La cucina nella tradizione isolana
Parzialmente tratto dal libro “Cucina isolana. Un arcipelago di sapori mediterranei” a cura di Giovanna Sotgiu e Antonio Frau – Paolo Sorba Editore – La Maddalena
Una cosa hanno di buono le isole: sono crocevia per gente che si sposta, che lascia, momentaneamente o per sempre, la propria terra e naviga cercando altro. Chi parte porta con sé esperienze e saperi che nell’isola nella quale sbarca vengono valutati, a volte respinti, spesso accolti diventando patrimonio comune. E’ ciò che è successo a La Maddalena che, abitata in origine solo da pastori corsi, a partire dalla fine del Settecento ha costituito una comunità nuova nella quale all’antico ceppo si sono aggiunti galluresi, liguri, toscani, campani e, soprattutto, isolani: di Capraia, Ponza, Procida, Ischia, San Pietro, le Baleari e Malta che hanno trasferito con loro bagagli di abitudini.
I pastori corsi, che nel Settecento si nutrivano “del poco formento di cattiva qualità che raccolgono … e dei latticini che producano i loro bestiami”, misero insieme i loro piatti poveri che facevano largo uso di erbe spontanee, con pietanze sconosciute o trasformate grazie a profumi ed essenze che entravano pian piano a far parte della loro cucina. Così la menta persa o persica (maggiorana) e il basilico del pesto da Genova, attraverso Capraia, avrebbero trovato il loro posto nei minestroni, nelle paste e pure in tanti piatti con le verdure; e le spezie come la cannella o i chiodi di garofano, che arrivavano soprattutto da Malta, avrebbero ingentilito o fortemente caratterizzato dolci e pietanze conservate.
Non pensiamo però, che tutti gli usi provenienti dall’esterno abbiano trovato buona accoglienza a La Maddalena: una selezione naturale nel tempo li assorbiva o li rigettava; così, ad esempio, l’uso di una pianta spontanea, il finocchio marino, ben conosciuta e abbondante perché parte integrante della gariga costiera, che altrove, ad esempio alle Eolie, entrava da protagonista nelle insalate e era anche conservata per l’inverno sotto aceto, a La Maddalena non fu bene accolta: il sapore e l’odore troppo caratterizzati non piacquero e la pianta può continuare a far bella mostra di sé dappertutto vicino al mare con le sue foglie grigiastre e i bei mazzetti di fiori gialli, certa che nessuno la coglierà per mangiarla. D’altra parte, la bietola, molto usata nella cucina ligure e parte integrante della famosa torta Pasqualina o dei ravioli, venne sostituita a La Maddalena, negli stessi piatti, con la ben più saporita e callosa bietola marina.
Alcuni usi alimentari antichi e consolidati sono scomparsi e, almeno per alcuni, dobbiamo dire fortunatamente: si tratta delle uova di gabbiano o di berta maggiore (guaia), della tartaruga di mare, del delfino e perfino del cormorano.
Le uova di gabbiano, che veniva chiamato oca, erano facili da reperire perché deposte in un nido a terra molto visibile e quindi anche i bambini potevano trovarle; si seguivano, però delle regole: se nel nido c’era un solo uovo si poteva essere certi che fosse buono da mangiare, non gallato; pericolo che si accentuava se erano due o tre. In tal caso bisognava portarsi dietro un secchiello con l’acqua e tuffarle dentro: quelle che affondavano erano affidabili, le altre no.
Le uova di guaia bisognava cercarle in nidi meno accessibili rispetto a quelli di gabbiano, entro cunicoli o ripari sotto le rocce, ma avevano un dato caratteristico che le faceva individuare con sufficiente sicurezza, l’epoca di deposizione, nel mese di maggio e c’era che affermava di riuscire a sapere con precisione anche il giorno. Per le povere berte, che deponevano un solo uovo non c’era speranza: a gruppi partivano i ragazzi, e non solo, verso i luoghi di nidificazione e, con una pertica con un cucchiaio in cima per evitare le beccate dolorose degli uccelli, si impossessavano dell’uovo; alcuni, impazienti di fronte al nido ancora vuoto, arrivavano a uccidere la guaia, infiocinandola con un piccolo arpione (arpetta), per spanciarla e impossessarsi della misera preda. Queste uova si cucinavano in tutti i modi: fritte, sode, in insalata, ma soprattutto in frittate condite, se raccolte ancora all’inizio della primavera, con l’aglio selvatico, u porru.
