Garibaldi a tavola
“La mensa era imbandita…. Fumavano sulla tavola due grandi piatti di merluzzo salato con fave condite con olio. Eranvi altri piatti di merluzzo pesto, impastato colla farina e fritto. Fichi secchi, zibibbo e cacio compivano il desinare. Mi parve che l’ospite mangiasse con molto appetito.” Garibaldi a Caprera di Candido Augusto Vecchi in visita sull’isola nel 1861
Cosa mangiavano Garibaldi e i suoi ospiti?
Ai tempi di Garibaldi la cucina era attiva dalle prime luci dell’alba, l’eroe e la sua famiglia consumavano i prodotti di stagione, principalmente quelli che si coltivavano a Caprera, che accompagnavano il pescato locale o la carne, poca, frutto di qualche battuta di caccia, in cui si procurava il cibo strettamente necessario alla famiglia e alla piccola comunità di amici e ospiti.
Nella sua azienda di Caprera, dismessi i panni da generale e indossati quelli dell’agricoltore, Giuseppe Garibaldi portò sulla tavola prodotti freschi. Direttamente dal proprio orto, limitando al massimo gli altri. L’eroe dei due mondi mangiava pesce e in quantità minore carne. «Le epistole e i diari restituiscono la figura di un uomo che amava la cucina semplice, basata sui ritmi delle stagioni, fatti salvi stoccafisso, baccalà, olive in salamoia e prodotti caseari, nella sua casa bianca mancavano conserve e prodotti a lunga conservazione».
Giuseppe Garibaldi era ghiotto di caffè. L’abbiamo visto leggendo le pagine delle memorie di Giuseppe Bandi, ma una ricerca più approfondita permette di rilevare come il caffè fosse un elemento ricorrente nella storia del personaggio. Garibaldi, in America, fu per qualche tempo al servizio della Repubblica del Rio Grande do Sul, al comando di una nave armata per la guerra da corsa, il “Farrapilha”, ribattezzata “Mazzini” in onore del patriota italiano. Il giorno 8 maggio 1837 Garibaldi, con questa nave, andò all’arrembaggio di una nave nemica, la “Lucia”, catturandola. La nave aveva un carico di caffè destinato alla Russia, e Garibaldi se ne impossessò come bottino di guerra e lo rivendette a un mercante di Montevideo, riuscendo a farselo pagare solo con la minaccia di una pistola puntata. Pochi giorni dopo, in uno scontro con una nave brasiliana, Garibaldi venne ferito alla testa e svenne. Riprese i sensi solo dopo che un suo fido, certo Carniglia, gli versò in gola una buona dose di caffè.
Dopo aver conquistato la città brasiliana di Laguna (da lui ribattezzata “Giuliana”) vi si fermò per qualche mese, abbandonando per qualche tempo il caffè in favore del “mate”, un infuso stimolante molto diffuso in quei luoghi.
Tanto stimolante che proprio a Giuliana-Laguna Garibaldi conobbe e rapì Anita. Arriviamo alla difesa di Roma nel 1849. Alcuni testimoni raccontarono di averlo visto sfidare le pallottole dei francesi seduto su un muretto di Villa Savorelli, sul Gianicolo, con una tazza di caffè in mano e un sigaro in bocca. Dopo la caduta della Repubblica Romana, in fuga attraverso le Romagne braccato dai soldati austriaci, Garibaldi cenò una sera in un fienile con pane e uova dopo aver bevuto una tazza dell’immancabile caffè all’“Osteria del Genio” di Palazzolo.
Dopo molte peripezie, giunse a Caprera, dove per prima cosa piantò un campo di fave, baccelli di cui era goloso.
Ma Garibaldi, anche se era ghiottissimo di caffè, era molto parco nel cibo. Quando, a Palermo, si era installato nel Palazzo Reale, i plenipotenziari borbonici giunti per trattare l’armistizio lo trovarono che stava sbucciando un’arancia con un pugnaletto. A Teano, qualche tempo dopo, Vittorio Emanuele II lo invitò a colazione ma egli rifiutò dicendo al re che aveva già pranzato.
Mentiva: poco dopo, seduto su un gradino, mangiava pane e formaggio con il suo stato maggiore.
Dopo essere rimasto ferito sull’Aspromonte, dicono le cronache, Garibaldi bevve del brodo di capra che lo ristorò.
