La nostra avventura
Non posso parlare di Squarciò, il romanzo di Franco Solinas, senza dire del sodalizio che mi ha unito a lui, delle nostre avventure, dei nostri inizi nel cinema. Sono anni lontani e i testimoni che restano sono pochi.
A farci conoscere nei primi anni Cinquanta fu un suo amico e concittadino, il maddalenino Gino Mordini, un’altra vita straordinaria. A Mordini capitò di seguire le riprese di “Riso Amaro”, fu un innamoramento fulmineo per il cinema, lasciò la scuola dove insegnava per tentare disperatamente di fare cinema. Non aveva ambizioni autoriali, e se non altro per questo va ricordato con rispetto. Gino era intenzionato a produrre film, benché vivesse in una camera ammobiliata e stentasse a pagare il fitto, come me del resto. Il primo sogno che inseguì fu di produrre un film sulla vita di Antonio Gramsci, pensava di chiedere il versamento volontario di cento lire ad ogni militante comunista.
Così ottimista ed entusiasta come si riusciva ad essere nel dopoguerra. Quel fallimento non lo disarmò. Fu lui a farmi conoscere Franco Solinas, ci incontrammo nella sua camera in affitto; per quella speciale casa di produzione Mordini propose a Franco e a me di scrivere un soggetto cinematografico. Avrebbe tentato di produrlo, proprio così, tentato. Si cominciava così a fare cinema in quel dopoguerra indimenticabile, anche firmando contratti che non sarebbero mai stati rispettati. Franco aveva una sola esperienza cinematografica alle spalle, aveva collaborato alla sceneggiatura di “Persiane chiuse” che avrebbe dovuto dirigere il suo amico Gianni Puccini e che invece, al termine di infinite controversie, diresse Luigi Comencini, dopo che Fellini, ancora sceneggiatore, aveva girato due sequenze.
Io invece avevo venduto un soggetto che non sarebbe mai stato realizzato. Cominciammo a vederci nella mia camera in affitto a via Sallustiana e qualche volta a casa sua a via Labicana. Viveva con sua madre, io mi ero diviso da pochi mesi dalla mia prima moglie. Pensammo di scrivere un film a episodi con un unico tema: il matrimonio, un’occasione per me di smaltire le mie delusioni coniugali, per lui un’immersione dall’esterno, per così dire, nella vita di coppia assai movimentata come la mia. Non so quanto tempo, forse mesi, impiegammo a scrivere quella ventina di pagine che segnarono il nostro incontro e l’inizio di una lunga amicizia. Venti pagine per incontrarci, due mesi per conoscersi. Eravamo diversi in tutto, ma era una diversità che ci affratellava. Ci vedevamo ogni giorno e anche di sera, avevamo pochi soldi e molta voglia di divertirci.
Non so come spiegarlo, ma la mancanza di denaro, chissà perché, a volte, soltanto a volte ci rendeva allegri, addirittura ottimisti, creativi.
Franco frequentava una ragazza che fu sul punto di sposare, si chiamava Ines; io stentavo ad avere una ragazza, erano anni in cui sembrava che le ragazze annusassero gli uomini sposati anche se giovani, insomma mi tenevano a distanza. Chissà cosa sarebbe stato della mia vita se le ragazze avessero continuato a tenermi lontano da loro. Franco aveva sette anni meno di me e piaceva alle donne.
Quel nostro primo soggetto l’intitolammo “Marcia nuziale”.
Alla fine di interminabili discussioni vendemmo il soggetto, ma non a Mordini, a due registi squattrinati, Grieco e Puccini, che ci pagarono in cambiali: ci veniva da ridere, ma con le lacrime. Dopo tanti tristi tentativi di dirigere in coppia “Marcia nuziale”, furono costretti a cederlo a un vero produttore, Forges Davanzati. Piacque, nientedimeno, al conte Luchino Visconti, che non volle nemmeno conoscere i due giovanotti, autori del soggetto, né tanto meno farci partecipare alla sceneggiatura. Per motivi che abbiamo sempre ignorato il film non fu realizzato, e non è finita: dopo qualche mese il nostro soggetto, sviluppato da sceneggiatori più esperti e più graditi a Visconti, fu pubblicato su una rivista assai diffusa in quegli anni, Cinema nuovo, ma i nostri nomi erano spariti. Fu quella la prima delusione che provammo, ma non fu la sola. Scrivemmo molti soggetti e alcuni riuscimmo anche a venderli, ma accadeva sempre qualcosa che impediva alle nostre idee di finire sullo schermo, capitava sempre un accidente per noi incomprensibile che ci negava la soddisfazione di leggere i nostri nomi fra i titoli di testa. Ma mi domando: senza quelle delusioni avremmo mai scritto i nostri libri? Capita che le delusioni ti scaraventino nel tuo passato e devi ricostruirlo e ripensarlo scrivendone.
Almeno due episodi vale la pena di citare per ricordare un’epoca e sorriderne pensando ai giorni nostri, giorni che Franco non ha potuto vivere: sarebbero stati anche per lui anni di indignazione e di stupore, così diversi da quelli vissuti insieme in quella Roma della miseria e dell’inventiva che pure Franco avrebbe meritato di vedere, di vivere.
Avevamo scritto un soggetto intitolato “Sesso”. Niente di scandaloso, ma non in quell’epoca e con quel governo.
