Giovanni Battista Albini
Nacque a La Maddalena il 20 settembre del 1812, da Giuseppe e Maria Raffaella Ornano: nel 1826, uscito giovanissimo di collegio, entrò al servizio della marina da guerra del Regno di Sardegna. Nel 1848, agli ordini del padre ammiraglio, partecipò alle operazioni nell’Adriatico, al comando di una corvetta; l’anno dopo fu inviato a Oporto, a rilevare la salma di re Carlo Alberto.
Partecipò alla spedizione di Crimea nel 1855-56; nel 1859, col grado di capitano di vascello, alla campagna dei Franco-Sardi in Adriatico, e nel 1860 alla spedizione di Sicilia della squadra sarda, che, guidata dal Persano, seguiva l’azione di Garibaldi. Subito dopo, prese parte alle operazioni della flotta sarda contro la piazza di Ancona, al comando della fregata Vittorio Emanuele. Fu l’unico ad appoggiare l’ardito piano del Persano di attaccare i forti a specchio del mare, e il 3 ottobre del 1860 realizzò un nuovo metodo di bombardamento navale in movimento, portandosi con la sua nave a brevissima distanza dalla Lanterna e riuscendo, col preciso fuoco delle sue artiglierie, a far saltare in aria la polveriera, ciò che contribuì in modo decisivo alla resa della piazzaforte. Per tale azione gli fu concessa la medaglia d’oro al valor militare. Sempre in sottordine al Persano, combattè anche nelle azioni del Garigliano e di Mela di Gaeta, ottenendo, in ricompensa del valore dimostratovi, la croce di commendatore dell’Ordine Militare di Savoia.
Nel 1861, dopo lo scioglimento della squadra d’operazione del Persano, l’Albini comandò la divisione navale della Sicilia, che era la più importante forza navale del Regno rimasta armata: le unità della divisione svolsero, tra l’aprile e l’ottobre 1861, compiti di ordine pubblico, effettuando numerose crociere di protezione del traffico marittimo, insidiato dalla pirateria costiera.
Nell’agosto 1862, egli era al comando della squadra d’evoluzione nelle acque siciliane, mentre Garibaldi preparava nell’isola la spedizione contro Roma, che doveva concludersi all’Aspromonte. L’Albini aveva avuto ordine d’incrociare nello stretto, per impedire a Garibaldi di passare in Calabria, ma condusse le cose senza sufficiente decisione, lasciandosi giocare da lui.
Egli aveva proposto a Garibaldi, dietro suggerimento proveniente dall’alto, di lasciar cadere l’impresa e d’imbarcarsi su una fregata della flotta: il generale finse di aderire, e indicò Acireale come luogo d’imbarco, ma, invece, entrò a Catania, donde passò in Calabria. In seguito a ciò, i comandanti di due fregate che dipendevano dall’Albini, Giraud e Avogadro, furono arrestati e deferiti a un consiglio di guerra.
Nel 1864 l’Albini comandò, col grado di viceammiraglio, la squadra italiana che, col pretesto di proteggere il bey di Tunisi dai moti scoppiati all’interno della Reggenza, effettuò dal maggio al settembre una lunga stazione navale nelle acque della Tunisia, dove erano presenti anche forze navali francesi, inglesi e turche. La stazione navale italiana si trovò coinvolta nel gioco delle rivalità anglo-francesi, che dominarono lo svolgersi degli eventi, e l’Albini condusse anche un’importante azione politica.
Seguendo le direttive del governo, in un primo tempo egli agì di conserva con i Francesi, per cercar poi di effettuare lo sbarco di un corpo italiano nella Reggenza di Tunisi: tramontate le speranze di metter piede in Tunisia, l’Albini si sforzò di favorire la liquidazione della questione, in modo da salvare il prestigio italiano.
Durante la seconda fase della stazione navale, in concomitanza con il tentativo del governo italiano d’inserirsi come terzo tra Francia e Inghilterra, l’Albini preparò un proprio progetto di sbarco e di occupazione militare della Tunisia.
In esso sosteneva la necessità d’impiegare oltre 10.000 uomini dell’esercito; più le compagnie da sbarco della squadra, per eseguire un’operazione in grande stile, che prevedeva l’occupazione di Tunisi; di Susa e di Sfax, nonché di altri centri. Il progetto dell’Albini si contrapponeva a quello del maggiore Ricci, inviato all’uopo sul posto dallo Stato Maggiore dell’esercito, che consigliava, invece, l’impiego di 4.000 uomini per un’operazione limitata alla zona di Tunisi. Durante la stazione navale di Tunisi, lo Stato Maggiore della marina e il governo italiano furono informati anche delle grandi possibilità che offriva Biserta a chi avesse potuto insediarvi una importante base navale: le notizie in proposito furono carpite a un ufficiale inglese che comandava il Firefly, una nave destinata a rilevamenti idrografici, dal comandante Racchia, dipendente dall’Albini.
Nel luglio 1866, con il grado di vice-ammiraglio, l’Albini comandò la squadra delle navi di legno (7 fregate e 3 corvette), che doveva operare lo sbarco delle truppe italiane nell’isola di Lissa. La sua condotta poco decisa contribuì al fallimento dell’attacco all’isola il 18 e il 19 luglio: la mattina del 20, quando la squadra austriaca al comando del Tegetthoff giunse nelle acque di Lissa, la squadra di legno italiana era in procinto di ritentare lo sbarco e non partecipò alla battaglia, prestando il fianco a molte critiche.
Non furono mai chiari i motivi della passività della formazione comandata dall’Albini durante la battaglia: se la rapidità con cui si svolse lo scontro, o l’inefficienza delle navi di legno, o le rivalità personali tra l’Albini e il Persano, comandante in capo della flotta, o, ancora, la mancata ricezione dei segnali. Certo è che la condotta dell’Albini nella campagna di Lissa non fu in complesso favorevolmente giudicata. L’Alta Corte di giustizia riunita in pubblica udienza a Firenze il 15 aprile 1867 riconosce l’ammiraglio Carlo Pellion di Persano colpevole dei reati di inadempimento della missione e di non osservanza degli ordini condannandolo all’allontanamento dal servizio, alla perdita del grado e alle spese processuali. Il ministro incarica il Consiglio Superiore di Marina di esaminare il comportamento durante l’azione di Lissa tenuto dal viceammiraglio Giovanni Battista Albini, del capitano di vascello Giuseppe Paolucci, suo capo di stato maggiore e del contrammiraglio Giovanni Vacca. Il Consiglio pur dichiarando che l’ammiraglio Albini meritava di essere collocato a riposo d’autorità per non aver fatto quanto avrebbe potuto nella fatale giornata di Lissa, viene collocato a riposo per anzianità di servizio e con la stessa pietosa motivazione sono poco dopo allontanati dal servizio gli altri due ufficiali. Con questi blandi provvedimenti si chiude il capitolo delle istruttorie ai maggiori responsabili di Lissa.
Morì a Cassano Spinola presso Alessandria il 14 agosto 1876, la sua salma riposa nel imitero di Stagliano a Genova.