Stefano Canzio
Nacque il 3 gennaio 1837 a Genova dall’architetto e scenografo Michele e da una Piaggio. Sembra che sui 15 anni abbia seguito, presso gli scolopi, le lezioni di padre Smuraglia, che si diceva maestro di G. Mameli. Nella sua giovinezza, comunque, “si curò poco di studi e anche di politica, procurando di somigliare al padre” (Abba) più nel carattere di “arguto canzonatore”, che nelle attitudini professionali, se è vero che questi, dopo averlo iscritto ai corsi dell’Accademia, dove insegnava, lo dovette ben presto togliere per scarso profitto.
I biografi, a partire dall’Abba, dipingono l’ingresso del Canzio nella vita politica come una folgorazione mutuata dal “clima politico che si era formato in Genova”, nella primavera del 1859, benché alcuni tra loro, come il Morando, non trascurino di notare che “giovanissimo aveva dato il nome alla fratellanza universale dei liberi muratori”, dalla quale sembra avesse già maturato il distacco al rientro dalla sua prima campagna militare.
Accolto con qualche difficoltà, perché dimostrava meno dei suoi 22 anni, tra i Carabinieri genovesi, un corpo scelto di volontari, di cui faceva parte il fior fiore del mazzinianesimo cittadino, sotto la guida del Mosto e del Savi, fu con essi inquadrato tra i Cacciatori delle Alpi. Si guadagnò il grado di tenente e “tornò dalla campagna soldato perfetto e devoto a Garibaldi”. Fu quindi con Bixio e Bertani tra gli organizzatori della spedizione dei Mille, alla quale partecipò sempre nel “drappello” dei Carabinieri genovesi.
Ferito il 25 maggio al ponte all’Ammiraglio, all’entrata di Palermo, dopo una breve convalescenza a Genova, riprese il suo posto al fronte, questa volta col grado di sergente presso lo Stato Maggiore di Garibaldi, al fianco del quale prese parte alla battaglia del Volturno. Era ormai degli intimi del generale e in questa veste assistette all’incontro di Teano. Sulla campagna ebbe l’incarico di inviare delle corrispondenze informative al Movimento di Genova: sembra anche che abbia tenuto un diario, che, rimasto segreto, secondo il Morando, sarebbe stato consegnato dalla vedova a L. D. Vassallo e da questo a G. D’Annunzio. Canzio, che fungeva insieme da segretario, aiutante e consigliere di Garibaldi (Castellini), nell’autunno dello stesso anno otteneva il consenso a sposarne la figlia Teresita, testimone il gen. Avezzana.
Di Garibaldi divenne il portavoce politico più accreditato, soprattutto nell’ambiente genovese, opponendosi in suo nome, all’indomani immediato dell’Unità, a che i “comitati di provvedimento per Roma e Venezia” (nei quali i mazziniani avevano trasformato i “comitati di soccorso a Garibaldi”) servissero come di “bandiera buona per coprire merce di contrabbando” (Curatolo) e, ponendosi su posizioni ancora più moderate di Garibaldi, voleva che questi comitati fossero “d’aiuto, non d’impedimento” al governo.
Tornato a combattere nella campagna del ’66, si guadagnava una medaglia d’oro a Bezzecca, e sembra anche il grado di maggiore (Morando), che invece, secondo altri (Castellini), avrebbe ottenuto un anno dopo a Mentana. Impresa, questa, di cui Canzio fu tra i più fervidi sostenitori, convinto che “Roma non si solleverà, se prima non si sarà sollevata la campagna, e… questa non insorgerà, se non accorreranno i volontari” (Pieri), contro il parere di quelli che, per eludere la convenzione di settembre, volevano con Crispi, “innanzitutto una forte insurrezione romana” (Castellini).
Dopo l’arresto di Sinalunga, aveva avuto l’incarico di sottrarre Garibaldi al confino di Caprera: compito al quale assolse felicemente, nonostante la forte sorveglianza, sbarcando il 19 ottobre col generale nei pressi di Cecina. Pochi giorni dopo iniziava la spedizione. Il 26 ottobre erano a Monterotondo, ma li aspettava Mentana: si deve a lui, che lo trattenne dal “tentativo disperato” di “una carica estrema” (Castellini), afferrando le redini del cavallo e gridando: “Per chi vuole farsi ammazzare generale, per chi?” (Pieri), se Garibaldi ne uscì salvo. Lo seguì agli arresti, al confino di Varignano (La Spezia): dal carteggio intercorso tra Canzio e Crispi, nel mese circa di segregazione, risulta che Garibaldi, amareggiato, pensava di porsi sotto la protezione del console americano, “rinunziando alla cittadinanza italiana”.
