evidentemente difficile procurarsela, vista la presenza della base navale, e quindi di notevoli quantità di munizioni, e dalla cava di granito di Cala Francese dove, per necessità di lavoro, l’esplosivo non mancava certo. In gran numero i pescatori diventarono esperti nel maneggiarlo imparando a valutarne la quantità necessaria e il tempo di combustione della miccia, a differenziare gli interventi per il pesce di superfice o per quello di profondità, passando indifferentemente dall’uso delle “saponette” tedesche (pezzi rettangolari di tritolo con un buco per detonante e la miccia, che dovevano essere legati ad una pietra per acquistare un certo peso), al tritolo ricavato, dopo averne rotto l’involucro di ferro, dai bossoli da 16 chili, alle paste (specie di cartucce morbide), alla balestite che bisognava grattugiare sulla pietra per ricavarne una polvere gialla che veniva poi pressata in una scatoletta. Fra le grosse bombe c’erano i contenitori di carburo (che contenevano fino a 50 kg) caricati col tritolo e posti su due tavoloni a poppa, con la miccia inserita, pronti ad essere gettati a mare nel punto voluto. L’eccesso di sicurezza o, in qualche caso, l’inesperienza, provocarono numerosi incidenti alcuni dei quali mortali: morirono dilaniati dalle bombe o ustionati Antonuccio De Giovanni, Giovanni D’Agostino “Padana”, Pasquale Rivieccio “Squarciò” e con lui lo scalpellino che l’aiutava ad aprile un bossolo tedesco, Cosimo Carta. Molti altri incidenti minori provocarono invalidità permanenti più o meno vistose.
Sempre a causa dell’esplosivo, anche se indirettamente, morì Domenico Lubrano “Fratellì”, ucciso da un carabiniere che, evidentemente avvertito da qualcuno, controllava l’ingresso della grotta di santo Stefano in cui Lubrano aveva nascosto l’esplosivo.
Parzialmente tratto da “Il mondo della pesca” – Co.Ri.S.Ma – Giovanna Sotgiu
- Il mondo della pesca – I parte
- Il mondo della pesca – II parte
- Il mondo della pesca – III parte
- Il mondo della pesca – IV parte
- La pesca con le reti
- La pesca delle aragoste
- La pesca con le nasse
- La pesca con i palamiti
- Erba corallina
- Foca monaca – (Monachus Monachus)
- Tartaruga di mare – Cuppulata
- Pinna Nobilis – Gnacchera
- Delfino – U fironu
- Le spugne
- Le razze
- La barca
- Provenienze dei pescatori maddalenini