I maddalenini e l’occupazione
“Viva chi vince”
Dall’altura della Guardia prima, e da altri punti di osservazione più ravvicinati poi, i pastori maddalenini scrutarono l’entrata nel canale del convoglio e la sua sosta a Villamarina. Seguirono le rotte separate delle due colonne e, quindi, si divisero in gruppi che cercavano di intercettare gli itinerari di salita. Brondel con l’avanguardia dei fucilieri del suo pinco si imbatté per primo con essi, che riconosciutolo gli chiesero di favorire l’incontro col comandante della spedizione. L’abboccamento con il maggiore La Rocchetta avvenne praticamente in prossimità della Guardia, e Teseo, che accompagnava il comandante nella tappa di penetrazione all’interno dell’isola, a questo proposito relazionò che: “non si è incontrato il minimo ostacolo, anzi gli isolani ci sono venuti all’incontro. Il maggiore gli ha ricevuti con buonissima maniera ed ha loro fatto intendere che il Sovrano lo mandava a far loro del bene, che queste isole appartenendo a S.M. voleva che si passassero in esse le sue truppe, e che intanto sperava da loro un buon regolamento”. Dal racconto del luogotenente d’artiglieria non si conosce la reazione dei pastori, che invece è la parte più intrigante del pezzo di relazione che La Rocchetta dedicò all’incontro: “alle 6 di sera ero gia padrone del sito della Guardia; gli abitanti sono venuti incontro a me, io ho intimato loro di dover riconoscere il nostro Augusto Sovrano quale loro Signore. Essi hanno risposto che sono e saranno sempre sottomessi al vincitore, utilizzando la frase <<viva chi vince>>. Il successivo mattino del 15 corrente gli abitanti di Caprera sono venuti a rendere omaggio. Io ho loro ugualmente intimato l’obbedienza a S. M.”.
L’espressione riportata da La Rocchetta è stata pressoché unanimemente considerata una manifestazione di debolezza, se non di codardia, e comunque di accomodamento alla situazione. Una sorta di versione in prosa della manifestazione di indifferenza espressa con la celebre quartina gallurese in rime incrociate: “Pal noi no v’ha middori / né impolta ca l’ha vintu / sia iddu Filippu Quintu / o Carrolu imperadori”. Di fatto, per le cose che i documenti ci hanno detto delle fasi precedenti di contrattazione e accordi dei pastori con Brondel e De Nobili, la stessa espressione appare invece una manifestazione dignitosa di pragmatismo. Forse fu mal espressa dal maggiore comandante, giacché non c’era stata contrapposizione tra parti in contesa, tanto meno armata, in cui i sardo-sabaudi erano risultati vincitori in armi. Le truppe del re di Sardegna avevano più semplicemente preso pacificamente possesso dell’isola, per cui quella espressione non può che essere intesa quale riconoscimento, un po’ enfatico, del dato di fatto previsto e atteso, nonostante le proteste di fedeltà al Principe di Genova. Gli stessi isolani, secondo copione, espressero quale unico segno di riserva la consegna della protesta lasciata loro dal cancelliere Scotto. Di questo importante documento se ne riproduce l’originale, ricevuto dal maggiore La Rocchetta e fortunosamente ritrovato “fuori posto” nell’Archivio di Stato di Cagliari, lasciando al fascino della sua visione diretta la rilettura del testo già noto anche ai lettori del Garelli.
