La Gallura fra il 1500 e 1800
Alla concessione allodiale della città e baronia di Terranova avvenuta nel 1489 seguì quella di Longosardo del 1501. In questo modo Pietro Maça, che aveva sposato Beatrice Carroz erede di una dinastia che nell’isola vantava estesissimi feudi, divenne detentore di territori che coprivano dal nord al sud buona parte della Sardegna orientale. Per quanto maggiormente interessa, i Maça acquisirono tutto il territorio gallurese che peraltro nella seconda metà del Cinquecento, per travagliate vicende successorie, fu diviso tra due ca~ate scindendo l’originaria vastissima unitarietà. Terranova, eretta in Marchesato nel 1585, divenne appannaggio dei duchi di Bejar con i titoli originari di Carroz, Arborea, Maça e Ladron; il resto della Gallura venne ceduto ai duchi di Hijar, delle famiglie dei Portugal, da Silva, Rodriguez-Femandez. I componenti di entrambe le casate, grandi di Spagna ed ormai definitivamente residenti alla corte di Madrid, non misero mai piede in Sardegna.
Nonostante questa ripartizione, tuttavia, si può tranquillamente continuare a ragionare della Gallura in termini unitari, considerando che tale vicenda non incise di fatto né di diritto sulla unitarietà della Diocesi e non ostacolò il normale interscambio di uomini ed interessi tra i due territori artificiosamente divisi. I problemi di percorrenza erano legati essenzialmente alla mancanza di strade: solo tratturi allargati nel corso dei secoli dal calpestio di uomini e animali e dal passaggio dei carri collegavano tra loro i diversi nuclei abitati talora superando quasi in linea d’aria le notevoli asperità del terreno. Ma durante il periodo delle piogge le comunicazioni erano spesso interrotte dall’ingrossarsi dei fiumi e dalla mancanza dei ponti.
Ad occidente il Coghinas separava nettamente la Gallura dall’Anglona appartenente ad altro feudatario; sul Limbara passava la linea di confine, ripetutamente controllata dai funzionari regi e dai periti di parte, che la divideva dal Monte Acuto. La Gallura propriamente detta si estendeva, con i salti di Tempio che secondo il “sommarione” del cessato catasto predisposto nella seconda metà dell’Ottocento abbracciavano oltre 11.000 ettari di terreno a pascolo più circa 1.500 ettari di ghiandiferi ed appena 850 di campi ed aratori, dai limiti di Terranova posti nella zona di Porto S. Paolo – Costa Corallina a S. Teodoro d’ Oviddè, ai confini di Posada. Limiti in verità contestati dal centro costiero secondo cui il suo territorio si estendeva sino a Punta Sabatino presso lo stagno di S. Teodoro.
S. Giovanni di Arzachena e Priatu costituivano i punti di separazione, in realtà molto labili, da Terranova dove continuavano a convergere numerosi interessi dei Galluresi dell’interno. In realtà la fascia territoriale compresa tra Priatu, Almiddina, Telti ed Aratena può considerarsi un punto di incontro e talora di scontro tra le diverse comunità agro-pastorali presenti sul territorio.
Le testimonianze degli scrittori cinquecenteschi sono concordi nel tracciare un quadro ben preciso della antropizzazione della regione. Spiagge e coste prive di centri abitati e quindi ottimo rifugio per pirati barbareschi, banditi e contrabbandieri. Vastissime distese incolte popolate da pastori transumanti dall’interno che vivevano in ripari precari. Nella prima età moderna giunse a compimento la rivoluzione demografica che modificò totalmente il panorama antropico della regione per le note vicende naturali e politiche dell’ultimo medioevo: sia la peste nera della metà del XIV secolo, sia le guerre combattute per circa centocinquanta anni dagli Aragonesi per affermare il loro totale dominio. In Gallura come nel resto della Sardegna e dell’Europa occidentale alla ruralizzazione medioevale caratterizzata dalla grande diffusione dei piccoli centri “precari” sparsi nelle campagne, subentrò la “urbanizzazione”.
Gli abitanti della regione nord-orientale dell’isola che sopravvissero alle calamità furono costretti ad abbandonare i territori originari ed a rifugiarsi all’interno in insediamenti più sicuri ed in particolare nella regione chiamata Gemini dove erano ubicati i villaggi di Tempio, Aggius, Bortigiadas, Calangianus, Luras e Nuchis e dove in seguito specie nella prima località, finirono per stabilirsi i maggiori esponenti dei ceti dominanti locali che si inserirono perfettamente nelle istituzioni feudali concentrate essenzialmente a Tempio, controllando sia il versante amministrativo, sia quello economico del sistema.