Rinchiuso nella fortezza del Varignano, nelle celle destinate ai condannati ai lavori forzati, non gradiva il cibo del carcere, ma la sua amica Speranza von Schwartz cucinava i suoi piatti preferiti e glieli portava in prigione. Liberato, andò in Inghilterra, dove l’aristocrazia lo coccolava invitandolo a pranzi, cene e feste.
Ma non amava la cucina britannica, la giudicava troppo sofisticata, e quando poteva mangiava di nascosto pane e formaggio. Ogni mattina s’alzava presto per farsi da solo il caffè, visto che quello preparato nelle cucine del duca di Sutherland, di cui era ospite, non gli piaceva.
Tornato a Caprera, riprese la solita vita con il solito menu che, si lamentava il suo fido Stefano Canzio, era a base “solo di brodo e carne di capra”. Ma era un’esagerazione.
A Caprera, infatti, c’erano centoquaranta mucche, duecento capre e cento pecore. Latte e carne non mancavano. Poi giungevano regali da ogni dove: casse di pasta, sacchi di riso e zucchero, e tanto caffè. La figlia Teresita curava un ben fornito pollaio, e anche da lì uscivano uova e carne. E spesso Teresita, bravissima amazzone, andava a caccia in Gallura tornando con qualche cervo o cinghiale.
Nella bella biografia di Garibaldi scritta a quattro mani da Indro Montanelli e Marco Nozza si può leggere: “Aveva sempre mangiato poco, gli unici stravizi li faceva nella stagione delle fave: per mesi, esse erano il suo unico piatto insieme al pecorino. Altre sue ghiottonerie erano il minestrone alla genovese col pesto, il baccalà e lo stoccafisso. Carne, ne voleva di rado. Ma quando gliene capitava, la cuoceva alla sudamericana, mettendone un blocco crudo sui carboni ardenti, raschiandone e mangiandone il sottile strato annerito dalla brace e rimettendola ad arrostire. Ma il più delle volte si contentava di una manciata di olive salate e di un pomodoro tagliato a fette e condito di basilico, olio e acciuga. Vino, ne beveva soltanto un mezzo bicchiere annacquato a ogni pasto”.
Curioso il suo pranzo di nozze, quando ormai vecchio riuscì finalmente a sposare Francesca Armosino, dopo la dichiarazione di nullità del suo stranissimo matrimonio “rato e non consumato” con la marchesina Giuseppina Raimondi. A Caprera, dove il sindaco della Maddalena, Bargone, celebrò le nozze con il rito civile, Francesca e Teresita avevano preparato l’abbacchio al forno. Ma lo sposo, rincantucciato nella sua carrozzella, dalla quale ormai non scendeva più, mangiò solamente un piatto di lenticchie.
Uno dei piatti preferiti da Giuseppe Garibaldi era la pissaladière, una pizza bianca condita con le cipolle, che necessitavano di una lunga cottura in tegame, a cui si aggiungevano le acciughe, i capperi, le olive nere snocciolate, il timo, l’alloro.
La pasta era semplice, a base di farina, acqua, sale, olio e lievito naturale.
Noi ci immaginiamo la preparazione della pissaladière nella cucina della casa Bianca di Caprera: la farina e l’acqua mescolate nel recipiente in coccio, la pasta ottenuta tirata con il mattarello, il profumo delle cipolle cotte con l’olio d’oliva nel tegame sui fornelli in ghisa.
Il mortaio in marmo bianco, esposto sopra al caminetto della cucina di casa Garibaldi, venne portato da Genova dal Generale per la preparazione del pesto. Le sue origini liguri, entrambi i genitori provenivano infatti dalla Liguria, certamente influenzarono le sue abitudini alimentari.
“Il generale volle che si salutasse il mio arrivo con un piatto di semplici maccheroni. Poi il pesce squisito, pernici e cinghiali arrosto, frutti secchi di Calabria e vino di Capri” (Garibaldi e Caprera, Candido Augusto Vecchi, ricordi di una visita sull’isola nel 1861)
La bibliografia su di lui è sterminata. Studiosi e storici hanno analizzato e vivisezionato le complesse vicende politiche, le infinite battaglie e i prestigiosi traguardi raggiunti. Dalla prima metà dell’800 (a volte con non poca stucchevole retorica…) fino ad arrivare alle recenti biografie critiche realizzate con l’accesso ad inedite documentazioni, Garibaldi non è mai passato di moda. Da non storico vorrei porre all’attenzione di chi legge, alcuni episodi contenenti aspetti umani curiosi, singolari e a volte bizzarri – o poco noti – di una personalità quanto mai complessa e variegata.
