I primi parroci
Le truppe sarde che presero possesso delle isole Intermedie nel tardo pomeriggio del 14 ottobre 1767 per conto del re di Sardegna trovarono, tra La Maddalena e Caprera, 179 tra uomini e donne divisi in 38 famiglie, e in una delle sue prime relazioni al viceré, La Roquette rilevò, tra l’altro, che gli isolani: “vivono senza verun culto di religione. E ve n’èfra loro che son già dieci anni senza aver fatto la Pasqua“. Don Michele non riuscì a far fare Pasqua ai suoi nuovi fedeli e neppure il Natale, giacché fu colto dalle febbri malariche che lo costrinsero a rientrare rapidamente a Cagliari.
La Roquette richiese subito un sostituto che avesse “delle opportune qualità e che abbia inoltre una presenza rispettabile“, e Des Hayes, a metà novembre, invitò mons. Carta a “scegliere al più presto un prete di sufficiente abilità, intelligente della lingua italiana il quale sia provvisionalmente capace di servire di cappellano al predetto distaccamento e di parroco a quegli individui“. La novità importante stava nel fatto che stavolta sarebbe dovuto essere un sacerdote diocesano, inviato dal Vescovo, a fare da cappellano alle truppe e parroco alla comunità isolana. Da ciò conseguiva che il suo mantenimento sarebbe stato a carico dello stipendio del Re per il servizio alla truppa, ricevendo dal governo il trattamento economico di 25 lire di Piemonte al mese, una razione giornaliera di pane e l’alloggio. Si trattò di una soluzione che fu mantenuta per alcuni decenni a favore del parroco, ma anche dei maddalenini che poterono essere esentati dal corrispondere lo stipendio al parroco e le decime. Il viceré chiarì, inoltre, che il governo non avrebbe pagato un secondo prete e sollecitò il vescovo alla costruzione della chiesa.
Il vescovo, superato qualche problema, inviò all’isola don Virgilio Mannu, un canonico della collegiata tempiese, che prese servizio presumibilmente verso la metà del gennaio 1768, avviando la vita anche istituzionale della parrocchia seppur senza edificio del culto. Don Virgilio, infatti, continuò a somministrare i sacramenti e a officiare i riti religiosi, ma iniziò da subito la compilazione dei registri parrocchiali relativi alle nascite, ai matrimoni e alle morti, mentre per quello delle cresime si dovette attendere la prima venuta del vescovo all’isola nel 1774. Il viceré non gradì particolarmente la nomina da parte di mons. Carta di un canonico, e aveva ragione di credere si trattasse di una indicazione di transizione. Già nel novembre del 1768, infatti, fu richiesto del nulla-osta per la nomina di un altro sacerdote tempiese, Giò Andrea Sardo, in sostituzione del canonico Mannu. Non se ne fece niente, ma si trattò di un segno premonitore che si concretizzò nei primi mesi dell’anno successivo con la nomina del nuovo parroco-cappellano. Il nuovo comandante del distaccamento, il capitano Willy, perorò presso il viceré la formalizzazione dell’incarico a favore di don Virgilio Mannu, omonimo cugino del canonico, che all’isola era di già di casa in supplenza del parente che nel frattempo si era “ritirato in Tempio”. L’operazione andò in porto e il secondo Virgilio Mannu si insediò nel suo incarico, a partire dagli inizi del 1769, per un triennio che ebbe un andamento turbolento e terminò traumaticamente. Pur avendo avuto l’avventura di avviare al culto la prima Chiesa parrocchiale intitolata a S. Maria Maddalena, i problemi caratteriali e di gestione si manifestarono presto. Don Virgilio pose subito la questione della sua remunerazione come parroco dando acquisita quella da cappellano. La risposta del viceré fu determinata: non c’erano le condizioni per la pretesa del doppio stipendio, per esigere le decime e per fare collette. Ma i veri problemi nacquero sul rapporto con i fedeli che accusarono il loro parroco di tenere “indecente” la chiesa e di non attendere con solerzia ai suoi doveri di assistenza religiosa, assentandosi troppo spesso anche di notte. Soprattutto la parte militare doveva essere scontenta di lui, perché pervenne al viceré una memoria sulle sue malefatte che non poteva essere stata scritta dagli analfabeti pastori, ma che quasi senz’altro li rappresentava.
Ne conosciamo i termini, indirettamente, dalla nota che il viceré indirizzò a don Virgilio per fargli conoscere gli addebiti che venivano mossi contro di lui e se ne discolpasse. Gli veniva rimproverato soprattutto lo scarso zelo e anche la venalità, per cui sembra che utilizzasse per uso personale le elemosine offerte per il mantenimento e il decoro della chiesa. Da parte ecclesiastica il caso fu seguito dal vicario generale della diocesi don Bernardino Demartis, che la governava dopo la morte di mons. Carta e in attesa del nuovo vescovo. Il vicario non decise nulla e spettò al nuovo vescovo, mons. Guiso, prendere gli inevitabili provvedimenti a seguito dell’ultimo “scandalo”, di cui si conoscono i fatti da una lettera del viceré al vescovo datata 16 luglio 1773. “Dalle informazioni inviatemi – si legge – relative al contrasto seguito tra il cappellano ed il fungente le veci d’ufficiale del soldo [Agostino Porcile], Ella avrà rilevato che il primo menò le mani anche sopra la moglie dell’altro, il quale se ha ecceduto in parole fu anche invitato dalle minacce fattegli dal cappellano di voler informare di quanto io già sapevo, minaccia che non conviene farsi da un parroco, epperciò io debbo commendare la deliberazione da lei presa di farlo ritirare in codesto collegio delle Scuole Pie“.
Ci vollero solo poche settimane perché mons. Guiso nominasse il nuovo parroco nella persona di don Giacomo Mossa, che ritroviamo firmatario dell’atto di battesimo relativo a Michele Zicavo-Zonza amministrato già il 29 agosto. Don Giacomo avviò la sua attività all’isola, oltre l’ordinaria funzione pastorale, con un caso scabroso. Leopoldo Collene, ufficiale al soldo del distaccamento, conviveva more uxorio con la tempiese Maria Simona che partorì Giovanni Battista, registrato al battesimo da don Mossa come di padre ignoto mentre i padrini lo dichiaravano nello stesso atto figlio del Collene. Su denuncia di un collega di Collene, il munizioniere Emanuele Quassol, il vescovo intervenne sul parroco che dovette dargli conto della irregolarità tollerata. Le determinazioni concordate tra autorità civili ed ecclesiastiche furono drastiche: separazione dei conviventi, imprigionamento e poi trasferimento di Collene, ed espulsione della “sgraziata”. Questa circostanza ci offre indirettamente un elemento di informazione sull’obbligo del precetto pasquale che evidentemente vigeva almeno per i militari. Dalla ricognizione dei fatti risultò che l’ufficiale non aveva ancora “fatto Pasqua” e che a sua discolpa aveva affermato che quell’anno il parroco, a differenza degli anni passati, non aveva fatto arrivare all’isola un confessore esterno. Don Mossa fu costretto a chiamare un confratello, per cui Collene e molti altri che risultarono nelle stesse condizioni poterono soddisfare il precetto pasquale. L’azione pastorale di don Mossa alla Maddalena si svolse in ben 26 anni, concludendosi nel 1799, attraversando un’epoca di nuova frontiera che visse intensamente insieme alla comunità civile e militare in continua espansione demografica e in pieno sviluppo sociale e istituzionale.
Salvatore Sanna – Co.Ri.S.Ma