Giovanni Millelire Aitano
Chi era costui? Era forse parente dei Millelire discendenti di Pietro? Non avendo notizie certe della famiglia d’origine non possiamo fare affermazioni, ma il cognome che portava e anche il triste destino che lo perseguitò lo rendono meritevole di attenzione.
Troviamo Giovanni, già trentenne, imbarcato nel 1789 sulla Regia gondola La Sardina equipaggiata di undici uomini agli ordini del comandante Giò Marco Ornano. Quell’anno le due guardacoste, Sardina e Mignona, avevano operato il fermo della gondola di un contrabbandiere bonifacino presso Porto Pozzo: il carico illegale e la barca erano stati confiscati e venduti e i 3/5 del ricavato era stato distribuito agli equipaggi, secondo quanto previsto dal regolamento sulle prede. E proprio gli atti, ed in particolare i verbali dell’assegnazione delle quote, ci dicono che Millelire era marinaio di terza classe col nome di guerra Aitano.
Pur restando sempre in servizio nella Regia Marina, in seguito Millelire dovette cambiare destinazione, perché non era più imbarcato sulla Sardina quando questa, nei primi giorni di settembre del 1803, fu predata dai turchi nei pressi di Capo Spartivento. Ma, per uno dei cattivi giochi del destino che perseguitò la sua famiglia, su quella gondola era imbarcato il figlio Francesco, forse il primogenito, che, con tutto l’equipaggio, fu portato a Tunisi. Qui rimase nella penosa condizione di schiavo, col ferro al piede a faticare come un disperato, fino al 1806 quando le trattative segrete condotte dal barone Desgeneys portarono alla definizione delle condizioni per la liberazione dei prigionieri: erano condizioni molto dure, quasi inaccettabili quelle imposte dal Bey perché prevedevano lo scambio di due sardi per cinque tunisini, ma il console francese a Tunisi, che agiva per conto di Desgeneys, dimostrò che i marinai imbarcati sulla Sardina non erano sardi ma corsi, e quindi cittadini francesi. A novembre gli schiavi liberati erano stati condotti a Livorno e poi a Portoferraio: qui, per un altro perverso gioco del destino, furono requisiti dai francesi per essere condotti a Tolone e arruolati forzatamente nell’esercito di Napoleone. Paradossalmente erano state le stesse condizioni usate per la loro liberazione da Tunisi (la loro origine corso‐francese) a causare la loro rovina. Ancora dopo un anno, nel 1807, alcuni giovani maddalenini coscritti come francesi, che invano cercavano di dimostrare con il passaporto la loro vera nazionalità, erano riusciti a disertare, ma Francesco non era fra questi. A questo punto si perdono le sue tracce.
La famiglia di Giovanni rimase sempre a La Maddalena; qui nacquero e si sposarono le tre figlie; qui troviamo notizie dei figli Bartolomeo, morto non ancora ventenne, e di Pietro che, appena quindicenne, partecipò come volontario alla cattura di una scialuppa tunisina. Era il 1815: si registrava una recrudescenza delle imprese dei barbareschi nei nostri mari. La loro audacia era diventata incontenibile, tanto che il 25 maggio, una goletta e una scialuppa tunisine avevano inseguito una barca da pesca maddalenina fin sotto il forte di Santa Teresa, presso Tegge, abbandonando la caccia solo dopo i ripetuti colpi di cannone della batteria. La reazione degli isolani fu, come al solito in queste occasioni, rapida ed efficace: la gondola regia, la Carolina, pur non essendo armata in quel momento, fu subito equipaggiata con alcuni dei 40 volontari accorsi al comando di Antonio Zicavo, fra i quali il giovane Pietro Millelire Aitano. Insieme ad un’altra gondola privata si iniziò lʹinseguimento che si concluse con la morte del rais, la resa dei turchi e il sequestro della scialuppa.
Come già era successo in altre occasioni, i volontari maddalenini, che avevano diritto ai 3/5 del ricavato della vendita della imbarcazione e dei nove tunisini predati, decisero di offrire quelle somme alla “fabbrica della chiesa”.
Pietro Millelire Aitano, che aveva ricevuto il battesimo del fuoco in questa entusiasmante occasione, morì giovane, dieci anno dopo i fatti narrati, nel 1825. Forse fu questo lʹultimo terribile colpo nella vita sfortunata della famiglia.
Il padre Giovanni, infatti, finito il suo servizio attivo, a 66 anni si era ritirato come “invalido di marina”; ma lʹapparente serenità della sua vita era stata bruscamente turbata, nel 1822, dall’accusa mossagli dal macellaio Giovanni Serra La Bella, di avergli rubato “due aste di montone” (sic). Il bailo Taras, figura piuttosto squallida di questi anni, accusato in seguito dal consiglio comunale di falso e corruzione, fece imprigionare Millelire e le figlie tenendoli in carcere per un mese. La gravità di questo provvedimento fu sottoposta al giudizio del viceré da un sollecito e caritatevole intervento di Domenico Millelire nella sua qualità di sostituto comandante della Marina: egli chiedeva “la sospensione totale di detta causa, osservando l’assoluta povertà dʹessi che in un mese e giorni di prigionia che innocentemente soffrirono per detta frivola causa, furono costretti contrarre debiti per potersi mantenere. E quando, ottenuta la liberazione, il bailo continuò a perseguitare Giovanni chiedendogli il rimborso di 30 scudi dovutigli per l’istruzione della causa, Domenico Millelire scriveva al Viceré chiedendo che “ il povero miserabile vecchio invalidoʺ fosse lasciato in pace ed “esonerato da tale persecuzioneʺ.
Allegava alla lettera un certificato stilato dal vicario parrocchiale Giovanni Battista Biancareddu, che metteva in evidenza le misere condizioni economiche della famiglia, ma anche “gli ottimi costumi da cui vengono corredati padre e figlieʺ.
Da questo momento non si trovano più tracce dirette di Giovanni Millelire e delle sue disgrazie. Quando, nel 1843, Giovanni fece testamento, il figlio Pietro, la moglie e due delle figlie erano già morti; probabilmente era morto anche il figlio Francesco che non viene nominato nel documento. Egli lasciava alle due nipoti tutti i suoi pochi averi: “due camere terrene, sebbene di poco valore poste in Mangiavolpe e “una vignetta posta in questi territori volgarmente detta li Zanioli sebbene all’attuale stato già disfatta, da dividersela in pace e in armonia”. La sua ricchezza in denaro contante, pari a 50 scudi, veniva invece lasciata al curatore testamentario, Francesco Susini, perché ricavasse, attraverso un censo o altro strumento sicuro, il tanto per le messe perpetue in suffragio dell’anima sua e di quella della moglie.
Morì a 89 anni, il 14 marzo 1845, registrato come Giovanni Aitano: forse nessuno più ricordava che il suo cognome di nascita era Millelire.
Giovanna Sotgiu – Co.Ri.S.Ma