Si potrebbe pensare che si tratti di storia minore, aneddoti sparsi qua e là, ma non è così.
Tali “sfaccettature” costituiscono le fondamenta per conoscere meglio e più compiutamente un uomo straordinario con una popolarità ancora vasta in tanti paesi del mondo.
Quando nacque, il 4 luglio 1807 a Nizza Marittima, non era italiano. Per l’esattezza suddito francese, regnando Napoleone il grande. L’uomo che per l’intera sua esistenza combatté per un’Italia libera, unita e democratica, si trovò a vivere una circostanza in qualche modo paradossale.
Nizza, terra di frontiera, dal 1793 era stata annessa alla Francia a seguito dei fermenti rivoluzionari che tante conseguenze avrebbero avuto nell’intera Europa. Fino a quindici anni prima della nascita del Generale, faceva parte del piccolo Ducato dei Savoia; ridivenne parte del Regno piemontese, nel 1814 in piena Restaurazione, a seguito delle deliberazioni del Congresso di Vienna… e Giuseppe Garibaldi ridivenne italiano. Ma non finì lì, perché negli anni successivi la cittadina tornerà alla Francia insieme alla Savoia. Ma questa è un’altra storia. Quando nel marzo del 1860 – dopo la ratifica della cessione alla Francia – andò a lamentarsi con Vittorio Emanuele II per il fatto che il Conte di Cavour lo avesse reso “straniero in Patria”, il sovrano gli rispose: “umanamente vi comprendo caro Generale, ma non dimenticate che con quegli accordi anche la Savoia non è più italiana, e per oltre un millennio è stata la culla della mia Dinastia…”.
Fu un ragazzino vivacissimo e coraggioso. Con il mare, col quale viveva in totale simbiosi, ebbe sempre un rapporto speciale. A otto anni salvò una donna caduta in uno stagno, mentre a dodici trascinò a riva alcuni ragazzi caduti in acqua per il rovesciamento della loro piccola barca. Nelle sue Memorie curate da Dumas scrive: “quanto al nuoto, dove l’abbia imparato non me lo ricordo; mi sembra d’averlo sempre saputo e di essere nato anfibio”. In quegli anni della fanciullezza visse una tragedia familiare della quale non scrisse un rigo parlandone con estrema reticenza. Lo stesso segretario-scrittore- patriota, Giuseppe Guerzoni, lo sentì accennare qualcosa senza però riuscire a venire a capo di precisi dettagli. Ci viene in soccorso l’esploratore inglese Theodore Bent, ospite a Caprera pochi anni prima della morte del Generale. Durante la notte si era chiuso nella sua stanza da letto, e al mattino il padrone di casa gli chiese: “Di cosa avete paura, nella casa di Garibaldi, per chiudere a chiave il vostro uscio? “Dopo lo stupore dell’ospite l’Eroe gli raccontò tutto.
Era un bambinetto e fu testimone della morte terribile della sorellina Teresa di soli due anni e otto mesi. Morì insieme alla nutrice nel letto che prese fuoco, vanificando gli sforzi dei soccorritori perché l’uscio era chiuso a chiave. Tra le fiamme non ebbero scampo. Fu questa la causa per cui negli anni a venire le porte della casa di Caprera non ebbero mai le chiavi.
Ma l’Eroe dei Due Mondi aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi? La sterminata iconografia risorgimentale ci ha tramandato una figura stereotipata tanto dura a morire… Qualche volte veniva raffigurato come una specie di Cristo Redentore, con relativi lunghi boccoli color del sole; un santino laico che non corrispondeva per niente alla realtà. Sarebbe bastato un documento. Quando il 26 dicembre del 1833 venne arruolato nella Marina Mercantile assumendo il nome di guerra di Cleombroto, il suo foglio matricolare (Museo Navale di La Spezia) recita: “capelli e cigli rossicci – occhi castagni – fronte spaziosa – naso aquilino- bocca media – mento tondo – viso tondo – colorito naturale – segni particolari nulla…”.