Ci si potrebbe chiedere perché sobbarcarsi tanta fatica di andare per campagne e pietraie a cercare le uova di gabbiani e guaie invece di usare quelle di gallina: non certo per trovare un migliore sapore visto che, anche se freschissime, conservavano un aroma troppo forte che ricordava la loro origine selvatica e l’alimentazione a base di pesce di quegli uccelli. Possiamo trovare una ragione guardano i prezzi delle pietanze servite nei ristoranti e nelle trattorie maddalenine, prendendo in esame un periodo della prima metà del Novecento, quando già l’isola godeva di una buona economia determinata dalla presenza militare e dal grande sviluppo delle cave. Nel 1922 un censimento dei pubblici esercizi ci offre dei dati interessanti: in una trattoria due uova fritte costavano 2 lire, quanto una frittura di pesce d seconda categoria; in un’altra costavano ancora 2 lire quanto un piatto di carne di agnello o di capretto e più della carne lessa che costava 1,80, di un minestrone alla genovese (1 lira) e un risotto alla milanese (1,80). Al ristorante Savoia di Andrea Giordano (uno dei due accreditati di buona fama insieme al Belvedere di Rosina e Giovannetta Bottini), costavano 2,50 lire quando il roastbeef o la bistecca ne costavano 3. Possiamo dedurre, quindi, che, malgrado le foto del periodi ci mostrino galline che razzolano a Bassa Marina vicino alle case, la produzione di uova non fosse sufficiente al bisogno.
La tartaruga di mare non era oggetto di pesca, ma a volte si impigliava nelle reti o diventava facile preda quando veniva a galla per respirare e, secondo i pescatori, per liberarsi di un fastidioso granchietto che viveva parassita nella sua cloaca: catturata, la si trascinava in porto e la si teneva diversi giorni a spurgare legata con una cima. La sua carne, liberata con cura dal grasso, veniva bollita con il sale, quindi messa a marinare nell’aceto bianco per un paio d’ore e, infine rosolata con olio, aglio, rosmarino, sale e pepe, bagnata col vino bianco, quindi condita con pomodori, olive e capperi e cotta fino ad ottenere un sugo ristretto.
Il cormorano non era una prelibatezza, ma in tempi di magra anche la sua carne stopposa e con forte sapore di selvatico (bistinu) diventava pietanza: ma ci voleva l’accortezza di tenere la carne per una notte al sereno (appesa dietro una persiana per farla frollare), poi a bagno nell’aceto a marinare e infine cotta alla cacciatora con l’aiuto del vino che ne attenuava, pur senza eliminarlo completamente, u bistinu.
Infine il delfino, croce dei pescatori che lo odiavano considerandolo un essere diabolico perché distruggeva le vecchie reti di cotone. Ma se per i pescatori la sua cattura aveva il sapore di una vendetta, non così era per chi sapeva ricavare il prezioso musciame, amato a La Maddalena e ben valutato in Liguria, dove lo si esportava a prezzi alti. I quattro filetti disposti lungo la schiena dell’animale venivano tagliati, messi sotto sale per 48 ore, lavati amare, sgrassati, stesi al sole ad asciugare con l’aiuto del bel vento di ponente perché, si diceva, più secchi sono meglio è.
La Maddalena produceva pochissimi generi alimentari: ma sia a Santo Stefano che a Spargi e a Santa Maria hanno resistito a lungo delle vere aziende agricole a carattere familiare, dei Serra, dei Berretta e dei Viggiani, che arrivavano a farsi concorrenza per il miglior vino; una conferma della buona qualità soprattutto ei bianchi viene dalla domanda di acquisto, a tutti i costi, da intenditori bonifacini. Le viti occupavano anche le aree a levante dell’isola Maddalena, ma non coprivano il fabbisogno locale: servivano a quello di famiglia, agli scambi di regali in occasione di Natale o a festeggiare qualche importante occasione.
Per le verdure all’isola c’erano tanti piccolissimi orti disseminati un po’ ovunque e alcuni più grandi condotti da veri ortolani: a Padule, a Nido d’Aquila in località Stagnaledda, a Ferro Vecchio lungo il corso d’acqua (a vadina) di Cala Chiesa, nella vasta proprietà di Vigna Grande, a Caprera presso la casa Garibaldi e, successivamente, con l’amministrazione militare, alla Tola e Battanino e nella piana fra Stagnali e Porto Palma dove un tempo aveva dissodato e coltivato l’inglese Collins. Malgrado ciò il consumo di verdure per una popolazione che, a partire dal 1901 superava le 10.000 unità, eccedeva di gran lunga la produzione: ma non c’era da preoccuparsi visto che dalla piana di Cannigione, dal Liscia e da Santa Teresa arrivavano ottimi prodotti freschissimi: ricordiamo ancora l’uva da tavola, i piselli e i pomodori di Santa Teresa e le angurie, i meloni e i carciofi dell’antica Codaruina (oggi Valledoria).
Il latte arrivava tutti i giorni in grosse taniche dalla costa gallurese, venduto poi dalle numerosissime latterie; erano i bambini, quasi in processione, a recarsi con i loro gamellini a rifornire la casa del prezioso alimento che costituiva la colazione per tutti: rigorosamente col pane del giorno prima.