Per gran parte dell’età moderna i ram polli delle famiglie più importanti della zona, spesso dotati di titoli nobiliari, furono chiamati dai feudatari residenti a Madrid ad amministrare la giustizia presso i tribunali feudali e soprattutto all’appalto ed alla riscossione delle rendite del territorio. Gli introiti baronali variarono nel tempo raggiungendo punte massime di circa 6.000 lire sarde nel 1758 e minime di quasi 1.800 lire sarde nel 1766, con fluttuazioni anche repentine dovute al variare della produttività pastorale su cui i tributi erano in gran parte concentrati. Nell’ultimo Settecento e nel primo Ottocento, in coincidenza con le perturbazioni legate ai moti antifeudali, ma soprattutto alle faide presenti nella regione, le esazioni furono quasi totalmente sospese.
Mentre dunque, seppure tra notevoli difficoltà sin dalla prima età moderna i centri dell’interno iniziarono a crescere, gli abitati posti in maggioranza in prossimità delle coste, una cinquantina circa, vennero viceversa progressivamente abbandonati e solo rovine di povere abitazioni che scomparvero col tempo e alcune chiese dei villaggi distrutti, ormai chiese isolate al centro di vasti territori deserti, furono l’unico riferimento del passato. In questi territori e presso tali chiese tuttavia, periodicamente da più generazioni tornavano gli abitanti ormai sistemati si all’interno, che nonostante gli anni e la distanza continuavano a vantare diritti sulle terre degli avi o semplicemente ripercorrevano per consuetudine immemorabile i tradizionali percorsi della transumanza. Talvolta i terreni e le chiese erano punti di riferimento per individui discendenti in origine da un unico sito ma ormai divisi tra comunità diverse ed allora il pascolo e la coltivazione diventavano promiscui ed i santi patroni venivano festeggiati e/o contesi da due o più villaggi.
Le fonti del Cinquecento e del Seicento come si è precedentemente ricordato fotografano molto bene la situazione: la relazione scritta nel 1572 dal capitano Camos incaricato dal sovrano spagnolo di predisporre un piano di difesa dei litorali conferma la mancanza di centri costieri e la presenza nelle pianure di pastori nomadi che in caso di attacco da parte dei pirati avrebbero dovuto avvisare gli abitanti dell’interno. Il Fara, che scrisse probabilmente una decina d’anni più tardi (1580), ribadisce la diffusione nelle campagne di pastori nomadi che si spostavano per gran parte dell’anno con tutta la famiglia riparandosi nelle caratteristiche rocce tafonate o, come precisa il visitatore generale del re di Spagna CarriIlo nella sua relazione stilata intorno al 1610, in capanne chiamate stazzi. Sino alla metà del Seicento questa situazione è confermata dalle fonti laiche ed ecclesiastiche, in particolare rispettivamente dal già citato Carrillo e dalle relazioni ad limina predisposte dai vari prelati che guidarono in quel periodo la diocesi di Ampurias e Civita. La situazione di nomadismo dei pastori originari dei villaggi dell’interno in cui rientravano seppure raramente per particolari incombenze, appare sostanzialmente immutata per tutto il Seicento. Verso la fine di tale secolo peraltro, iniziò a delinearsi in alcune zone una prima modificazione di tale linea di tendenza. Negli atti notarili che sono oggi reperibili con una discreta consistenza numerica a partire da quelli dell’ultimo ventennio del secolo XVII compaiono, insieme ad ancor prevalenti cenni a pastori che pascolano nei terreni demaniali della incontrada, riferimenti seppure sporadici alla presenza di ovili, insediamenti che in qualche misura preludono ad una maggior stabilità umana e ad una privatizzazione del territorio. Si sviluppò in questo periodo la corsa all’appropriazione della terra in una regione che per le note carenze demografiche ed insieme per la vastità del territorio disponibile e per la mancanza di controllo statale e feudale, ne aveva visto un uso sino ad allora prevalentemente comune. Si sentì infatti in un periodo di ripresa demografica, l’esigenza sempre più pressante di delineare i diritti sulla terra sia attraverso il semplice uso e possesso, sia spesso con forza con l’affermazione di un diritto di proprietà in genere usurpato. Per quanto concerne l’antropizzazione delle campagne si manifestò dunque un fenomeno per molti versi simile a quello avvenuto nella Nurra di Sassari ed in questo caso ben documentato.
