Garibaldi era il cacciatore, Caprera la preda
Le scarse precipitazioni non predisponevano sufficienti infiltrazioni nella roccia granitica dell’isola, per avere gli effetti desiderati, il Generale dovette perforare fino a raggiungere uno strato permeabile molto profondo derivante dai più alti monti della Sardegna e della Corsica. In un appezzamento chiamato Tola, Garibaldi mise in pratica la sua forte volontà di migliorare il terreno. In quel campo c’era una fonte d’acqua che oltre a servire per l’abbeveraggio del bestiame, riempiva il terreno con acque stagnanti nocive per le colture. Per eliminarle l’Eroe ricorse a scoli adatti e alla costruzione di fogne rivestite da pietre di granito che raccoglievano l’acqua e la convogliavano in fossi aperti lateralmente al campo. Egli bonificò cosi con tre fosse-fogna la vigna, il prato e il campo da arare tanto da ottenere da questi terreni una produzione di grande soddisfazione.
Nel 1855 un viaggiatore di statura mezzana e ben tarchiato della persona, mosso da amor di caccia e da curiosità approdava ad un’isola del mar Tirreno. Aveva maestoso, ma non grave il passo, spaziosa e prominente la fronte, nobile e accostevole anche nella severità l’espressione della sua faccia abbronzata, vivace lo sguardo, lunghi e di un biondo assai caldo i capelli, malgrado la canizie incipiente. Portava calzoni larghi, abito chiuso fino alle radici del collo, cappello a larghe falde, armi, tasche e tracolla da cacciatore.
L’isola incolta, quasi deserta, era ingombra di massi granitici e pressoché sconosciuta, essendone perfino dimenticato il segno ed il nome nella maggior parte delle carte e dei dizionari geografici. Ma il cielo ridente,il clima dolcissimo il luogo tranquillo e solitario, assai confacente alle disposizioni d’animo del cacciatore, produssero in lui un’impressione soave e profonda e un’attrattiva possente sì da deciderlo ad acquistare una parte dell’isola per fissa dimora.
Ritornato al paese nativo, che allora era terra italiana (e che pur sempre sarà malgrado la straniera dominazione), fece immantinente costruire una casa di legno, ed erettala nella migliore posizione dell’isola, vi si recò ad abitare colla figlia.
Garibaldi dopo avere in quel modo che tutti sanno, combattuto a Roma contro i difensori del Papa; dopo la meravigliosa marcia verso Toscana e l’ardito tentativo di penetrare a Venezia, che allora forte continuava a resistere al poderoso esercito austriaco, che da 14 mesi la bloccava; dopo avere accolto l’ultimo sospiro dell’amatissima sua Anita in una capanna presso Ravenna, e data segreta sepoltura all’adorata salma, ridotto a patti l’esercito piemontese a Novara, ristaurato dai francesi il prete a Roma, soggiogata la generosa Venezia, invasa la Penisola dalle Alpi alla Sicilia dai soldati austriaci e borbonici, i nemici politici e letterati d’Italia a grado loro potevano, con tono di trionfo e con insultante compassione, affermare che l’Italia era proprio la terra dei morti. Garibaldi allontanatosi, e dopo essere stato a Nizza per abbracciare la più che settuagenaria madre ed i figli, si diresse a Tunisi.
Colà il Bey gli vietò discendere a terra, e il divieto fu consigliato, anzi si disse ordinato, dal console di Francia. Ricondotto in Sardegna sbarcò alla Maddalena, e dopo poco venne trasportato a Gibilterra; ma rifiutato dal console spagnolo, fu portato a Tangeri, e vi stette sei mesi, ospitato in casa del console generale Carpanetti. Trovato finalmente asilo in America, coadiuvava chi gli dava ricovero, lavorando modestamente in una manifattura di candele. Passato a Lima ebbe un da un negoziante genovese il comando di una nave, colla quale fece viaggi nella Cina. Ma non potendo resistere al desiderio di vivere in suolo italiano, presentendo forse non lontano il momento di nuovamente adoperarsi per la Patria, ritornò alla Maddalena di dove passò alla vicina Caprera.
Per l’uomo d’azione però la solitudine non poteva essere riposo; e se non gli era dato concepir piani di guerra e brandire la spada per difesa degli oppressi e della giustizia, la sua mente ed il suo braccio altre occupazioni dovevano cercare, e queste solo l’agricoltura poteva offrirgliele. E il piano di coltivar Caprera non poteva sorgere che nella mente di un uomo come Garibaldi. Non terreni arativi, non prati, non vigneti, non orti, non piante produttive, non una coltivazione insomma nella quale altro non occorresse che fendere il solco e seminare per raccogliere.
No: tutto questo non avrebbe potuto fermare l’attenzione di Garibaldi. Difficoltà di suolo, difficoltà di clima, mancanza di fabbricati, di concimi, di terreno, di tutti insomma gli elementi della coltivazione: ciò è quanto occorreva a Garibaldi; e ciò ritrovava in Caprera, nella quale per coltivare non bisognava solamente migliorare, ma occorreva invece conquistare, trasformare, creare.
Due maniere per altro ci sono per coltivare: con l’arte e colla scienza; due specie di coltivatori: l’agricoltore e l’agronomo. E’ inutile dire che Garibaldi voleva coltivare scientificamente, che vuol dire largamente, coraggiosamente: voleva essere agronomo. e fornito com’è di grande ingegno, e sapeva che la scienza non è retaggio naturale di nessuno, nemmeno del genio, e che la scienza agronomica, come qualunque altra, non si acquista che studiando. Diede mano perciò ai libri, e primo ch’ebbe il non meritato onore di essere letto da lui, fu l’Orlandini. In appresso ne scorse altri migliori, nostrani specialmente ed inglesi, e poté così fermare nella sua mente il piano di ridurre a coltivazione Caprera.
Come ottenesse l’intento e quanto mi propongo di far conoscere in questo scritto. Sagace e risoluto nei campi della scienza e del lavoro, come in quelli delle battaglie, il suo grande e forte carattere si rivelò non meno negli uni che negli altri; onde che nel superare tutti gli ostacoli, nel combattere e vincere la ribelle natura della sabbia e della roccia, fu altrettanto Garibaldi come nel combattere e vincere le squadre dei nemici della libertà: fu veramente, come s’è detto un agronomo conquistatore.
Nel forno, ricavato da una roccia naturale, si sfornavano anche cinquanta pagnotte al giorno.