La costruzione della chiesa alla marina
La prima chiesa a La Guardia-Collo Piano fu edificata nella previsione, che non si realizzò, di un’aggregazione intorno ad essa delle abitazioni dei pastori dispersi, per formare un villaggio nella parte alta e centrale dell’isola. Stavolta, invece, la nuova chiesa alla marina seguiva la decisione di formare il nuovo villaggio a mare, e la sua costruzione avvenne a sviluppo edilizio già avviato tra Cala Gavetta e Cala Mangiavolpe.
Il progetto del capitano ingegnere Cochis
Chiarita la situazione di difficoltà ad utilizzare la chiesa di Collo Piano per quelli già residenti alla marina, e considerata la necessità della nuova chiesa nella previsione dell’aggregazione urbana a mare, anche il re aderì alla proposta, ponendo riserve solo sul versante finanziario. Per oltre un anno e mezzo, comunque, il desiderio degli isolani rimase solo a livello di idea ripetutamente riproposta dall’isola a Cagliari senza riscontri positivi. Il 27 agosto 1779 i maddalenini discesi a mare avanzarono una nuova supplica al Re per avere una chiesa presso di loro, rappresentando: “Il miserabilissimo stato in cui si trova per il pascolo spirituale, per esser la chiesa distante per la sola andata da circa un’ora di dirupata strada ……….. Le confessioni della più parte di loro vengono differite da una Pasqua all’altra. Feste, funzioni, divozioni in chiesa come praticano in tutti i popoli christiani, per la lontananza che vi è non ne vedono e non ne sentono. Tutti li giorni di festa scende alla popolazione il loro parocco a celebrarvi la Santa Messa in una casa particolare, ma quella chi la sente d’in casa, chi da fuori per non esservi luogo in quella casa, chi la vede e chi non la vede“.
A questo ulteriore sollecito il viceré finalmente diede, il 12 novembre successivo, la risposta tanto attesa. In quella nota, infatti, il conte Lascaris informò il bailo Fravega e i maddalenini che il capitano ingegnere Cochis, buon conoscitore dell’isola per i molti lavori che aveva seguito e controllato, nel frattempo da lui impegnato a redigere il progetto della chiesa e il relativo calcolo della spesa, gli aveva consegnato gli elaborati, che allegava per proporli-alla loro valutazione. Nella stessa occasione il responsabile del governo sardo pose con determinazione il problema dei costi, che superavano le 10.000 lire sarde (4.000 scudi), a fronte della sofferenza della cassa regia che non permetteva di sostenere quell’esborso. Nacque a questo punto un gioco di rimpalli tra il governo vicereale e il vescovado di Ampurias e Civita sulla titolarità della spesa, o comunque su una compartecipazione solidale di tutti i soggetti interessati ai costi, che accompagnò per tutto il tempo la definizione della fabbrica del nuovo edificio religioso.
I costi e la partecipazione dei maddalenini
Più esattamente il confronto su tale questione si svolse con una imbarazzante triangolazione, che coinvolgeva il bailo, chiamato a fungere da sponda tra i due interlocutori principali per evitare il contraddittorio diretto, per poi coinvolgere i maddalenini. Il ragionamento iniziale del governo sardo, esposto nella lettera del 12 novembre del viceré a Fravega, appare lineare e quasi scontato: la prima chiesa è stata costruita dal vescovo che però non riceve dalla comunità maddalenina nessuna entrata, essendo stata questa esonerata dal pagamento delle “decime”, e quindi non sarebbe tenuto a una nuova chiesa. D’altra parte la cassa regia stipendia interinalmente il parroco nella sua qualità di cappellano militare, per cui la spesa della chiesa dovrebbe spettare per intero alla comunità che la richiede. “Vi rimetto il disegno e calcolo – concludeva il viceré – affinché lo comunichiate alla comunità per sentir ciò che ne pensa, e mentre aspetto che col ritorno delle medesime pezze m’informiate di ciò che la medesima si disporrà a contribuire sia in opere che in materiali, io non lascerò di prendere in considerazione le rappresentanze che mi facessero in proposito“.