Mentre peraltro in quest’ultima regione la colonizzazione, nel complesso quantitativamente di molto inferiore ed iniziata circa un secolo prima, fu guidata e controllata dal consiglio civico del capoluogo logudorese in un territorio di indiscussa proprietà comunale e nell’ambito dello sviluppo della cerealicoltura, in Gallura si svolse viceversa al di fuori di ogni controllo statale e feudale, vale a dire delle istituzioni giuridicamente detentrici del territorio, spesso guidata dai grandi proprietari di bestiame che risiedevano nei villaggi dell’interno e non di rado avevano alle loro dipendenze numerosi pastori; sovente avventura individuale, valvola di sfogo per i ceti subalterni che probabilmente, a causa della progressiva privatizzazione dei luoghi comuni più vicini ai centri abitati, avevano perso gran parte dello spazio di sussistenza per antico costume loro riservato. D’altro canto non si può non rilevare che la Gallura fu l’unica parte del territorio sardo a conoscere nel corso dell’età moderna una relativamente elevata immigrazione dall’esterno. Come si sa i tentati vi di ripopolamento settecenteschi dell’isola progettati nell’ottica mercantilista e fisiocratica che interagì successivamente con le nuove tendenze riformatrici, non ottennero risultati apprezzabili. Le carte d’archivio ci rimandano viceversa una consistente e qualificata presenza corsa nel territorio nord-orientale già nella prima parte dell’età moderna, che andò progressivamente aumentando tra fine Seicento e primo Settecento. Tale spostamento di popolazione fu nei momenti cruciali determinato da faide familiari devastanti (le autorità genovesi nel 1715 indicarono in ben 28.715 gli omicidi compiuti nella vicina isola negli ultimi trent’anni con una media annua di oltre 900 morti) e da rovinose difficoltà economiche derivanti soprattutto alle comunità pastorali dallo sviluppo dell’agricoltura che con il processo di delimitazione dei terreni sottraeva loro gli spazi indispensabili per la sopravvivenza. L’esodo massiccio non si arrestò neanche nel periodo successivo in cui si svilupparono tra l’altro violenti moti insurrezionali contro Genova. Gravissimi problemi di ordine pubblico interessarono la Gallura nel corso del primo Ottocento: alle tradizionali perturbazioni legate al contrabbando ed all’abigeato, si aggiunsero in questo periodo i tentativi di sbarco dalla vicina Corsica dei fuorusciti filo-angioyani che si conclusero in maniera infausta con la cattura e la morte di Cilocco e Sanna-Corda. Ma un clima di vera e propria anarchia si verificò qualche anno più tardi quando, preceduta da episodi di minor gravità ma pur sempre cruenti, si scatenò una vera e propria guerra civile che coinvolse gran parte della popolazione gallurese divisa in due fazioni.
Centinaia di omicidi e rancori terribili furono composti soltanto dopo diverso tempo e tantissime difficoltà, lasciando prostrata una regione che venne ulteriormente colpita nel 1812 da una carestia devastante. Per tutto questo lungo periodo, dunque, emarginati senza terra, fuorusciti, banditi, ma anche agricoltori e pastori, mercanti, uomini di legge, attraversarono lo stretto braccio di mare e si stabilirono nell’isola maggiore. Durante questo periodo i dati peraltro estremamente opinabili fomiti dal fiscalismo feudale e statale sembrano indicare, pur nella modestia delle cifre assolute, un incremento percentuale della popolazione gallurese di oltre il 200% in circa cento anni (5.779 abitanti nel 1688; 7.747 nel 1698; 13.181 nel 1751; 18.198 nel 1782). L’immigrazione, chiaramente evidenziata dalla progressiva sostituzione della parlata sarda con quella della vicina isola, è segnalata ancor oggi dalla presenza di numerosissimi cognomi di provenienza corsa che confermano la vastità e la profondità del popolamento. Tale vicenda è particolarmente nota e studiata per la zona di Santa Teresa, ma è senza dubbio facilmente ricostruibile sino ai limiti estremi di S. Teodoro ed all’interno del territorio gallurese.
La stessa modificazione progressiva del paesaggio agrario con la trasformazione della pastorizia nomade in stanziale e la nascita della tipica economia dello stazzo, contribuisce alla ricostruzione della storia dell’antropizzazione delle campagne galluresi. Ancora nel primissimo scorcio del Settecento gli atti notarili, che in mancanza di catasti sono i documenti più attendibili per osservare le variazioni avvenute sul territorio, ribadiscono la presenza crescente di “ovili” benché in misura ancora relativamente sporadica. Il primo atto particolarmente esauriente è un patrimonio sacerdotale del 1707 di don Miguel Pes Misorro in favore del figlio, in cui si accenna a due pastori con “greggi, capanne, ovili e loro giurisdizioni che dicono volgarmente varriadorgiu e braviadorgiu nella cussorgia di Surrau”. Il testamento di Caterina Fundoni specifica la presenza di rebani nella cussorgia di Arzachena e di altri in Balaiana (anno 1713) e gli accenni a rebani con le loro giurisdizioni si fanno sempre più frequenti negli anni venti e trenta del secolo.
Nel 1738 compaiono in un atto di vendita alcuni cenni che chiariscono in modo esplicito l’equivalenza del termine rebano con stazzo già usato dal CarriIlo intorno al 1610: un tale vende un rebano che è tenuto con giusto titolo ed è stato ereditato dal padre. Si tratta di “un rebano o estazu fabbricato con tutti i territori che lo riguardano e pertinenze posto riel luogo chiamato Vignola o Monti Russu”, confinante con altri rebani e stazzi di nobili e pastori fino alla torre di Vignola. Infine un altro atto di vendita di rebano nel 1752 precisa meglio la connotazione del riparo e del territorio circostante: “nel rebano vi è una casa fabbricata con tetto di tegole, teja, vachile, terre aratorie, giurisdizioni”. .
