Maggior Leggero, il garibaldino più garibaldino di Garibaldi
La storiografia ufficiale sembra essersi dimenticata di questo eroe che ha avuto, invece, un ruolo di primissimo piano nel salvataggio di Garibaldi e nella sua decisione di trasferirsi a Caprera.
Giovanni Battista Culiolo (talvolta indicato anche col cognome italianizzato in Coliolo), figlio di Silvestro e Rosa Fienga, nacque a La Maddalena il 17 settembre 1813, anno che, seguendo i dati dell’atto di morte, andrebbe spostata al 1816.
Nel 1824, non ancora undicenne, come molti suoi concittadini, si arruolò nella Marina Sarda e dopo 15 anni di servizio nella regia armata, raggiunse il grado di marinaio di 1° classe.
Per le sue straordinarie doti di agilità e sveltezza, ben presto, venne indicato come il “leggero” e questo appellativo, nel tempo, diventerà il suo nome.
Tra gli imbarcati dell’epoca era erano diffusi i propositi della “Giovane Italia”, ed anche il nostro “Leggero”, entrato in contatto con questi ideali, ne rimase affascinato. Imbarcato sulla “Regina”, il 3 marzo 1839, durante lo scalo a Montevideo, disertò per seguire Giuseppe Garibaldi, di cui già si celebravano i sentimenti e le gesta, avendo saputo che laggiù aveva costituito la Legione Italiana. Si rivolse perciò alla locale sezione guidata da Giovan Battista Cuneo, che lo arruolò nella 1° Legione Italiana. Insieme con un altro grande maddalenino, Antonio Susini Millelire, fu imbarcato sulla piccola flotta di Garibaldi e si batté da prode in tutte le battaglie che questa, perennemente impari di forze, dovette sostenere. Si distinse in particolare per la sua abilità di artigliere, quando finivano le munizioni, Leggero gettava nei cannoni tutta la ferraglia che riusciva a racimolare e sparava sventagliate di ferri vecchi sui nemici.
Era forte e coraggioso e conservava tutta la sua energia, nonostante avesse le dita delle mani mozzate in vari arrembaggi. Fu ferito nella battaglia di San Antonio del Salto.
Tornato in Italia insieme ad altri 63 commilitoni partecipò con Garibaldi a tutte le campagne col grado di capitano. Misero in atto, per la prima volta forse in Europa, la tattica della guerriglia imparata e sperimentata in America, che aveva il potere di gettare scompiglio e panico tra le file austriache, abituate all’ordine classico della strategia militare del tempo. Fu così che il 26 agosto 1848, a Morazzone nei pressi di Varese, si videro 1.300 garibaldini scatenati mettere in fuga 18.000 austriaci ed anche in questa occasione, Leggero, fu tra i protagonisti principali.
Quindi seguì il Generale in Svizzera, poi a Nizza e a Genova: qui venne arrestato e condannato a morte per la sua diserzione a Montevideo. Ma poco dopo, per interessamento dello stesso Garibaldi lo ritroviamo col grado di maggiore alle sue dirette dipendenze.
Il 27 aprile 1849 il Maggior Leggero entra in Roma alla testa dell’avanguardia garibaldina. Nella battaglia fu un leone: i suoi uomini rimasero galvanizzati dalla sua agilità, dalla fantasia dei suoi attacchi, dall’irruenza con cui affrontava più nemici per volta in corpo a corpo furibondi. Memorabili le sue intrepide azioni a Porta S. Pancrazio, a Palestrina, al vascello e a villa Spada. La Repubblica Romana parve per un breve tratto essere salva.
Ma Austria, Spagna e Regno di Napoli le si coalizzano contro: Garibaldi comandò una spedizione contro Napoli e il Maggior Leggero fu alla testa della 4° Centuria. Poi venne la battaglia decisiva di Roma, il 3 giugno, con il famoso episodio di Villa Corsini, o Casino dei Quattro Venti, in cui costrinse i francesi alla ritirata. Fu proprio la compagnia del Maggiore Leggero tra quelle che maggiormente contribuirono alla fuga delle truppe francesi verso Civitavecchia.
A Roma, Culiolo, si rese protagonista anche di un tragico episodio trascinato dal suo carattere impetuoso: ammazzò con una cannonata, il capitano Ramorino per vendicare il suo amico Risso, che questi aveva ucciso in duello. Garibaldi gli aveva perdonato questa sanguinaria bravata, evidentemente in nome dei vecchi tempi.
Ma la posizione conquistata non è sostenibile per un pugno di uomini contro un esercito vero e potente: nel terribile cannoneggiamento cade morto il Colonnello Masina e viene mortalmente ferito, non ancora ventiduenne, Goffredo Mameli, un altro eroico figlio di sardi.
Leggero resiste fino a notte inoltrata, quando deve ritirarsi ferito a sua volta al corpo, alla testa, a una mano. Ma raggiunse Garibaldi e con lui continuò a combattere per la difesa della porta di San Pancrazio, finché cadde nuovamente ferito ad un piede. Seguì la necessaria ritirata dei garibaldini. Il Maggior Leggero fu creduto morto. Così ridotto fu costretto, invece, a nascondersi e soltanto il 29 giugno, cioè dopo 14 giorni di tensione e di sofferenze, si presentò mezzo morto all’ospedale romano. Lo ricucirono alla meglio ma il 14 luglio fuggì e si nascose di nuovo, perché il suo unico pensiero era quello di cercare di raggiungere il suo Generale. Gli ci vollero altri 15 giorni per essere in grado di stare in piedi, ma appena ciò fu possibile, il 28 luglio 1849, partì a cavallo sulle tracce dell’armata garibaldina in fuga, seguendo la pista di uomini sfiniti, sfuggendo all’inseguimento delle pattuglie nemiche, senza soste, giorno e notte.