La replica degli isolani fu immediata e il documento, datato 28 novembre 1779 e citato dal Garelli che ne riporta malamente solo le prime righe, ha l’impegnativo titolo di “Atto di sottomissione dei popolatori dell’isola Maddalena di far trasporti dei materiali necessari per l’implorata fabbrica d’una chiesa parrocchiale”. Lo si riporta qui di seguito integralmente per l’importante valore documentale che riveste. ” L’anno del Signore mille settecento settantanove ed atti ventiotto del mese di novembre in l’isola Maddalena e nella curia giudiziale avanti a me bailo e testimoni sottoscritti, si sono fatti comparire personalmente Antonio Ornano del fu Giuseppe, Pietro Cogliolo del fu Domenico, Antonio Giovanni Variano del vivente Domenico, il primo sindaco e li altri due consiglieri di questa popolazione, li due primi della presente isola Maddalena ed il terzo della Caprera, come altresì Pietro Millelire del fu Leone, Silvestro Panzano del fu Nicolao, Matteo Cogliolo del fu Domenico, Antonio Cogliolo fu Giò Battista, Francesco Ornano fu Giuseppe, Matteo Cogliolo fu Giò Battista, Tomaso Ornano del vivente Simone Giovanni, Giacomo Polverino del vivente Pasquale, Giovanni Battista Pittaluga del vivente Pietro, Domenico Polverino del vivente Pasquale e Stefano Durbecco tutti capi di famiglia de’più benestanti della detta isola Maddalena, e finalmente Domenico Variano, Giò Battista Ziccao del fu Giovanni, Marco Maria Zicao del fu Giovanni e Ignazio Serra dell’isola Caprera, ed al tempo stesso il sottoscritto bailo le a presentato il disegno e calcolo per la spesa da farsi alla fabbrica della nuova chiesa che devesi erigere in questa nuova popolazione a beneficio di questi popolatori ed essendo stati interrogati gli sovranominati sindaco, consiglieri e capi di famiglia dall’infrascritto bailo di quali opere e travagli sarebbesi obbligata la comunità di contribuire a torno della suddetta fabbrica, e dopo di avere maturamente pensato e conformemente bilanciate l’attuali miserie di questi popolatori si sono tutti di un anime determinati anche a nome di tutta la comunità, di sottomettersi come si sottomettono di spontanea e libera volontà di trasportare tutti quanti i materiali di ogni qualità che saranno necessari alla detta fabbrica, dal posto dove saranno da altre persone fatti e travagliati alla vicinanza dove verrà piantata detta chiesa, e quell’altri materiali d’ogni specie che giungeranno da fuori gli trasporteranno dalla sponda del mare di questa popolazione alla vicinanza della medema fabbrica mediante che i succitati popolatori vengono provveduti di carrette, carri e ceste, ed inviolabilmente osservare e per segno di verità fanno tutti un segno di croce per essere illetterati a riserva di uno [Stefano Durbecco n.d.a.]. Testimoni Ambrogio Pistarini e Giovanni Battista Roland“.
Da una lettera del 28 marzo 1780 da Cagliari a Fravega sappiamo dei contatti del bailo con il vescovo, che però non si compromise con impegni di spesa. Il viceré non cedette e chiese al funzionario governativo di insistere presso di lui a nome della comunità e contemporaneamente si disse insoddisfatto degli impegni assunti dai maddalenini: “Conviene che i medesimi – annotò da Cagliari – estendano a qualche cosa di più le loro esibizioni, avendo presente che occorrerà di tagliare boscami, ammassare calcina e materiali e trasportarli anche da una spiaggia all’altra”. Il richiamo sembrò sortire l’effetto desiderato con soddisfazione del viceré, che prese atto dei nuovi impegni degli isolani e degli accenni di adesione del vescovo, “sebbene non abbia tassativamente spiegato la precisa somma che sborserà”.
