Garibaldi e Leggero in Uruguay
L’anelito alla libertà dei popoli ebbe per molti il banco di prova, anzi, la scuola di vita, nell’America Latina, dove Garibaldi, Culiolo e altri che rappresentavano il fiore della gioventù italiana andarono a battersi contro quelle tirannidi. A Montevideo si formò nel 1843 la gloriosa Legione Italiana, e l’eco dei suoi atti di eroismo varcò l’oceano e infiammò altri giovani. Tra questi, un maddalenino, Antonio Susini, nipote del sindaco dell’isola, fuggì di casa e corse ad arruolarsi nella Legione, divenendo amico di Garibaldi e raggiungendo in breve per il suo valore il comando in capo della compagine italiana in Uruguay. Ma intanto, come scrive Garibaldi nelle sue Memorie: “L’insofferenza delle popolazioni italiane al dominio straniero, che fosse al colmo, già era manifesto in tutte le corrispondenze che giungevano nel Plata. L’idea del ritorno in patria e la speranza di poter offrire il nostro braccio alla sua redenzione da molto tempo facevan palpitare l’anime nostre”.
E così nella primavera 1848, due gruppi di Italiani si imbarcarono per l’Europa carichi di un inarrestabile e struggente “furor patrio”. Del secondo faceva parte, insieme con Garibaldi ed altri 60 uomini, Giovan Battista Culiolo.
Nell’anno che seguì lo sbarco dei reduci a Genova, fino alla difesa di Roma, Culiolo (Maggior Leggero, cioè il nome di battaglia) non abbandonò mai il suo Generale. Chi fosse esattamente il Maggior Leggero lo si può ricostruire attraverso l’opera del suo Biografo Umberto Beseghi e le parole di profondo affetto di Garibaldi nelle Memorie. Nacque a La Maddalena il 17 settembre 1813 da Silvestro e Rosa Fienga.
“La sua libera educazione infantile – scrive il Beseghi – avvenuta senza freni e senza restrizioni fra scogli e dirupi, scalzo e succintamente vestito, alla caccia di gabbiani, di falchi e di aquile, gli avevano creato lo spirito indomito del guerriero amante della libertà, temprato a tutti gli ardimenti”.
Non aveva compiuto gli 11 anni quando si arruolò in Marina; per la sua straordinaria agilità e sveltezza gli fu dato il nome di “leggero”. Dopo 15 anni di servizio nella regia armata, ottenne il grado di marinaio di 1° classe. Il 3 marzo 1839, avendo la sua nave fatto scalo a Montevideo, Leggero disertò per seguire Garibaldi, di cui aveva inteso le gesta. Egli aveva anche appreso sulla nave gli ideali e i programmi della Giovine Italia; si rivolse perciò alla locale sezione comandata da Giovan Battista Cuneo, che lo arruolò nella 1° Legione Italiana. Insieme con Antonio Susini, fu imbarcato sulla piccola flotta di Garibaldi e si batté da prode in tutte le battaglie che questa, sempre impari di forze, dovette sostenere. Quando finivano le munizioni, Leggero gettava nei cannoni tutta la ferraglia che riusciva a racimolare e sparava sventagliate di ferri vecchi sui nemici. Tornato in Italia partecipò con Garibaldi a tutte le campagne col gradi di capitano: essi misero in atto, per la prima volta in Europa, la tattica della guerriglia imparata e sperimentata in America, che aveva il potere di gettare scompiglio e panico tra le file austriache abituate all’ordine classico della strategia militare del tempo. A Morazzone si videro 1.300 garibaldini scatenati mettere in fuga 18.000 austriaci!