Questi riferimenti e numerosi altri che si possono dedurre dalla lettura degli atti notarili, chiariscono dunque il problema di fondo. Lo stazzo in origine non era altro che la capanna in frasche utilizzata dai pastori nomadi sostituita successivamente dalla casa in muratura nel momento della sedentari età. Con l’andar del tempo con questo termine si indicarono non solo le case, ma anche le giurisdizioni in senso Iato. Proprio l’accenno alle giurisdizioni dello stazzo indicate inizialmente con i termini sardi di braviadorgiu e varriadorgiu richiama immediatamente il furriadorgiu, nome usato nel Sulcis per le similari costruzioni e giurisdizioni. Lo stesso appellativo di rebano mutuato dalla Spagna dove significava in senso stretto “gregge, mandria” magari in movimento, divenne in Gallura sinonimo di luogo dove le bestie venivano ricoverate, ovile, e poi, come dicono esplicitamente le carte stazzo che aveva non di rado tra le sue giurisdizioni vachili e terre aratorie.
A questo punto la connotazione è completa e l’interrogativo si risolve.
L’economia delle campagne galluresi sembra attraversare nel lungo periodo una fase di sviluppo e poi di involuzione. E’ assodata la presenza nei secoli XVII e XVIII di una notevole commercializzazione di formaggi ed in genere di prodotti pastorali verso l’estero. Insieme ad un forte contrabbando ripetutamente segnalato, tale commercio è desumibile da varie fonti ed in particolare dagli accordi tra gli esponenti della nobiltà e della proprietà locale e due ordini religiosi che poterono fondare a Tempio i loro conventi proprio grazie ad una tassazione sui prodotti pastorali in uscita dai porti della regione. Con atto notarile stipulato nel 1665 le comunità di Tempio e di Terranova si impegnarono infatti a pagare in favore degli Scolopi una percentuale sui formaggi che venivano esportati. In cambio i religiosi avrebbero fondato un collegio per l’istruzione dei giovani galluresi. Nel 1687 tale operazione venne ripetuta utilizzando come pagamento 6 denari per ogni libbra di formaggio, lana, cuoio, pelle, in favore delle monache di clausura provenienti dal monastero di S. Chiara in Sassari, che avrebbero costituito a Tempio una comunità religiosa per ospitare le giovani che ne avessero fatto richiesta. Oltre a questi episodi, che si segnalano anche per i risvolti di tipo culturale, gli inventari post mortem evidenziano per tutto il primo Settecento scorte di formaggi in attesa d’imbarco presso i magazzini che i principali possedevano a Terranova, Longosardo e Castelsardo. Il quadro che si desume da tali fonti mostra il pastore nomade e poi il pastore sedentario stanziato nello stazzo, come unità di produzione integrata nell’ambito di un circuito di commercializzazione abbastanza avanzato per la Sardegna del tempo, che fece la fortuna dei grandi proprietari di bestiame i quali convogliavano verso l’estero la loro produzione. La situazione iniziò a mutare nella seconda metà del Settecento quando i ceti dominanti residenti nei villaggi dell’interno per una serie di circostanze che non è qui il caso di ricordare, persero progressivamente l’interesse per il bestiame (circa 8.000 capi di specie diverse appartenuti ad un solo esponente della famiglia Misorro nel primo Settecento e oltre 80.000 censiti in tutta la regione nel 1771 dall’Intendenza Generale del Regno, tra cui spiccano circa 35.000 caprini, 19.000 ovini ed oltre 15.000 bovini) ed i vastissimi territori di cui le loro famiglie si erano appropriate.