Il pranzo era scandito settimanalmente forse dai ritmi di macellazione che obbligavano a comprare la carne in giornate fisse: così, se il venerdì era di magro e quindi prevedeva l’uso del pesce, e la domenica, festivo, la pasta più o meno ricca con la carne al sugo e le polpette, un giorno alla settimana era dedicato al minestrone e un altro al brodo con il secondo di lesso e patate. In inverno dominavano le minestre di legumi secchi, a carnevale le fave e l’immancabile maiale che in quel periodo veniva sacrificato per dare importanti provviste annuali; in estate erano le verdure a farla da padrone: non a caso il giorno di Ferragosto era la Madonna delle melanzane, melanzane, piatto forte nelle gite al mare che, più che per fare il bagno, sembravano occasioni per nutrire in maniera continuativa un esercito: le lunghe carovane dirette a Bassa Trìnita o a Monti da Rena erano cariche di pietanze in cestini, pentole o nei grandi teli colorati (i mandilli da gruppu).
Pesci, crostacei e molluschi avevano anch’essi le loro stagioni e, data abbondanza, erano consumati nei modi più vari.
I dolci seguivano le grandi feste annuali e, per ognuna di queste, c’erano le specialità curate senza risparmio di prodotti e di energie.
Le varie componenti della popolazione isolana, che avevano portato dai loro luoghi di provenienza le loro abitudini alimentari, raramente rimanevano a queste fedeli in maniera assoluta; anzi, adattandosi al cambiamento, sperimentavano inusuali combinazioni e, forse senza rendersene conto, rendevano i nuovi piatti, se non internazionali, almeno interregionali.
Questa situazione si rifletteva, in parte, nelle trattorie.
La Maddalena aveva conosciuto fin dalla metà dell’Ottocento una curiosa locanda gestita solo da donne. L’intraprendente Marta Drago, venuta dalla Corsica, aveva messo a disposizione due camere della sua non vasta casa per i turisti dell’epoca, cioè quelli che arrivavano sempre più numerosi a trovare Garibaldi. Poiché la nave che li sbarcava a La Maddalena ritornava solo dopo una settimana, essi erano costretti a trovare da dormire e da mangiare per quei giorni. La Drago aveva messo su questa piccola impresa coadiuvata dalle figlie, tutte belle, e la cosa non dispiaceva affatto ai visitatori. Non conosciamo esattamente quali pietanze proponesse agli ospiti, ma sappiamo che cucinava paste e riso, il maiale, la cacciagione, il pesce e anche a sentire la baronessa van Schwartz, forse condizionata da una comprensibile gelosia nei confronti delle belle figlie della Drago, qualche pollo coriaceo perché vecchio, definito il bisavolo di tutti i volatili del paese.
Non c’era il pane fresco perché, come in tutte le famiglie maddalenine, anche quelle che gestivano le trattorie lo cuocevano una volta a settimana, il sabato.
A parte queste notizie pervenuteci più perché legate alla presenza di Garibaldi che per la qualità della ristorazione, per trovare una vera rete di trattorie o ristoranti dobbiamo arrivare alla fine dell’Ottocento quando l’istituzione della piazzaforte militare attirò tanti lavoratori da ogni parte d’Italia. Così ai pescatori delle isole pontine e del Meridione si affiancarono gli scalpellini toscani e lombardi, e, soprattutto gli operai del Cantiere navale, provenienti in gran parte da Genova e La Spezia: saranno anche le loro esigenze ad influenzare la cucina.
Un elenco riferibile al primo dopoguerra ci dà notizia della presenza di due ristoranti e sei trattorie di cui riportiamo i nomi e la provenienza dei gestori: Trattoria Roma di Borrielli Pasqualina (Alghero), della Salute di Carboni Filippa (Cossoine), Toscana di Giovanni Grazzini (Montelupo Fiorentino), Isola d’Elba di Umberto Scotti (Elba), Magazzino di vino di Raffaella Rais (famiglia di provenienza cagliaritana), Tempiese di Giuseppina Canu (Sassari), ristoranti Belvedere di Maria Rosa e Giovanna Bottini (legate a Genova) e Savoia di Giordano Andrea (napoletano sposato con Maria Tosto, maddalenina). Le pietanze erano molto semplici e, oltre ai primi piatti, offrivano carni di agnello, capretto e manzo (non di maiale), cotolette, pesci fritti di tre categorie, pesce arrosto, calamari, aragosta, verdure, quelle più popolari e, sembrerebbe dal numero delle portate anche più frequentate, offrivano anche trippa, fegato, melanzane e zucchine ripiene. Il ristorante Belvedere, considerato quello più elegante, aveva un menù ricco, ma solo il Savoia offriva il rosbif. Il pollo in quasi tutte, era carissimo.
Si può parlare, dunque, di una cucina maddalenina di vecchia o nuova generazione? Certamente no se la intendiamo come espressione specifica solo della nostra isola; ma certamente sì se consideriamo il modo di cucinare dei maddalenini che, con grande disinvoltura, hanno fatto proprie ricette di altri, mantenendole a volte intatte, trasformandole o contaminandole altre volte, a loro piacimento.
“Cucina isolana. Un arcipelago di sapori mediterranei” – Paolo Sorba Editore – La Maddalena