Ulteriore conferma la fornisce la figlia Clelia nel suo libro di ricordi, quando si rivolge al padre dicendole: “io capelli rossi come barba di papà” Il Generale le rispose in dialetto nizzardo: “pelo rosso, mari pelo” (pelo rosso cattivo pelo). Per una descrizione fisica più dettagliata di Garibaldi ci aiuta ancora Giuseppe Guerzoni che conosceva bene il nizzardo. Lo scrittore mantovano, contemporaneo dell’Eroe, fu con lui volontario nel 1866 e nel 1867 e per tanti anni visse al suo fianco come amico devoto. Nella biografia pubblicata nel 1882 a Firenze, scrive di lui: “Perché Garibaldi non poteva dirsi un “bell’uomo”, nel senso più usato della parola. Era piccolo, aveva le gambe leggermente arcuate dal di dentro all’infuori, e nemmeno il busto poteva dirsi una perfezione… Ma su quel corpo s’impostava una testa superba; una testa che aveva, secondo l’istante in cui si osservava, del Giove Olimpico, del Cristo e del leone”. Ora, al netto di qualche volo pindarico di troppo, bisogna riconoscere che la descrizione è precisa nei dettagli e non manca di una singolare e cruda sincerità.
Altri biografi di quel tempo ne esaltarono la voce calda e armoniosa, da tenore, intento a cimentarsi nel canto di famose romanze. Altro pregio non piccolo era che sapeva ascoltare; non era un tipo logorroico con la voglia di mettersi al centro della scena…
Ebbe la prima cotta a vent’anni per una giovanetta nizzarda di nome Francesca. Come spesso accade si giurarono eterno amore, con la promessa che al ritorno da uno dei suoi frequenti viaggi per mare si sarebbero sposati. Quando dopo quattro anni ritornò e la vide in un giardino che accudiva amorevolmente un bambino, capì immediatamente: Francesca era andata a nozze! Fatti che capitano anche oggi, e che non risparmiano neanche i grandi eroi! Nel 1880, sposando dopo tante peripezie Francesca Armosino, lo raccontò alla figlia Clelia, sottolineandole come il suo primo e ultimo amore avessero lo stesso nome: Francesca.
Garibaldi era uno scrupoloso igienista, e considerando che visse nell’ottocento quando il concetto e la percezione dell’igiene personale non erano quelli dei nostri giorni, non si può non restare sorpresi e pure ammirati. Nonostante i reumatismi che gli fecero dolorosa compagnia per tutta la vita, faceva spesso dei bagni ghiacciati – inverno ed estate – convinto che il tutto giovasse a scacciare dal corpo “gli umori cattivi”; ai quali seguivano lunghe saune all’interno di strani apparecchi che gli arrivavano dall’Inghilterra. Racconta il solito Guerzoni: “del suo corpo era curatissimo. Usava prendere frequenti bagni e lavacri di ogni sorta. Aveva delle mani, dei denti, dei capelli una cura attentissima; non avreste trovato sulle sue vesti, spesso logore e strappate, una sola macchia…”
Era praticamente astemio. Dell’acqua era un vero conoscitore ed estimatore. Ne decantava, ai vicini di tavola, le grandi qualità diuretiche, lasciando però scettici alcuni compagni che di quando in quando “fuggivano” alla Maddalena… per farsi un goccetto di buon vino. Il Generale era parco nel mangiare, preferendo alla carne il pesce che a Caprera non mancava mai. La sera chiudeva la giornata con una tazza di latte freddo di capra. Molti volontari, in piena battaglia e sotto il grandinare dei colpi, ricordavano di averlo visto sbocconcellare un pezzo di formaggio accompagnato da acqua fresca. Sempre tranquillo. Sereno.
La storiografia ufficiale ci ha raccontato di un uomo in perenne camicia rossa, poncho variopinto e cappellino ricamato. Ma è largamente inesatto, anche se forse vestì in quel modo e con una certa continuità a partire dal 1860. Per lunghi periodi indossò una pesante giacca blu da marinaio alternata da un grosso soprabito abbottonato fino al mento. La mitica camicia rossa la portava spesso a Caprera, quando era impegnato a potare, vangare, accudire i suoi animali o innestare piante di viti; una specie di tuta da lavoro nelle quotidiane fatiche di agricoltore. Lui la nobilitava con il lavoro dei campi…oltre che sui campi di battaglia.