Numerosissimi atti di vendita di stazzi da nobili, principali, proprietari a favore di pastori spesso alle loro dipendenze, indicano inequivocabilmente uno spostamento di titolarità nella proprietà delle campagne a favore dei ceti già subalterni, che divennero a questo punto di fatto e/o di diritto proprietari degli stazzi a tutti gli effetti: tale evoluzione si nota a partire dalle zone costiere più distanti dai centri dell’interno e quindi più difficili da controllare. Il quasi definitivo ribaltamento della situazione proprietaria può essere ben riassunto dai dati rilevati a fini fiscali da un esattore del cadente sistema feudale negli anni trenta dell’Ottocento. In quel periodo, che vide la fine di un sistema economico e politico plurisecolare, appena il 10% circa dei pastori residenti nelle cussorge galluresi (ma il dato deve essere considerato nettamente errato per eccesso a causa delle difficoltà di rilevazione) risultavano ancora dipendenti dagli antichi principali residenti nei villaggi. Tra ultimo Settecento e primo Ottocento dunque, la commercializzazione su vasta scala della produzione pastorale, un tempo diretta e coordinata in modo capillare da costoro, diminuì progressivamente sia per le gravi perturbazioni politiche e sociali del periodo, sia per la mancanza degli attori principali che rastrellavano il prodotto, lo convogliavano verso i porti d’imbarco e contrattavano prezzi e quantitativi con i mercanti forestieri. I pastori, privati ormai di tale intermediazione essenziale (che fu solo parzialmente sostituita dagli stessi commercianti), salvo casi particolari riguardanti soprattutto le località prossime alle coste dove il surplus veniva da essi contrabbandato con la Corsica, si rinchiusero in una gestione dello stazzo che possiamo definire di sussistenza, seppure spesso conservando rapporti di clientela con gli antichi padroni dei villaggi cui facevano comunque capo per alcuni essenziali incombenze in taluni periodi dell’anno. L’economia pastorale venne così progressivamente integrata, grazie alle “giurisdizioni” dello stazzo, vale a dire ai terreni intorno alla casa ed alle mandre ed ai pastoricciali concimati dal bestiame, da un’ agricoltura volta quasi totalmente all’autoconsumo familiare e basata pressoché esclusivamente sulla cerealicoltura e talvolta su una modesta viticoltura. Nacque dunque in questo periodo l’ibrida figura del pastore-contadino come si è sviluppata tra Ottocento e Novecento, forse unico caso del genere in Sardegna. L’unità territoriale cui faceva capo la famiglia rurale era la cussorgia. Tale termine, usato a volte con accezione agraria, altra giuridica, indicava un’ estensione di terreno incolto ma delimitato geograficamente su cui i pastori pascolavano il bestiame esercitandovi diritti reali. I lunghi elenchi di cussorge sparse sul territorio gallurese, desumibili sia da fonti archivistiche sia letterarie, ci trasmettono un centinaio circa di toponimi alcuni dei quali ricordano le antiche curatorie giudicali ed i villaggi medioevali i cui ruderi, almeno sino al secolo scorso, erano spesso individuabili con una certa facilità. I Savoia tentarono inutilmente di farne delle vere e proprie circoscrizioni amministrative per meglio controllare gli irrequieti abitanti delle campagne. Alloro interno, sotto il profilo quantitativo, il quadro della dislocazione ottocentesca degli stazzi sembra privilegiare nella zona costiera alcuni siti in prossimità dei punti di imbarco e delle zone agricole (si ricordino per tutti Vignola ed Arzachena); nel territorio interno, ad altitudini comunque mai superiori ai settecento metri, tra le zone a maggior densità emerge senza dubbio quella di Luogosanto.
Le disposizioni impartite dalla segreteria di stato di Torino (a quel tempo retta dal Bogino) al vescovo Guiso che nel 1772 si recava a Tempio per prendere possesso della diocesi, offrono un quadro sintetico ma estremamente esauriente della situazione relativa all’antropizzazione delle campagne. Riprendendo e sviluppando probabilmente precedenti progetti governativi si riteneva necessaria la riattivazione, al centro delle cussorge poste in territori strategici e particolarmente popolati, di alcune chiese che servissero come punto di riferimento e di controllo per i pastori che sostavano quasi tutto l’anno in campagna e che in tali zone continuavano ad abitare prevalentemente in capanne anziché in case in muratura. L’ individuazione dei siti privilegiò alcune località in prossimità delle coste dove più difficile era il controllo governativo e maggiore il contrabbando soprattutto con la Corsica. Nelle carte si fa riferimento esplicito alla chiesa di Aglientu, intitolata a S. Francesco, da riattivare insieme a quella della Trinità di Agultu che aveva intorno, a poca distanza, circa duecento capanne di pastori aggesi; un’altra chiesa, intitolata a S. Pasquale, dominava il fiordo di Porto Pozzo, ottimo riparo per le navi; quella di S. Maria di Arzachena era considerata punto di riferimento essenziale per un territorio di pianura fertile e densamente popolato, retroterra di insenature deserte spesso rifugio dei pirati; infine, oltre Olbia, nella zona di Oviddè, la chiesa di S. Teodoro ai limiti dei confini di Posada e del beneficio ecclesiastico di Sullai terminale di transumanza come quelli più settentrionali di Pedro Oggiano e Caresi. Tali luoghi di culto, con quello antico e prestigioso di Luogosanto, avrebbero dovuto agire da catalizzatori per i pastori delle campagne. Il piano sabaudo si concretizzò tuttavia soltanto a lunghissima scadenza: la formazione di nuclei abitati stabili di una qualche importanza intorno alle chiese avvenne infatti a circa un secolo di distanza ed oggi tali edifici religiosi, un giorno isolati nelle campagne o nei “ghiandiferi”, fanno mostra di sé al centro di abitati in sviluppo che, separati si anche amministrativamente dai paesi di origine, sono ormai divenuti comuni autonomi. L’ondata di popolamenti, che portò alla nascita di tal uni centri intermedi tra gli insediamenti della Gallura interna ed il mare, mostra che anche nel