Reazioni francesi
L’inimicizia tra Paoli ed i Bonaparte si trasformò in ostilità dichiarata a seguito della fortunosa spedizione in Sardegna, episodio marginale nella guerra rivoluzionaria, ma importante nell’accelerare la caduta di Paoli. La Convenzione, inorgoglita dalla vittoria di Valmy e riunitasi quello stesso giorno, dichiarò l’offensiva generale. La riva sinistra del Reno, la Savoia e Nizza furono occupate dalle truppe francesi. Saliceti, sin dal giugno 1792, aveva vivamente consigliato anche l’occupazione della Sardegna e riuscì a convincere i deputati sulle presunte ricchezze dell’isola mediterranea. Paoli manifestava, al contrario, tutta la sua riprovazione per un progetto che contrastava con le proprie idee su due punti essenziali: 1) esso rappresentava un pericolo per la Corsica che «non aveva bisogno né di guerra, né di conquista, ma solo di libertà e di pace»; 2) costituiva un’aggressione ingiusta verso il Regno di Sardegna, per cui nutriva la più alta stima, dato che era sempre stato l’alleato naturale della Corsica. Egli tentò con ogni mezzo di temporeggiare e far fallire questa spedizione alla quale, in qualità di luogotenente generale delle truppe della Corsica, doveva prestare man forte: invocava la sua cagionevole salute, la debolezza delle guarnigioni e dei mezzi, la disorganizzazione delle guardie nazionali, poco abituate a combattere fuori dal loro territorio. Ed infatti riuscì a raggruppare a malapena duemila uomini (1.000 francesi stazionati nell’isola ed 800 volontari corsi) sui tremila che gli erano stati chiesti; per Paoli erano comunque sufficienti per adempiere «alla più empia e scellerata delle spedizioni».
Con una mossa azzardata il generale chiese l’intervento del battaglione dei volontari d’Ajaccio, comandati da Bonaparte e Quenza: «Forse Paoli pensava ad un modo per sbarazzarsi di Napoleone, o almeno per rovinare, con una sconfitta, la sua nascente fama». Ma Paoli fece anche altro: alcuni contemporanei asserivano di averlo sentito dire a Colonna Cesari, a cui aveva affidato il comando delle truppe: «Fai in modo che questa maledetta spedizione finisca in fumo». La flotta francese rimase ferma due mesi nel porto di Ajaccio e partì solo nel gennaio 1793. Giunta nelle acque sarde, l’armata bombardò Cagliari (29 gennaio) tentando uno sbarco (15 febbraio) che si risolse in uno scompiglio generale: alla fine fu costretta a ritirarsi senza aver raggiunto alcun obiettivo. Anche la spedizione terrestre, condotta da Colonna Cesari, si risolse in un totale fallimento; a causa di motivi oscuri, che alimentavano il sospetto di tradimento, Colonna Cesari aveva perso un mese in preparativi.
All’inizio, tutto sembrava volgere secondo i piani: la fanteria s’impadronì, il 23 febbraio 1793, dell’isola di Santo Stefano, da dove Napoleone iniziò a bombardare la Maddalena. Mentre si preparava lo sbarco sull’isola, la corvetta francese che proteggeva il corpo di spedizione si ammutinò e, minacciando di morte il comandante, costrinse Colonna Cesari a dare l’ordine di ritirata.