“Fino all’ultima stilla di sangue per lo prencipe di Genova”
Gli stessi pastori consumarono il doppio gioco, che convennero tacitamente con Brondel, inviando una loro informazione al commissario di Bonifacio, Oldoino, il cui testo rinvenuto da Carlino Sole negli archivi parigini, così recitava: “Illustrissimo sig. Commissario, non manchino di darli parte siccome alli 14 di ottobre a ore 23 semo stati asaltati della truppa Savoiardi, e ci hanno fatto tre sbarchi e ci hanno misso nel mezzo con 7 lancie grosse e due pinche. Si che noi no eravamo in forza di poterli smontare, ci hanno presi li nostri schiffe perché noi non fossimo venuti a dar l’aviso in Bonifacio, a darli aviso perché sanno che in Bonifacio vi è la galera che vi portano gran paura, li detti capi dell’isola della Caprera e della Maddalena con tutti l’isolani li hanno detto che l’isole erano del Prencipe e noi semo figli del Prencipe di Genova. Lui hanno risposto che l’isole erano del Re e se noi ni parlavamo ci volevano farci a pezzi, nell’isola della Maddalena vi è sbarcato numero di soldati 300 a bordo a essi non sapemo ciò che vi può esse, alli 15 di ottobre e arrivato il filocono sichè adesso sono alla Maddalena anno da venire alla Caprera, noi semo pronti semo fedeli sempre al nostro Prencipe tutti l’ora che ci comanda sempre viva il nostro Prencipe fino all’ultima stilla di sangue noi stiamo sempre allo aspetto a aiuto del Prencipe. Sue bon servitore Matteo Culiolo, Domenico Moriano, Giovan Batista Zicavo, Pietro Millelire, Giovanni Andrea Ornano, Silvestro Panzano e Pietro Culiolo per li detti a nome di tutti li abitanti delle isole della Maddalena e Caprera della nostra Serenissima Repubblica dichiarando altresì essere stata fatta la protesta tanto di quella della Maddalena quanto da me sottoscritto e dalli altri abitanti della Caprera alle arme sarde quando sono sbarcate, et in fede questo giorno 16 ottobre 1767. Pietro Culiolo a nome di tutti gli isolani”.
La scrittura appare tanto singolare, quanto imprecisa nei dati del racconto, da sembrare scritta ad arte in termini tanto sconclusionati. L’orario notturno delle 23, per far intendere di essere stati sorpresi nel sonno, il doppio del numero dei soldati sbarcati e la volontà di violenza nei loro confronti, sembrano appositamente esagerati, così come il riutilizzo della espressione enfatica scritta da Scotto nella protesta: “sino all’ultima stilla di sangue”. È difficile attribuire alla mano di Pietro Culiolo la compilazione materiale del testo, mentre i concetti espressi sono quelli furbeschi pensati per tentare di salvare i rapporti patrimoniali con Bonifacio, e per quel che serviva a salvare anche la faccia. Ma si può ragionevolmente ritenere che un simile testo sia stato predisposto anche nella eventualità che ci fosse stata una reazione vincente di Genova con i suoi vascelli presenti nelle acque di Bonifacio. Gli isolani, contemporaneamente ai movimenti del convoglio e alle operazioni a terra del distaccamento, seguirono anche le mosse delle navi genovesi nelle Bocche e nell’estuario maddalenino, che tanto preoccupavano La Rocchetta e i suoi collaboratori. Qualcuno dei pastori, probabilmente estimatori del dominio genovese, aveva forse giocato ad attizzare i timori dei sardi almeno in due occasioni. Lo fecero con Deacon e De Foncenex, nella circostanza già annotata in cui le scialuppe sarde, nel loro rientro a Terranova il giorno 7 ottobre, incrociarono una gondola di pastori isolani provenienti da Bonifacio. Da questi ebbero la brutta notizia, rivelatasi infondata, secondo cui la galera e le due mezze galere genovesi, che avevano nei giorni precedenti trovato a Villamarina, stazionavano in Corsica per recarsi nelle isole. Anche Brondel registrò che, in occasione del primo tentativo di sbarcare a Caprera abortito il giorno 16 ottobre per l’allarme causato dall’avvistamento delle navi genovesi che avevano lasciato Bonifacio, i pastori caprerini da lui consultati su cosa stesse accadendo gli risposero testualmente: “Adesso, adesso lo saprà, e riconoscerà che sono genovesi”, adombrando l’ipotesi di una attesa da parte dei pastori del loro intervento, che poi non ci fu.
Ailuromiomachia maddalenina: ovvero la guerra tra i gatti e i topi nelle isole occupate.