nostro territorio, come nelle altre regioni storiche della Sardegna, nell’Ottocento iniziò a svilupparsi in misura consistente il fenomeno di spostamento degli abitanti verso le zone costiere. Sino ad allora, come si è ampiamente ricordato, la discesa a valle era stata infatti tutto sommato episodica e non definitiva, anche se dettata quasi sempre da motivazioni vitali di spazio e di approvvigionamento. In un territorio quale quello gallurese in cui dominava nettamente l’allevamento, le zone destinate all’agricoltura poste quasi tutte in pianura benché distanti dai centri abitati e difficili da raggiungere, divennero esse stesse punti di riferimento importanti. Già negli anni trenta del Settecento il viceré Rivarolo aveva tentato inutilmente di imporre la coltivazione delle terre fertili in prossimità della costa individuandovi alcune viddazzoni. La già citata statistica dell’Intendenza Generale del 1771, indica in 2.958 gli starelli seminati a grano nella regione e 1.877 quelli ad orzo; il raccolto è rispettivamente di starelli 14.637 e starelli 8.543: dunque una resa che non raggiunge il 5 per l, molto modesta come peraltro la superficie coltivata. Una carta del primo Ottocento ribadisce l’interesse per alcuni territori che al di là di ogni imposizione governativa cominciavano ad essere frequentati dagli agricoltori. Insieme a Padulu, località presso Tempio, sono ricordate ancora una volta Vignola, distante dal capoluogo da sei a sette ore di cammino, con vaste campagne, fertile se pioveva, sterile nelle stagioni secche e comunque bisognosa di grandi disboscamenti; Liscia, dalle sei alle nove ore dal capoluogo, aveva bisogno di analoghe cure a causa della folta macchia mediterranea~ dello stesso tipo Arzachena, che si trovava da Tempio più o meno alla stessa distanza e necessitava di un duro lavoro per essere resa produttiva; infine Aratena, alle spalle delle territorio olbiese, a circa cinque ore di cammino dalla regione interna. L’ubicazione delle zone agricole mostra la difficoltà d’approvvigionamento cerealicolo cui andavano incontro i villaggi di Gemini e la necessità di una permanenza in loco per esercitare un necessario controllo al momento del raccolto. Non deve dunque meravigliare che i ceti dominanti locali fossero proprietari di estese terre cerealicole nella confinante regione dell’Anglona donde traevano buona parte delle scorte alimentari necessarie.
A conferma del quadro sin qui evidenziato circa le motivazioni dell’antropizzazione del territorio gli stessi toponimi, a ben leggerli, raccontano vicende non dissimili: per rimanere alle località costiere basti ricordare Vignola, che deriva il suo nome direttamente dai Romani confermando l’ininterrotto interesse delle popolazioni per un sito che anche nei periodi di massima crisi demografica conservò la funzione di approdo e che nel corso del Seicento vide calare numerose tonnare nelle sue acque. In altre parti del territorio viceversa, l’assenza dell’uomo è segnalata da toponimi che denotano un abbandono più completo, in particolare quelli che hanno come riferimento la disastrata situazione idrografica: Palau, ad esempio, ad indicare gli impaludamenti frequenti nel corso terminale del Liscia; Padulu e Paduledda, altre località poste in zone diverse del territorio dove il paludismo era il segno distintivo per eccellenza. Ed ancora, siti evidenziati solo per la bizzarria della natura che modella le rocce o i luoghi in forme fantastiche, o semplicemente per la presenza cospicua di piante ed animali: Capo d’Orso, Porto Cervo, Liscia di Vacca, Porto Rotondo, Li Nibari; talora indicati con riferimenti a uomini ricordati proprio perché unici abitatori di località deserte o autori o vittime di vicende cruente: Giacomoni, Linaldeddu, colciu Carrolu, Petru malu, femina morta. Le chiese tra cui quelle precedentemente ricordate, in gran parte come si è detto di origine medioevale, propongono viceversa una temporanea interruzione della presenza dell’uomo poi ripresa tra fluttuazioni cicliche di abbandono e di riappropriazione del territorio strettamente legate al radicamento della cristianizzazione. Altre chiese campestri, in particolare quelle dedicate a S. Rocco e a S. Sebastiano, segnalano viceversa il passaggio, anche nell’età moderna, delle epidemie di peste e la gratitudine umana per il loro superamento.
Nel complesso chiese rurali in numero nettamente superiore a quello delle altre regioni della Sardegna – un centinaio indicate da una carta piemontese del primo scorcio del Settecento ed un’ottantina censite dall’Angius un secolo più tardi. Per buona parte dell’età moderna gli insediamenti stabili lungo le coste furono soltanto due, per quanto labili essi stessi: Longosardo (Longone come era chiamato dalle popolazioni locali con un toponimo giunto sino ai nostri giorni), una torre a guardia dello stretto di Bonifacio sul lato del fiordo opposto a quello in cui emergevano le rovine dell’antico castello giudicale smantellato dagli Aragonesi. Qui poche casupole segnalavano la presenza di un approdo abilitato al commercio con la Corsica e controllato dai funzionari regi e baronali che cercavano di evitare il contrabbando e riscuotevano le gabelle sulle merci in transito. In qualche modo ancorato agli schemi di colonizzazione settecentesca fu il suo definitivo popolamento avvenuto nel primo Ottocento. Esso fu infatti residua espressione dei disegni sviluppati nella seconda metà del secolo XVIII di controllo sugli irrequieti pastori galluresi ed insieme sui contrabbandieri che operavano nello Stretto, rafforzato dagli attriti con la vicina Corsica e quindi con la Francia. Tale popolamento fu portato avanti dall’ufficiale piemontese Magnon il quale, nel 1808, diede vita ad un villaggio cui come si sa fu imposto il nome di S. Teresa in onore della moglie del re Vittorio Emanuele I. A S. Teresa affluirono (dopo un periodo iniziale di grandi difficoltà, di accesi scontri, di contrasti ed ostacoli frapposti da quanti vedevano nel nuovo agglomerato un grosso pericolo per i loro traffici) pastori galluresi e abitanti di Bonifacio.