Leggero seguì il generale in Svizzera, poi a Nizza e a Genova: qui venne arrestato e condannato a morte per la sua diserzione dalla nave Regina a Montevideo. Ma poco dopo, per interessamento di Garibaldi lo ritroviamo col grado di maggiore alle sue dirette dipendenze. Il 27 aprile 1849 il Maggior Leggero entra in Roma alla testa dell’avanguardia garibaldina. Nella battaglia fu un leone: i suoi uomini rimasero galvanizzati dalla sua agilità, dalla fantasia dei suoi attacchi, dall’irruenza con cui affrontava più nemici per volta in corpo a corpo furibondi; e quindi la compagnia fu tra quelle che maggiormente contribuirono alla fuga delle truppe francesi verso Civitavecchia. La Repubblica Romana parve per un breve tratto essere salva. Ma Austria, Spagna e Regno di Napoli le si coalizzano contro: Garibaldi comandò una spedizione contro Napoli e il Maggior Leggero fu alla testa della 4° Centuria. Poi venne la battaglia decisiva di Roma, il 3 giugno, con il famoso episodio di Villa Corsini o Casino dei Quattro Venti, in cui costrinse i francesi alla fuga.
Ma la posizione conquistata non è sostenibile per un pugno di uomini contro un esercito: il Colonnello Masina cade morto; nel cannoneggiamento terribile, viene ferito Goffredo Mameli, l’altro eroico sardo. Leggero resiste fino a notte inoltrata, quando deve ritirarsi ferito a sua volta al corpo, alla testa, a una mano. Ma raggiunse Garibaldi e con lui continuò a combattere per la difesa della porta di S. Pancrazio, finché cadde nuovamente ferito ad un piede. Seguì la necessaria ritirata dei garibaldini e il Maggior Leggero fu creduto morto. Invece si nascose, così ridotto, e soltanto il 29 giugno, cioè dopo 15 giorni, si presentò mezzo morto all’ospedale romano. Lo ricucirono alla meglio; ma il 14 luglio fuggì e si nascose di nuovo, perché il suo unico pensiero era quello di cercare di raggiungere il suo Generale. Gli ci vollero altri 14 giorni per essere in grado di stare in piedi, ma appena ciò fu possibile, partì a cavallo sulle tracce dell’armata garibaldina in fuga, seguendo la pista di uomini sfiniti, sfuggendo all’inseguimento delle pattuglie nemiche senza soste, giorno e notte.
Ritrovò Garibaldi, con Anita già morente, il 1° agosto e ne seguì tutto il calvario fino alla maledetta pineta di Ravenna.: lì erano soli: l’”Eroe dei Due Mondi” nel momento più tragico della sua vita ebbe vicino soltanto il Maggior Leggero, che lo guidò tra boschi e acquitrini fino alla fattoria dei Raviglia, pianse con lui quando Anita spirò alle 19,45 del 4 agosto 1849. Poi, con infinita dolcezza lo sollevò da quel corpo dal quale non pareva non volersi staccare più, e dicendogli piano “Per i tuoi figli… per l’Italia”, lo trascinò via, nella fuga. Dicono i testimoni che Garibaldi era affranto, spento, sfinito e che, “appoggiato al silenzioso e costante camerata delle sue battaglie, s’avviò nel buio affidandosi alla fedeltà delle sue guide”.Quando, dopo la storica fuga attraverso l’Italia, Garibaldi e Leggero furono arrestati a Chiavari, ebbe inizio per entrambi l’esilio amaro. Fu concessa a Garibaldi una brevissima visita a Nizza per riabbracciare la madre e i figlioletti, poi fu imbarcato col suo inseparabile amico sulla nave Tripoli, diretta per il porto di Tunisi; a loro si unì un’altro garibaldino esule, Luigi Cocelli.