L’anno dopo, ai primi di settembre, avrebbe dovuto prendere parte, come delegato della Consociazione operaia genovese, al primo congresso delle società operaie liguri, ma dovette essere, all’ultimo momento, surrogato da altri, per la morte del padre.
Nel contempo, si era costituita in Genova l’Associazione reduci, alla cui presidenza Mazzini lo aveva voluto. Questi contava di portare i garibaldini e lo stesso Garibaldi, sull’eco degli avvenimenti spagnoli, a un pronunciamento repubblicano. Canzio se era disposto a riconoscere che lui e i suoi erano “sulla medesima via in cui siete voi e i vostri”, teneva anche a ricordare d’esserci giunto “da un’altra strada”, e perciò non poteva condividere l’obiettivo di Mazzini di “vincolarsi tutti i lavoratori” (e lo dichiarò pubblicamente su Il Dovere), “imponendo loro una medesima divisa” e cancellando “con un colpo di penna il passato e il presente garibaldino”.
Tuttavia l’esempio spagnolo non lo lasciò insensibile. Sulla serpeggiante inquietudine caddero gli arresti, numerosi a Genova. Canzio, Mosto e altri, arrestati il 27 giugno ’69, sotto l’accusa di “cospirazione… per … cambiare l’attuale forma di governo e … contro la sacra persona del re”, (Curatolo) vennero condannati, ma poco dopo amnistiati.
Le pressioni di Mazzini su Canzio si fecero più insistenti, né si interruppero per la dura risposta di Garibaldi al “mazzinismo” (Ai miei concittadini: due parole di storia). Mazzini chiedeva a Canzio di farsi promotore di un grande meeting popolare per l’anniversario di Quarto, e ancora più tardi, mancato quell’appuntamento, nell’agosto ’70 (a Canzio era da poco morto il figlioletto Lincoln), insisteva: “Voi avete in voi una scintilla di genio militare. Convertitela in scintilla di genio insurrezionale; e siete sicuro di vincere”. Di lì a breve Canzio conosceva “l’apogeo di ogni sua milizia” (Morando), ma sui campi di Francia, dove si distinse nella difesa di Digione, al comando di una brigata, e si conquistò il grado di colonnello brigadiere (venne fatto generale nel ’76).
Dopo il suo rientro a Genova, nel marzo del 1871, Mazzini ebbe a commentare amaramente: “pieni di coraggio e di audacia fuori d’Italia o quando ubbidiscono a Garibaldi… tentennano incerti davanti a una iniziativa in Italia”.
Con la ripercussione della Comune di Parigi e il giudizio negativo su di essa espresso da Mazzini, si riapriva il solco della polemica. Canzio, che era stato eletto socio onorario della Consociazione operaia genovese all’epoca del suo arresto, si voleva dimettere, ma ne venne dissuaso. Più tardi, in novembre, Mazzini stesso lo designava in una lettera alla Consociazione, come proprio sostituto al congresso nazionale di Roma.
La polemica divampò di nuovo, pochi anni dopo la morte di Mazzini, questa volta con Quadrio, prima per i giudizi poco lusinghieri espressi nei suoi riguardi da Garibaldi nel suo I Mille, poi in occasione delle elezioni, quando nella Consociazione prevalse l’astensionismo di Quadrio, e Canzio con altri soci onorari presentò di nuovo le dimissioni, ancora respinte. Queste ricorrenti frizioni, all’interno della Consociazione, con l’ortodossia mazziniana, non gli impedivano di aderire all’organo del circolo repubblicano di Genova, Pensiero e Azione, che uscì dal febbraio all’ottobre del ’76.
Frizioni si produssero ancora nel luglio ’78, in margine alla organizzazione di un meeting popolare per l’Italia irredenta: Canzio, che era del comitato promotore, per dissidio col circolo repubblicano si dimise, ma venne invitato a restare. A fine anno fu designato dal settimo congresso delle società operaie liguri tra i tre rappresentanti al congresso nazionale. Nel marzo ’79, per aver respinto le provocazioni della polizia nei confronti del corteo per l’anniversario della morte di Mazzini, veniva arrestato e condannato a un anno per resistenza. Ridotta la condanna a tre mesi, in appello, il 9 ottobre (Garibaldi per protesta aveva rimesso il suo mandato agli elettori di Roma) veniva amnistiato. Era sempre tra le personalità di prestigio, a cui guardavano le società operaie, che, al congresso regionale dell’80, lo confermavano tra i loro rappresentanti politici. A misura che la Consociazione prese a seguire le vertenze sindacali, si dovette anche al suo intervento se talune di esse, come quella della Rubattino, si chiusero con successo.
Non si sottraeva alle cerimonie ufficiali: nell’82 presiedette il comitato genovese per il monumento a Mazzini; l’anno dopo prese parte alla commemorazione parigina di Garibaldi. In prima fila anche nell’impegno civile: nell’84 dirigeva il comitato ligure per il soccorso alle popolazioni colpite dal colera (venne insignito di medaglia d’oro), nell’87 quello, promosso dalla Consociazione, per le popolazioni terremotate.