Ritrovò Garibaldi a Cesenatico, con Anita già morente, il 1° agosto, si imbarcò sullo stesso bragozzo occupato da Garibaldi, Anita sofferente, il prete Ugo Bassi ed altri pochi legionari, ne seguì tutto il calvario fino alla maledetta pineta di Ravenna. I 13 pescherecci furono costretti dal cannoneggiamento della flotta austriaca a prendere terra a Magnavacca, sul litorale romagnolo; Anita spirò nella fattoria Guiccioli alle 19,45 del 4 agosto 1849. L'”Eroe dei Due Mondi” nel momento più tragico della sua vita ebbe vicino soltanto il Maggior Leggero, che lo guidò tra boschi e acquitrini fino alla fattoria dei Raviglia, pianse con lui. Poi, con infinita dolcezza lo sollevò da quel corpo dal quale non pareva non volersi staccare più, e dicendogli piano “Per i tuoi figli … per l’Italia“, lo trascinò via, nella fuga. Dicono i testimoni che Garibaldi era affranto, spento, sfinito e che, “appoggiato al silenzioso e costante camerata delle sue battaglie, s’avviò nel buio affidandosi alla fedeltà delle sue guide“. Quando, dopo la storica fuga attraverso l’Italia, Garibaldi e Leggero furono arrestati a Chiavari, ebbe inizio per entrambi l’amaro esilio.
Durante il fatidico ed estenuante periodo del Trafugamento di Garibaldi attraverso la Romagna e la Toscana, detto più semplicemente “trafila”, Leggero fu di pratica utilità al Generale, come lo attestano numerosi episodi e soprattutto fu di inestimabile conforto morale di Garibaldi, specialmente nel triste evento della morte di Anita.
Esiliati entrambi dal governo piemontese (grazie a Francesco Millelire, comandante della nave “Tripoli” che doveva condurli in Tunisia, a causa delle difficoltà diplomatiche sorte per l’esilio di Garibaldi, i due rimasero un mese a La Maddalena, settembre/ottobre 1849), Garibaldi e Leggero finirono a Tangeri. Da Tangeri Garibaldi si trasferisce a New York e dopo qualche tempo anche Leggero parte.
Leggero si ritrova nel 1855, in Costa Rica, combattente per la libertà di quel popolo contro i “filibustieri yankees” dello schiavista WilIiam Walker che intende impadronirsi del piccolo stato. Qui in una terribile battaglia, è ferito al braccio destro ed è necessario amputarglielo. Caduto prigioniero, fuggì ancora convalescente e, attraverso peripezie di ogni genere, riuscì a mettersi in salvo e a trovare un lavoro come guardia di dogana a Punta Arenas.
Allo scoppio della seconda guerra contro Walker, mutilato, riprende il suo posto di ufficiale nell’esercito costaricano e ritornerà a combattere con tanto eroismo da meritarsi l’encomio dello stesso comandante nemico. Verrà di nuovo ferito e fatto prigioniero. Riacquistata la libertà, il maddalenino nel 1857 si trasferisce nella Repubblica del Salvador, arruolandosi in quell’esercito come istruttore.
Nel 1860, avuto notizia dell’impresa dei mille abbandona tutto e a tappe forzate rientra in Italia. Arriverà a cose fatte.
Alla fine del 1860 Si presenta a Garibaldi direttamente a Caprera. Verrà inquadrato nei reparti invalidi prima dei garibaldini poi con il grado di capitano della Real Casa d’Asti nel reparto dell’esercito regolare. Passerà il suo tempo prevalentemente a Caprera e alla Maddalena, dove morirà il 14 gennaio 1871 nella sua casa di Cala Gavetta.
Di questo periodo, i suoi concittadini raccontano una vicenda che vede il nostro eroe (o meglio, il suo impetuoso carattere) ancora protagonista: a La Maddalena si sparse la voce che il postale in arrivo dal continente trasportava anche dei colerosi. Il Medico sanitario non ordinò la necessaria quarantena suscitando le proteste degli abitanti.
Il Maggior Leggero, indossata la sciabola, corse sulla piazza minacciando di staccare la testa con una sciabolata l’imbelle sanitario. Questi, impaurito, si rifugiò in casa sprangando le porte e gridando aiuto. E ce ne volle per placare l’ira di Leggero, mutilato ad un braccio e con una mano che mancava di ben quattro dita e che, nonostante ciò, sapeva far tremare ancora i più giovani di lui.
Nel 1861 a Sorrento si era unito a Giuseppina Maresca dalla quale avrà almeno un figlio.
Fu decisamente un uomo dotato di coraggio eccezionale e di ottime capacità militari che ebbe una vita travagliata a causa della sua devozione al Generale Garibaldi.
Di lui è stato detto:
“il garibaldino più garibaldino di Garibaldi” (Gilberto Oneto)
“La sua libera educazione infantile avvenuta senza freni e senza restrizioni fra scogli e dirupi, scalzo e succintamente vestito, alla caccia di gabbiani, di falchi e di aquile, gli avevano creato lo spirito indomito del guerriero amante della libertà, temprato a tutti gli ardimenti” (Umberto Beseghi)
“Incarna le doti tipiche dell’amico sardo: leale, sincero, paziente ma testardo e inflessibile” (Villari)