Nel suo primo resoconto al viceré di cui s’è già detto, il maggiore La Rocchetta tra l’altro scrisse: “al momento non ho nulla di positivo da dire sull’inclinazione degli abitanti di queste isole li studierò meglio e quindi io potrei dare un giudizio più preciso”. Nelle sue lettere successive il giudizio si affinò e si ritrovano affermazioni positive: “Ho già avuto l’onore di informare V.E. – scriveva ancora a fine mese – che questa gente qui non è in grado di intraprendere qualsiasi cosa contro la truppa. Posso al presente dire che li trovo docili ad ogni mia richiesta”. A conclusione del suo mandato, poco prima di recarsi a Sassari sua nuova sede di servizio, La Rocchetta esemplificò la sua conferma della “docilità” dei maddalenini, raccontando che una loro delegazione, avendo avuto notizia che stava per lasciare l’incarico e partire per altra destinazione, si recò da lui per auguragli il buon viaggio e offrirgli una scorta, una sorta di picchetto d’onore, sino alla Sardegna. Nello stesso testo La Rocchetta considerò che la disponibilità e la docilità dei maddalenini era cresciuta con l’avanzamento dell’insediamento militare, vedendo una correlazione tra i due fatti come crescita di fiducia sulla nuova realtà. A incrementare il tasso di fiducia degli isolani contribuì anche l’equità e il rigore con cui il comandante del distaccamento risolse tre situazioni di cui si ha notizia. La prima si riferisce ad un furto denunciato da un isolano e di cui non si riuscì ad individuare il colpevole. La Rocchetta concordò con il danneggiato il valore della merce rubata e lo indennizzò. La seconda circostanza vide un esemplare castigo, alla presenza dei pastori, di tre soldati rei di aver rubato 33 pezzi di lardo a un pastore di Caprera. Il castigo, oltre la restituzione del maltolto, fu senz’altro quello della bastonatura. La terza situazione si ebbe quando si presentò a La Rocchetta il pastore caprerino Giambattista Ferraciuoli a perorare la causa di suo figlio, Gio’ Agostino, imprigionato a Tempio. Questi era stato trovato a bordo della gondola predata da Brondel in una recente operazione anti-contrabbando e arrestato perché ritenuto facente parte dell’equipaggio frodatore. Il genitore protestò che invece il figlio era solo un passeggero dell’imbarcazione, che si trovò suo malgrado immischiato in un’operazione di contrabbando. Ferraciuoli presentò a La Rocchetta dei documenti attestanti la condizione di passeggero del figlio e il maggiore inoltrò tutto a Cagliari. L’estraneità di Gio’ Agostino all’azione di contrabbando fu riconosciuta, e fu emanato il decreto di piena grazia, ordinando al tribunale della reale intendenza di metterlo in libertà. Non altrettanto felice fu l’esito della petizione esposta dagli isolani a favore del riscatto dei tre pastori fatti schiavi tre anni prima, in una scorreria a S. Stefano, di cui è stato già detto. Si trattava di una soluzione più difficile per il gran numero di sardi schiavi, per il più lungo tempo di schiavitù della gran parte degli schiavi e per la scarsezza di risorse per la loro liberazione.
Solo nel viceré permaneva una riserva di diffidenza sugli isolani, per cui nei suoi rapporti al Bogino giustificava il mantenimento anche in seguito di un distaccamento seppur ridotto, “per contegno di quegl’isolani d’altronde coraggiosi e buoni maneggiatori dell’armi”. L’unico attentato contro la spedizione, i suoi uomini e materiali che il maggiore registrò e denunciò fu, invece, quello messo in atto da un esercito di topi. Milioni di topi, secondo quanto gli riferirono i pastori, che rosicchiavano gli abiti e in genere tutto ciò che trovavano senza che se ne potesse difendere. Un soldato era stato morso sensibilmente a un dito mentre dormiva e l’ufficiale era costretto a tenere un bastone per scacciarli dal proprio letto. Avuta notizia dell’affronto che i roditori facevano alle armi del re di Sardegna, il viceré intervenne con energia e lanciò una vera e propria lotta biologica, contrapponendo ai topi i loro antagonisti naturali, i gatti. Ordinò al governatore di Castelsardo di far catturare e comprare il maggior numero possibile di gatti e di inviarli alla Maddalena, dove dispersi e inselvatichiti avrebbero combattuto i topi indigeni. Questa moderna ailuromiomachia, che si svolse nei corsoji e tra le rocce dell’isola, non trovò nessun novello Omero che la celebrasse.
Salvatore Sanna – Co.Ri.S.Ma