I suoi fremiti patriottici assunsero coloriture equivoche quando, all’indomani di Dogali, avrebbe “voluto accorrere in Africa con una legione di garibaldini”, (Galante Garrone). Lo stesso anno, per le amministrative, si fece promotore di una lista liberale, sostenuta da Crispi, provocando malumori nella Consociazione: ancora una volta avrebbe voluto dimettersi, ma ne fu dissuaso. L’anno dopo, per il “contegno poco corretto di lui in diverse circostanze” (Montale), il malumore nella Consociazione si fece aperta opposizione; se ne chiese la cancellazione da socio onorario, ma la proposta, sia pure a lieve maggioranza, venne respinta.
La sua arca di riferimento era pur sempre l’Estrema (negli anni ’80 simpatizza per la Lega democratica; nel maggio del 1890 segue i lavori del congresso del patto di Roma) ed è da credere si riconoscesse nelle posizioni di Cavallotti (nel dicembre ’92 si manifestava “dolentissimo” per un attacco che questi ebbe a subire da Colajanni), nella continuità di una condotta, pur tra generosi sussulti, insofferente degli intransigentismi, repubblicani prima, astensionistici poi. Alla fine del 1890 venne mandato in Parlamento, dalla circoscrizione di Ferrara: fu una esperienza breve ma attiva, che si concretò nella partecipazione a varie commissioni. In quel periodo si recava di frequente in Sardegna, in qualità di direttore delle saline, gestite dalla Società generale di navigazione.
Alla Sardegna s’interessò, redigendo una proposta di colonizzazione agricola, fondata sul reperimento di capitali a mezzo di obbligazioni garantite dallo Stato. Tale proposta, che si accompagnava a una disamina acuta delle condizioni dell’isola (per la quale tra l’altro chiedeva un articolato decentramento amministrativo), restò tra le pagine di un opuscolo (Provvedimenti per l’isola di Sardegna, Genova 1892), anche perché Canzio cadeva alle successive elezioni.
Alla possibilità di una nuova sua candidatura accennò, dieci anni dopo, Giolitti, ma evidentemente il governo ritenne di riservargli un compito non meno delicato, chiamandolo, nel 1903, alla presidenza del consorzio autonomo per l’esecuzione delle opere e per l’esercizio del porto di Genova, appena istituito.
Canzio dovette subito affrontare la grave vertenza tra scaricatori di carbone e negozianti. Gli stessi scaricatori lo avevano chiamato in causa, rimettendosi alla mediazione del consorzio, mossa alla quale i negozianti avevano risposto dichiarando la serrata. Il Canzio tagliò netto nel conflitto, avocando al consorzio le prestazioni di lavoro per il carico e lo scarico del carbone.
Alla prima assemblea generale del consorzio, il 4 agosto 1903, mentre da un lato elogiava le organizzazioni operaie, riconoscendo in esse “una garanzia d’ordine”, d’altro canto dichiarava il consorzio solo organismo competente ad emanare norme per il governo del porto ed aggiungeva: “non si deve più negare il diritto che ci siano camere del lavoro (va ricordato che, nel dicembre 1900, aveva compiuto un passo presso Saracco per la ricostituzione della Camera del Lavoro di Genova)… al modo stesso che vi sono camere di commercio” (Perillo).
Nell’operato del Canzio i socialisti riformisti vedevano realizzarsi le condizioni di quella “collaborazione mediata e indiretta tra dei poteri costituiti illuminati e un movimento operaio responsabile e compatto” (Procacci), che era nei loro obiettivi. Ma tale politica comportava l’aperta discriminazione dei settori già addomesticati del movimento operaio, come apparve quando egli negò udienza a una delegazione della Federazione dei lavoratori del mare, provocando una feroce critica ai riformisti liguri, per bocca di Lazzari, al congresso di Bologna del 1904; mentre, per converso, due anni dopo, il plauso delle organizzazioni locali per l’opera di mediazione da lui svolta in occasione della agitazione degli operai metallurgici del porto, suscitava “indignazione” al congresso di Milano, costitutivo della C.G.d.L.
Resta a suo merito indubitabile l’esser arrivato “a fare del porto di Genova, mediante il consorzio del porto, il primo emporio commerciale e marittimo del Mediterraneo” (Ciccotti), fondendo in questa attività tutte le energie di una ritrovata giovinezza, fino al repentaglio della vita. Recatosi, infatti, durante una forte tempesta, a guidare le operazioni per domare un incendio, che era scoppiato nel porto, veniva colpito dal male, che lo doveva uccidere.
Canzio morì a Genova il 14 giugno 1909.