Mentre gli impegni dei maddalenini risultarono nel tempo solidi e furono onorati, quelli del vescovo furono subito rivisti dallo stesso prelato. Il Garelli, nel suo prezioso ma invecchiato testo, ha riportato per esteso una nota che nell’agosto dello stesso anno il nuovo vescovo, mons. Arras-Minutili, indirizzò al viceré, da cui si ricavano elementi precisi del disimpegno economico del prelato e della insostenibile situazione di irregolarità nello svolgimento del servizio religioso. “Mi han tosato la rendita – scriveva – e non posso fare alcun altro bene che compatire la mancanza che vedo per il culto divino… che tutto bisogna fare colla moneta e non con parole, onde non vedo mia la cagione“, e inoltre rilevava che la messa alla marina veniva irregolarmente celebrata in casa di ” Monsiù Denobili…. se il tempo è cattivo che non possono stare in piazza ne resta priva la metà di essi che non possono stare dentro la piccola stanza dove celebra la messa il cappellano, quale deve dirne un’altra nell’istesso giorno nell’antica chiesa per altri pochi che ivi sono rimasti“. Questo testo che nel libro del Garelli viene presentato come un accorato appello ai bisogni spirituali del suo gregge isolano, letto più correttamente nel contesto della questione economica appare invece una vera e propria scusa per il suo disimpegno dalla compartecipazione alle spese. Nel frattempo il vescovo aveva di che lagnarsi contro Cagliari e Torino per la concessione, dall’estate 1780, al cappellano delle Intermedie, don Mossa, di una pensione perpetua di 400 lire di Piemonte annue, gravante proprio sulla sua mitra. Su questo argomento la replica vicereale fu dura, rilevando che quei soldi non erano comunque nella disponibilità del vescovo ma della corte, che piuttosto che assegnarla altrove aveva preferito farlo a favore di un prete diocesano.
Il concorso degli isolani: materiali e manodopera, ma anche scudi
Alla fine del 1780 il consiglio comunitativo intervenne presso il viceré per appoggiare il tentativo del comandante del felucone De Nobili di evitare la stabilizzazione di Paolo Maria Foassa quale bailo in sostituzione di Fravega ammalato. Il documento comunale poneva la questione di quel bailo interinale all’interno di un quadro più ampio di lamentele, compresa la non ancora definita questione della nuova chiesa. La risposta fu dura su tutti i fronti |éin particolare sulla mancata edificazione della chiesa, al cui propositoMl viceré partì al contrattacco: “Desidererei però un poco sapere – reclamava nella sua lettera del 12 dicembre 1780 a De Nobili – se i popolatori che si lagnano abbiano già cominciato a preparare le pietre o altri materiali che so essersi esibiti di provvedere”. Nello stesso testo vennero riproposti gli argomenti soliti della insufficienza della cassa regia e si prese atto che il vescovo: “dopo aver fatto sperare più volte al bailo Fravega di contribuirvi con una competente somma, ha dichiarato di non essere in caso di concorrere a tale spesa”.
Foassa, già alcaide della torre di Longonsardo, nel suo nuovo ruolo di bailo si occupò con determinazione della chiesa, in termini finalmente propositivi e operativi, superando la dimensione sterilmente rivendicativa sino allora seguita e con assunzione di impegni solo se sollecitati. Nei primi mesi del 1781 organizzò una colletta tra i capi famiglia, che riuscì per la nuova e accresciuta disponibilità economica degli isolani, e fece iniziare il trasporto delle pietre con apprezzamento del governo cagliaritano. Ma soprattutto avviò una svolta nella partita finanziaria avanzando, a nome della comunità, la richiesta di un prestito di 200 scudi che inizialmente trovò la reazione perplessa del viceré. Non era stato, infatti, ancora sanato un precedente debito contratto dalla comunità nel ’78 per impiantare il monte granatico, che in qualche modo avrebbe dovuto contribuire a risolvere l’approvvigionamento di grano per l’isola, e della cui realizzazione – notò il viceré – non si aveva notizia alcuna. Il bailo infine denunciò che ogni anno nelle isole passavano diversi religiosi di Bonifacio a questuare, sottraendo elemosine alla parrocchia. In riscontro Foassa ebbe l’ordine di far sapere a quei religiosi, attraverso la prima gondola in partenza per Bonifacio, che era proibito loro di questuare nelle isole sarde. Le iniziative di Foassa determinarono un atteggiamento favorevole delle autorità superiori, che si concretizzò in una nota del 26 giugno dello stesso 1781. In essa si diede notizia della reale determinazione a condonare il debito per il monte granatico a favore dell’impiego della relativa somma di denaro per la chiesa. In questa stessa lettera si accennava per la prima volta alla “fabbrica della nuova cappella e baraccone da incorporarsi poi nella chiesa”. Non si trattava di una svista, ma di una scelta tecnica di cui troveremo notizie anche in seguito.