Le autorità piemontesi avevano premura di liberarsi di quegli scomodi esuli: appena giunta la nave a Cagliari, il popolo, informato per chissà quali vie della sua presenza a bordo, sbucò fuori da ogni lato per festeggiare Garibaldi. Il Tripoli non attraccò neppure e proseguì per il porto africano, ma qui giunto, il Bey rifiutò di far sbarcare il prigioniero. Si dovette far ritorno a Cagliari e l’imbarazzo del governo fu grande. Accadde a questo punto uno di quegli strani giochi del destino che spesso fanno pensare come ogni cosa venga predisposta in una specie di soprammondo; comandava il Tripoli il tenente di vascello il maddalenino Francesco Millelire, e questi convinse le autorità a trasferire Garibaldi nella sua isola, in attesa che si chiarisse la destinazione finale dell’esilio. In effetti la scelta per quel poco simpatico intervallo era tra le due Isole minori sarde, S. Pietro e La Maddalena, ma la prima venne ritenuta troppo vicina a Cagliari, ove non erano sopiti fermenti e malumori tra la popolazione e si preferì accogliere il suggerimento del Millelire. Ai tre prigionieri si aggiunse un quarto garibaldino, Raffaele Teggia; poi il Tripoli fece rotta per l’Arcipelago settentrionale e li sbarcò il 25 settembre 1849 a Cala Gavetta consegnandoli alla responsabilità del comandante militare, tenente colonnello Falchi. Ad accogliere gli esuli al loro arrivo c’era l’intera popolazione: non fu un accogliere, fu un abbraccio a qualcuno che si era lungamente atteso. Il Maggior Leggero, maddalenino, tornava a casa dopo tanti anni9 di disagi e di sofferenze; Garibaldi era l’eroe, il capo, la guida di tutti i figli che se ne erano andati per raggiungere con lui un sogno grande, ma anche di tutti i compagni di mare che navigando ne sentivano narrare le gesta e gli ideali, e di tutte le donne che si sentivano rappresentate nell’ombra di Anita, popolana ed eroica, morta per amore.
C’era il sindaco di La Maddalena Nicolò Susini e suo fratello Francesco , il padre di quell’Antonio a cui Garibaldi, partendo da Montevideo, aveva affidato il comando e l’onore della Legione Italiana. Quindi era tra amici più sicuri del vincolo di sangue. E poi c’erano pescatori e marinai, suoi simili, suoi compagni. Subito dopo l’arrivo, i Susini chiesero al tenente colonnello Falchi di poter ospitare Garibaldi e i suoi; ma l’ufficiale non si sentiva di perdere di vista l’importantissimo prigioniero. Perciò si decise che questi avrebbe dormito nell’abitazione del Falchi, che sorgeva su Cala Gavetta, dove oggi ha sede la Guardia di Finanza, e sarebbe stato libero per l’intera giornata di muoversi nell’isola, sulla sua parola d’onore di non allontanarsene per alcun motivo. In tal modo, Garibaldi visse quei giorni ospite fisso della famiglia Susini e dei Maddalenini, tranne che di notte. Gli altri tre, ebbero dimora presso la famiglia Raffo, sotto la sorveglianza discreta di un certo Paracca. I Susini abitavano sulla piazza del Mercato – di fronte all’attuale Municipio – ed avevano la vigna con una casetta al “Barabò”, sul passo della Moneta, proprio di fronte a Caprera. Era stagione di vendemmia e, dal giorno del suo arrivo, Garibaldi si unì agli amici in quel lavoro e si lasciò prendere, con l’immediato e naturale abbandono che gli era proprio, dalla vita semplice e serena di quella gente. Dopo tanto dolore, il silenzio della vigna, il calore dell’amicizia, il moto eterno e distaccato del mare gli ridavano fiducia. Andava a caccia e pesca con Pietro e Nicolò Susini, fratelli di Antonio, poi tornavano a casa e le donne preparavano il pranzo con le loro prede; giocava a bocce con gli uomini de La Maddalena, girava per le vie salutato da tutti, da tutti invitato a mangiare qualcosa insieme, osservava il gioco dei bambini e il lavoro delle donne sulle soglie. E’ famoso l’episodio del salvataggio di quattro uomini in mare che Garibaldi operò con straordinario sangue freddo e tempestività e che gli attirò ancor di più l’amore degli isolani. Mentre scorrevano i giorni a la Maddalena, la diplomazia Piemontese, pressata anche dall’Austria e dalla Francia, si dava da fare per trovare una soluzione all’esilio del prigioniero e dobbiamo dire che l’esito fu straordinariamente celere: infatti il 24 ottobre, dopo un solo mese, Garibaldi fu imbarcato sul piroscafo Colombo, diretto a Gibilterra e di qui a Tangeri. Il suo primo incontro con l’arcipelago era finito.
La vasca da bagno in rame zincato dove il Generale, che aveva molta cura della sua persona, era solito fare il bagno e che si trova proprio nella stalla poiché era l’ambiente con la temperatura più confortevole, per la presenza degli animali. Compendio Garibaldino – Caprera