Una squadra composta da 23 unità salpò il 20 febbraio 1793 da Bonifacio alla volta delle isolette dell’Arcipelago della Maddalena; al comando delle artiglierie il generale Colonna Cesari, che guidava la spedizione, aveva posto il giovane lungotenente corso Napoleone Bonaparte. Ma i maddalenini avvistati gli invasori, dopo aver posto al sicuro al centro dell’isola i vecchi, le donne e i bambini, si preparano a resistere nelle batterie di Punta Tegge, Guardia Vecchia e Forte Sant’Andrea. Il 22 febbraio la flotta nemica raggiunse l’arcipelago ma dovette rifugiarsi a Cala Villamarina, sull’isola di Santo Stefano da dove, sbarcati i cannoni, cominciò a bombardare l’abitato. Il primo giorno furono esplose 500 bombe e sparate oltre 5000 palle; pare che Napoleone abbia sparato personalmente 60 cannonate. Di fronte a forze nemiche tanto preponderanti i maddalenini erano certamente costretti a soccombere, ma durante la notte, il nocchiero Domenico Millelire ed il timoniere Cesare Zonza, eluso il blocco francese, riuscirono a piazzare due cannoni allo Stintino di Capo d’Orso ed il mattino successivo aprirono il fuoco sul ridosso di Santo Stefano dove avevano trovato rifugio sicuro i legni gallo-corsi. L’impresa fu ripetuta la notte successiva ed in breve la squadra navale assediante si trovò nell’imprevista situazione di assediata. Ai francesi di Napoleone non restava che la via della fuga. Il fallito tentativo di sbarco fu l’occasione in cui la giovane collettività maddalenina ebbe modo di dimostrare con lealtà e fermezza il proprio attaccamento all’isola e alla dinastia sabauda. E questi sentimenti si concretarono nell’improvvisata bandiera fatta sventolare sul Forte Santo Stefano per incitare gli isolani alla lotta. Il drappo raffigura Santa Maria Maddalena ai piedi della croce, con un manto che rappresenta il contorno dell’isola ed il motto “Per Dio e per il Re vincere o morire”. Napoleone ebbe dunque a La Maddalena la sua prima sconfitta e a Domenico Millelire fu conferita la prima Medaglia d’Oro d’Italia.
Per la Francia si trattava di una disfatta completa, vergognosa e giustificabile solo con il tradimento. Gli avversari di Pasquale Paoli alla Convenzione, tutti nei ranghi giacobini, accusarono il generale di aver compromesso il successo della spedizione.
Saliceti pronunciò un’arringa infuocata: già da tempo la sua ammirazione per Paoli si era trasformata in ostilità. (Gli interessi personali avevano giocato, in questa evoluzione, un ruolo importante quanto le motivazioni ideologiche: partecipe con passione alle idee giacobine, Saliceti restava comunque un uomo cupido e venale; era un nuovo ricco, un approfittatore della Rivoluzione, un uomo di clan nell’accezione più stretta del termine: accumulava tre pensioni e dilapidava il denaro pubblico a suo piacimento. Deputato alla Convenzione grazie a manovre ed intrighi oscuri, legato allo spirito di partito, regicida – l’unico fra i deputati corsi – egli era stato incaricato dalla Convenzione, il 1° febbraio 1793, di controllare le mosse militari di Paoli.)
È strano, al contrario, trovare Napoleone tra gli altri accusatori: in questa situazione il suo atteggiamento fu ambiguo. (Bonaparte iniziò la requisitoria (il 28 febbraio 1793) aggiungendo la sua firma alla lettera con cui gli ufficiali del corpo di spedizione della Maddalena assicuravano a Colonna Cesari la loro stima. Due giorni dopo redasse una “protesta dei volontari” indirizzata al Ministro della Guerra, al Comandante dell’Esercito delle Alpi ed a Paoli, in cui criticava l’impreparazione della spedizione, la fuga precipitosa della corvetta e l’ordine di ritirata, esigendo «che si ricerchino e puniscano i vigliacchi ed i traditori che ci hanno fatto fallire». Si potrebbe pensare che questa grave accusa riguardasse solo Colonna Cesari, ma leggendo tra le righe era evidente che l’accusa era rivolta anche a Paoli. Il 7 marzo 1793 il Consiglio Generale del dipartimento della Corsica si dichiarò, all’unanimità, «intimamente convinto della piena ed intera giustificazione del cittadino Colonna” e rigettò la colpa sulla “cattiva condotta dei vigliacchi che hanno costretto la corvetta a fuggire». Questa decisione provocò un voltafaccia spettacolare di Bonaparte, che assicurò la propria amicizia a Colonna Cesari, al punto che è lecito domandarsi se egli sia stato sincero o se non avesse cercato, «mettendo il nipote fuori causa, di addossare sullo zio l’intera responsabilità del fallito contrattacco e di attirargli il sospetto del governo».)