Il progetto di Cochis non si trova, il tenente ingegnere Marciot ne fa un altro più ridotto
L’intenzione di dare slancio e concretezza operativa è dimostrata da un intervento del mese successivo in cui il viceré chiese se, valutato in loco il progetto del capitano ingegnere Cochis ricevuto già nel novembre del 1779, “i muratori contattati sono in grado di eseguirlo in modo che la cappella rimanga poi incorporata nella Chiesa, o se si desideri qualche istruzione da questo capitano ingegnere”. L’accenno al progetto Cochis aprì il problema dell’elaborato tecnico che, nonostante affannose ricerche, non si trovò né a Cagliari né alla Maddalena. Nelle lungaggini delle ricerche il viceré tagliò corto e a fine luglio impegnò il tenente ingegnere Marciot a predisporre un nuovo disegno e calcolo per la nuova chiesa, sostitutivo del precedente progetto andato disperso. Il catalogo dell’archivio di stato torinese registra presente nei suoi faldoni il progetto Cochis, e appare quindi probabile che mandato a Torino l’elaborato non rientrò in Sardegna, favorendo l’equivoco determinato da Garelli. Questi, infatti, rinvenutolo in quell’archivio lo propose nel suo libro come il progetto su cui si costruì la nuova parrocchiale maddalenina. Oggi, grazie ai nuovi documenti, si può superare l’errore determinato dall’inesatta informazione di quell’autore, che ha influenzato la narrazione dei fatti di tutti gli autori che sono intervenuti sulla materia anche in testi scientifici.
Marciot, dovendo elaborare il progetto a tavolino, predispose un questionario che sottopose al bailo e alla comunità per raccogliere le opportune informazioni tecniche, sempre specificando che si sarebbe trattato di una cappella “che si possa poi incorporare nella intiera Chiesa”. Le risposte giunsero rapidamente a Cagliari, e Marciot potè già a metà settembre inviare un promemoria al vescovo il cui testo, non molto leggibile nell’originale, ci fornisce delle informazioni molto precise, che solo in parte suppliscono però alla mancanza dell’elaborato tecnico che non è stato rintracciato nelle carte sinora controllate. In quel testo dell’11 settembre si legge che fu necessario “distribuire almeno li pilastri in maniera che venendo col tempo quella popolazione ad essere nel caso di fare una maggiore spesa si possa aumentare detta Chiesa senza distruggere il fabbricato, non dovendo col tempo servire quanto si fa al presente che per presbiterio e parte del coro”. Il calcolo della spesa fu determinato con esattezza e risultò essere per la cappella di 274 scudi sardi, 5 reali, 1 soldo e 8 denari, mentre per la casa del parroco fu prevista per 91 scudi e 3 reali, e quindi per un totale di 365 scudi, 8 reali, 1 soldo e 8 denari. Per ciò che riguardava il costruttore, il promemoria indicava il soldato S. Domenico della Compagnia Franca di Artiglieria, “mastro muratore già pratico del paese, e nel caso di eseguire il seguente lavoro si potrà dal medesimo farsi fare un partito, mentre essendo qui [a Cagliari] disoccupato ed essendo già pratico del locale potrà eseguire questo lavoro a minor prezzo di chichessia”.
Il tenente ingegnere aveva già informato il vescovo che il cannoniere era stato richiesto dai maddalenini, e infatti fin dal giugno precedente Foassa lo aveva proposto e il viceré si riservò di rimandarlo all’isola nel caso avesse aderito all’impresa. Domenico Porro, infatti, si trovava a Cagliari da quasi 4 anni per punizione se non addirittura in stato di arresto. La candidatura del cannoniere venne sostenuta da Foassa con argomenti di capacità professionale, con motivi di opportunità ed anche di economicità, che furono riproposti in una lettera al viceré del 21 settembre. Il bailo si diceva sicuro dell’accettazione da parte di Porro che, a sua detta, partiva avvantaggiato perché conoscitore dell’ambiente e dei materiali del luogo, nonché particolarmente apprezzato dagli isolani, avendo lavorato molto per essi, guadagnando più di 1000 scudi, per cui avrebbe potuto far lui con 300 scudi più di quanto avrebbero potuto far altri con 350. Ma l’argomento principale stava nella considerazione che: “ancorché poco ci guadagna può travagliare anche per altre cose come ha fatto, e propagarsi con quelle fatture, mentre anch’è l’unica sua consolazione di avere di nuovo la grazia da V. E. in ritornare in questa dove ha parenti di sua moglie”.
Salvatore Sanna – Co.Ri.S.Ma