Costoro, cui furono assegnati numerosi territori limitrofi ceduti appositamente dal demanio e dai maggiori proprietari tempiesi (Capo Testa, Val di Galera, Capannaccia etc.) diedero vita ad una comunità in cui convissero a lungo allevamento e pesca, eredità tradizionali dei nuclei originari.
Sicuramente più cospicuo ma anch’esso disastrato il secondo sito: Terranova, erede dell’antica città di Olbia, cinta nel periodo classico da mura e torri di difesa. Sede ormai solo nominale dell’antica diocesi di Civita unita aeque principaliter nel 1506 da Giulio II a quella di Ampurias. Per buona parte del Cinquecento il vescovo risiedette nella nuova sede ampuriense di Castel Aragonese e solo successivamente i prelati iniziarono l’alternanza con Tempio, ormai divenuto il centro abitato più importante della Gallura, dotato di una chiesa insignita del titolo di collegiata a partire dal 1621 e abitato da un’aristocrazia ed un clero che ripetutamente chiesero il titolo di città e la translatio canonica della sede vescovile. Entrambe le mete furono raggiunte, anche se con molto ritardo, negli anni trenta dell’Ottocento. A Terranova, già nel secolo XVI ormai ridotta di fatto al rango di villaggio, nel 1553 sbarcò il celebre corsaro Dragut che nello stesso periodo, tra l’altro, nelle sue scorribande per il Mediterraneo, cinse d’assedio Bonifacio e dopo circa un mese di lotta entrò nella fortezza massacrandone i difensori. Terranova venne in gran parte rasa al suolo: una relazione del viceré di Sardegna informò il sovrano dell’accaduto precisando che rimanevano in piedi circa 200 abitazioni. Nel 1559 le case abitate erano solo 170 in buone condizioni ma ormai abbandonate e 140 diroccate ed in rovina. Soltanto intorno alla metà del Seicento il feudatario del luogo decise di costruire quello che venne definito un “castello” munito di artiglieria, probabilmente una grossa torre a difesa del centro abitato e del porto. Il centro abitato, nonostante le traversie subite, conservò tuttavia una centralità fondamentale grazie al suo approdo che nel corso dell’età moderna rimase un importante punto di riferimento privilegiato per i commerci marittimi della Sardegna nord-orientale. Gli appaltatori ed i collettori regi e feudali che si alternarono per tutto il periodo nell’esazione delle rendite del Marchesato e di quelle reali, non fecero indubbiamente grandi affari: i pochi abitanti erano esentati dai tributi personali e i diritti esatti riguardavano sia le merci in transito nel porto (in genere prodotti pastorali su cui esigevano percentuali anche i rappresentanti degli Scolopi e delle Clarisse di Tempio), sia machizie di prato e viddazzoni ed affitto sui terreni in cui pascolavano i porci forestieri, oltre il diritto di Prado Oggiano, che si riferiva ad un terreno adibito anch’esso a pascolo di bestiame. Nel complesso somme annue varianti tra le 1.500 lire sarde del primo decennio del Settecento ed un massimo di circa 2.200 lire sarde esatte nel 1737; con una tendenza alla diminuzione nell’ultima parte del Settecento e nel primo Ottocento in cui si incamerarono 1.000 lire sarde.
Nonostante il porto il villaggio continuò per lungo tempo ad essere ben poca cosa: alcune misere case assediate da malsani stagni e da vasti impaludamenti nella pianura circostante.