Nel 1852 avvenne un fatto singolare, poco conosciuto e molto divertente. Garibaldi era imbarcato sul veliero Carmen che dal porto di Callao in Perù era diretto a Canton con un carico di guano…ma forse è meglio lasciare la parola alla fonte del fatto, ad Augusto Candido Vecchi più noto con il nome di Jack la Bolina, figlio di Candido Augusto Vecchi, antico compagno del Generale nella cui villa di Sturla si approntarono i preparativi della spedizione dei Mille in Sicilia.
Un giorno nella casa dei Vecchi Garibaldi dovette spogliarsi per farsi visitare da un medico: “Garibaldi – come tutti sanno – usava biancheria finissima ed avendo notato che mio padre stava osservando il tessuto delle sue mutande, lui disse che le aveva fatte fare a Canton in Cina, e che avendo dato per modello un paio di mutande vecchie, le quali avevano nella parte inferiore un rammendo, il sarto cinese aveva rifatto quel rammendo lì, su tutte le mutande che aveva tagliate e cucite; e il Generale lo mostrava infatti nel paio che aveva indosso”. Uno zelo e uno scrupolo davvero impareggiabili!
In una teca nel Museo Centrale del Risorgimento di Roma, sono conservati i blu jeans più antichi del mondo. Sono di Giuseppe Garibaldi. Quando entrò a Palermo nel 1860 cavalcando la cavalla Marsala, li indossava con in bella evidenza una toppa – sempre in tela jeans – sul ginocchio sinistro. Stranamente nella lettera di autentica del cimelio è scritto che la toppa è posizionata sul ginocchio destro: una curiosa svista ottocentesca. E’ accertato che il tessuto originale dei jeans nacque negli stabilimenti di filatura, tessitura e colorazione di Genova. Fin dal 1600 quelle robuste stoffe in tinta blu venivano preferite dagli operai e dai marinai del porto, e spesso anche usate per fare vele e velacci di ogni tipo. Blu jeans sta a significare “blu di Genova”, e quel tipo di pantalone veniva anche chiamato “genovese”. Possiamo azzardare che quelli conservati nella teca a Roma risalgano agli anni 1850/1855. Ad ogni buon conto Garibaldi li indossò almeno cent’anni prima di Marlon Brando o James Dean, icone storiche per i giovani di tutto il mondo che portavano sempre i jeans…
Ma come arrivarono al Museo del Risorgimento di Roma? La storia è questa: a Caprera il Generale si accorse che un vecchio giardiniere aveva dei pantaloni che cadevano letteralmente a pezzi. Incaricò un certo Gallieno, suo collaboratore, di consegnare all’uomo quel suo paio di calzoni indossati a Palermo, e che molti volontari ricordavano perfettamente. Il Gallieno, che conosceva bene il valore simbolico del cimelio, decise di tenerseli e regalargli in cambio un paio di pantaloni nuovi di zecca. Ne parlò con Garibaldi che non ebbe nulla da eccepire. Nel 1863 Gallieno si ammalò e venne curato dal dottor Riboli che era spesso ospite a Caprera. Dopo la guarigione, per riconoscenza verso il medico, gli regalò i famosi pantaloni con la toppa, che verso la fine dell’Ottocento pervennero al Museo di Roma.
E a proposito di toppe, il nizzardo aveva idee molto chiare. Una volta disse alla piccola Clelia: “ricordati che una toppa ben messa non è un disonore, ma una macchia si!”
Concludendo, vorrei fare una riflessione su una circostanza che gli studiosi non hanno mai approfondito… almeno credo. Nel corso della sua vita Garibaldi non amò fregiarsi di medaglie, decorazioni, croci al merito di vari metalli o nastrini colorati; a differenza delle migliaia di ufficiali e soldati che in ogni occasione ne esibivano in quantità impressionante! Magari qualche volta avrà messo la Stella dei Mille, ma le testimonianze fotografiche non lo confermano. Nelle tante immagini, nei quadri, nei disegni o nelle incisioni, la sua camicia rossa è attraversata solo dalla fettuccia che sorregge gli occhiali, spesso collocati nel taschino superiore. Occhiali e magari l’orologio. Queste le sue personali medaglie.
E’ anche per questo, per la modestia e ritrosia che manifestò sempre nei confronti di ogni forma di ostentazione personale, che i popoli di tutto il mondo continuano ad amarlo e a sognarlo.