A Parigi ci si imbarazzava per delle sfumature: su invito della Società repubblicana di Tolone, che attribuiva a Paoli la disfatta della spedizione e dopo un veemente intervento di Marat, che denunciava «questo vile intrigante che prende le armi per servire la sua isola e fa l’illusionista per ingannare il popolo», la Convenzione decise, il 2 aprile 1793, di sospendere Paoli dalle funzioni militari e di convocarlo a Parigi. Si trattava del risultato di un lento processo di rottura avvenuto giorno dopo giorno e che la spedizione in Sardegna aveva solo contribuito ad accelerare. I giacobini ed i loro alleati corsi (tra i quali Arena e Saliceti), inquieti per i progetti dell’Inghilterra nel Mediterraneo e per i legami sentimentali ed ideologici di Paoli verso la sua terra d’esilio, presero al volo l’occasione per abbattere un uomo che aveva subito preso le distanze da loro e che non nascondeva la sua ostilità verso una rivoluzione regicida (Luigi XVI era stato giustiziato il 21 gennaio 1793) e che gli faceva orrore. Affermare che Paoli fosse il responsabile della sconfitta della spedizione in Sardegna significa fare un salto davvero troppo grande. Chiaramente Paoli non era stato mai favorevole alla spedizione e non aveva fatto nulla per garantirne il successo; ma la spedizione non era fallita per ragioni strettamente militari. Paoli non era presente né alla spedizione navale di fronte a Cagliari, né all’ammutinamento della fregata che stava conquistando la Gallura: la rottura tra Paoli ed i rivoluzionari era diventata insanabile per altre ragioni.
La rottura non avvenne immediatamente: Paoli, fedele a se stesso, temporeggiava con un distacco sorprendente. I suoi fedeli reagirono violentemente alle accuse, denunciando gli intrighi di Arena, fondando ad Ajaccio, in aprile, un Club che si contrapponeva a Napoleone ed ai nemici di Paoli (uniti, dal 1791, nella “Société des Amis de la Constitution”) e spingendo Paoli a giustificarsi. Ma Paoli attese il 2 maggio per rispondere a queste manifestazioni di incoraggiamento e scrisse una lettera di una neutralità così sorprendente da dare l’impressione di non rifiutare le accuse pronunciate contro di lui. È difficile giudicare se l’atteggiamento di Paoli sia stato dettato dal temporeggiamento, dal distacco o dalla doppiezza. I suoi nemici l’accusarono di aver voluto attendere il momento opportuno per separare la Corsica dalla Francia, ma inizialmente sembravano voler evitare una rottura brutale ed irrimediabile. Non appena Paoli si giustificò davanti alla Convenzione, sospendendo subito l’avviso di comparizione indirizzato il 2 aprile, Saliceti decise di convincerlo della sua volontà di pacificazione. Ma gli avvenimenti correvano troppo velocemente: la rottura definitiva era nell’aria. Già in aprile il Consiglio Generale aveva denunciato agli altri due commissari l’ambizione, l’avarizia, gli intrighi e la corruzione di Saliceti. Per tutta risposta i commissari replicarono con la creazione di un’amministrazione alternativa con sede a Bastia, per la destituzione di Paoli e la deposizione degli amministratori che gli erano devoti.
Avvenne quindi una scissione inevitabile alla Consulta di Corte del 27 maggio 1793: in questa occasione fu rinnovata la fiducia a Paoli; Saliceti, Multedo e Casabianca furono destituiti dal loro mandato di deputazione; i Bonaparte e gli Arena furono denunciati come seminatori di discordia e venne lanciato un appello a tutti i soldati ed ai funzionari di obbedire solo a Paoli ed ai suoi alleati. Nominato Generalissimo, padrone di tutta l’isola con l’eccezione di Bastia, di Calvi e di San Fiorenzo, Paoli poteva opporsi apertamente alla politica della Convenzione su tutti i fronti: finanziario (rifiuto degli assegnati), religioso (richiamo dei sacerdoti refrattari) e militare, con il riarmo dei partigiani e l’organizzazione della difesa dei porti già controllati. La replica della Convenzione non si fece attendere. Il 17 luglio, dopo aver ascoltato gli interventi di Saliceti e Lacombe, di ritorno dalla Corsica, la Convenzione dichiarò Paoli «traditore della Repubblica francese», lo mise fuori legge insieme a Pozzo di Borgo ed incaricò le forze di terra e di mare di occupare la Corsica.