Appena 240 abitanti nel 1688 e 379 dieci anni più tardi, con una tendenza peraltro al progressivo benché contenuto incremento demografico: nel Settecento si superarono di poco i 1.000 abitanti e soltanto nel secondo Ottocento i 2000. La piana retrostante, dove era ubicata la viddazzone del paese, fertile per la presenza di importanti corsi d’acqua seppure in più parti paludosa e malsana a causa della mancanza di opere di bonifica, era caratterizzata dalla produzione cerealicola; essa veniva anche utilizzata dai pastori dell’interno, in particolare da quelli delle propaggini settentrionali della Barbagia, delle Baronie e del Monte Acuto, come terminale per una transumanza dalle percorrenze relativamente modeste. Lungo la fascia costiera gli stagni davano vita ad importantissime saline in cui lavoravano coattivamente gli abitanti di Terranova spesso in lite con i proprietari appartenenti alla nobile famiglia Pes originaria di Tempio. Tali saline,
quelle “vecchie” presso Pittulongu e quelle “manna” e “longa” presso la foce del rio Padrogiano, erano tradizionalmente aperte a tutti i capifamiglia galluresi che vi confluivano per la provvista annuale del sale necessaria per insaporire i cibi ma soprattutto, in una società priva dell’industria del freddo, per salare i formaggi e conservare le carni e gli altri prodotti che venivano lavorati nella zona in grande abbondanza. Tutto il resto del litorale era privo di centri stabili sino a Posada appartenente ad altro feudatario; ma nel corso del Settecento e poi nel primo Ottocento, nella vasta area della Gallura meridionale chiamata “salti di Tempio” sino a S. Teodoro, in apparenza deserta, appare evidente dalle carte che in contrasto con il circostante mondo “sardo”, andavano progressivamente riproducendosi le tipologie abitative galluresi. Da Unchile a Castagna, a Palma e Lisandrajo, ai coltivi di Pecorile, Ovile e Ovilò ed ai salti di Ovoddè, sono infatti individuabili oltre un centinaio di stazzi che confermano il progressivo completamento della “colonizzazione” anche nelle aree periferiche e prossime alla costa.
Sul mare gli altri “porti” talora indicati dalle carte erano in realtà approdi più o meno protetti: oltre Terranova di fronte alla deserta Tavolara nido d’aquile e rifugio di pirati e di pescatori Porto S. Paolo, già citato dal Fara nel Cinquecento come riparo sicuro ed a nord, non distante da S. Teresa, Porto Pozzo. Le numerose relazioni che nella seconda età moderna segnalarono l’attenzione di solerti funzionari governativi per questa parte periferica della Sardegna, tesero soprattutto ad individuare le località costiere dove si riteneva possibile stabilire punti di approdo e di controllo ed insieme ribadirono la bassissima densità della popolazione. Tutta la costa gallurese era dotata di decine di fiordi, cale, insenature in cui le navi potevano facilmente riparare e dove non di rado trovavano rifugio i barbareschi sicuri nonostante la grande lontananza dalle loro basi nordafricane: il Cannigione e le altre spiagge di Arzachena che alcuni Tempiesi chiesero di colonizzare nel 1761, quando con una lettera al viceré sabaudo di turno suggerirono la costruzione di una torre di difesa da innalzare a Porto Cervo o a Liscia di Vacca; il porto chiamato di “mezzo schifo” presso l’attuale Palau, che un progetto dell’intendente generale del Regno (anno 1768), suggeriva di abilitare al commercio in alternativa a Longosardo, grazie sia alla posizione geografica favorevole, sia alla protezione del vicino campo trincerato di Villamarina; l’Isola Rossa tra Vignola e Castelsardo, anch’essa protetta da una torre, al cui popolamento erano interessati ai primi dell’Ottocento alcuni abitanti di Aggius. In realtà la prima nascita di un nuovo insediamento costiero avvenne nell’isola della Maddalena negli anni settanta del secolo XVIII, quando il governo sabaudo, profittando delle difficoltà contingenti di Genovesi e Francesi che operavano in Corsica, si impadronì di alcune delle cosiddette Isole Intermedie poste ai limiti dello Stretto di Bonifacio. Si dovettero vincere la resistenza e le rimostranze di alcuni pastori corsi che per antica consuetudine vi pascolavano il bestiame e della comunità di Bonifacio che ne rivendicava il possesso. Si trattò in realtà di un’operazione militare che segnò il destino dell’isola e del centro abitato che presto vi sorse, futura piazzaforte marittima in funzione anti-francese, totalmente slegata dal prospiciente mondo sardo. Gli altri due centri costieri sorsero molto più tardi, nel corso del secolo XIX, in punti privilegiati come luoghi di partenza per realtà “esterne” diverse ma ugualmente importanti. Palau per il quale esiste un progetto di popolamento già nel primo scorcio dell’Ottocento, divenne il punto d’imbarco per la base navale della Maddalena e visse per molto tempo una vita grama, sempre condizionata dalla circostante zona acquitrinosa.
Golfo Aranci, zona semi desertica frequentata solo da qualche pastore e da taluni pescatori ponzesi fu individuata, in un periodo in cui il porto di Terranova era quasi completamente insabbiato, come l’approdo sardo più vicino alla costa italiana e per questo dotato di alcune strutture portuali. Le successive ondate di riappropriazione del territorio gallurese da parte dei suoi abitanti si attuarono dunque in modi differenti ed in periodi diversi. l rilevamenti demografici operati per fini fiscali dal cadente feudalesimo del primo Ottocento, e poi quelli ben più precisi seguiti alla normalizzazione istituzionale albertina, indicano una realtà al tramonto ed una evoluzione sempre più netta verso una diversa distribuzione della popolazione sul territorio.