Era una storia di carcerati costretti dalla detenzione all’astinenza sessuale. Scoppia una rivolta allorché in cortile, nell’ora d’aria riservata alle donne dell’attiguo carcere femminile, compare una detenuta bellissima, accusata di omicidio. Le sue foto erano comparse su tutti i giornali, circolavano fra i detenuti alimentando i desideri, le frustrazioni fino a un disperato tentativo di raggiungere la prigioniera, conquistarla. Riuscimmo a cedere i diritti di “Sesso” a un grande sceneggiatore che aveva anche una casa di produzione. Sergio Amidei propose di dirigere il film a Jules Dassin, il noto regista americano rifugiatosi in Europa per sfuggire alla persecuzione politica orchestrata dal senatore Mac Carthy. Era un’altra grande occasione per noi ancora alla ricerca di un successo qualsiasi. Eppure le nostre idee trovavano estimatori tra registi affermati, di fama internazionale.
Una mattina Amidei ci dette appuntamento non al suo studio, ma per strada, a Piazza di Spagna. Franco ed io eravamo finalmente pieni di soldi, avevamo fatto spesa, lui indossava una camicia rossa e verde, io addirittura una giacca violacea. Non erano colori alla moda per gli uomini, si vestiva di grigio e le camicie e le magliette avevano i colori della miseria, ma noi trasgredivamo senza esserne consapevoli.
All’appuntamento a Piazza di Spagna insieme ad Amidei trovammo il regista Carlo Ludovico Bragaglia, anche lui interessato al nostro soggetto: non abbiamo mai saputo con quali intenzioni. Ciò che capitava alle nostre spalle somigliava a una maledizione, a una congiura ai nostri danni, ma noi non ci sentivamo vittime, eravamo testardi e pazienti, mai rassegnati. Nel vederci arrivare così vestiti Bragaglia disse ad Amidei: «Chi sono questi due pagliacci?».
Di quell’incontro ricordo soltanto quella battuta; con Franco vi abbiamo riso per anni, la ripetevamo agli amici.
Ma non fu a causa del nostro abbigliamento se anche “Sesso” non divenne un film. Questa volta credo che alla Direzione dello spettacolo non piacesse l’accoppiata Dassin e sesso.
Qualche anno prima, forse subito dopo l’impresa fallita di “Marcia nuziale” e prima che diventasse un produttore di tanti film, Gino Mordini ci coinvolse in un’altra avventura.
Questa volta il finanziatore avrebbe dovuto essere il fratello dell’anarchico Schirru che gestiva un’agenzia di recapiti o qualcosa del genere. Il personaggio del nostro soggetto doveva essere appunto l’anarchico che come si sa fu fucilato per aver avuto “l’intenzione” di uccidere Mussolini.
Soltanto l’intenzione, bastò a uccidere un innocente.
In realtà personaggio da film era anche il fratello che credo avesse un passato assai lontano dall’anarchia: era un ex prete. Ci mettemmo a lavorare con grande entusiasmo, perché il tema e il personaggio ci affascinavano. Fummo sul punto di firmare un contratto e ricevere un anticipo, il nostro sogno. La riunione decisiva la tenemmo a casa di Schirru, un appartamento che non possedeva nessun segno di benessere; già questo ci allarmò, somigliava troppo alla camera ammobiliata di Mordini. I contratti erano pronti, l’anticipo stabilito, bisognava dunque firmare il contratto e ricevere l’anticipo. Schirru depositò sul tavolo due milioni in contanti per mostrarci la sua buona fede, prima di dirci che non so più per quale motivo intervenuto poche ore prima doveva rinunziare a finanziare il progetto propostogli da Mordini. Questa volta Franco ed io attutimmo la nostra delusione recandoci alla “Sala corse”, puntammo duecento lire su Birbone e vincemmo poco più di mille lire, una grande somma che ci spendemmo in fretta.
Così era la nostra vita, ma forse Franco non avrebbe scritto Squarciò ed io Le soldatesse, negli stessi anni, per la stessa collana, lo stesso editore. Mangiavamo a credito alla trattoria Menghi in via Flaminia, la domenica; fin dai primi giorni di primavera, con ogni mezzo, andavamo a Fregene, al mare. Il mare, la grande passione di Franco Solinas.
Si univa a noi Gillo Pontecorvo, non aveva ancora debuttato come regista e lo farà proprio collaborando con Solinas.
Sarà lui che porterà sullo schermo Squarciò con il titolo “La lunga strada azzurra”. Anche a Gillo piaceva tuffarsi in acqua con la maschera e la fiocina. Durante il fascismo, esiliato in Francia, la pesca subacquea lo fece sopravvivere: non solo lo saziava, ma serviva a sfamare gli antifascisti suoi amici. Era dunque il compagno ideale per Franco Solinas; quando si ritrovavano insieme, come due vecchi marinai, si raccontavano le loro avventure di pescatori.
Franco raccontava delle spiagge e degli scogli de La Maddalena, inoltrandosi in quei luoghi della memoria con un filo di nostalgia. Amava la natura, la pesca, la sua terra, le battute di caccia. Ogni tanto spariva, non lo sentivo per qualche giorno, era andato a caccia. Quelle sue passioni a volte mi sorprendevano per la loro intensità, ma, in verità, non mi coinvolsero mai, benché lo seguissi ovunque.
Ogni luogo di mare gli parlava dell’acqua, delle coste della sua isola con tenerezza. Sulla sua macchina da scrivere cercava le parole a lungo prima di battere i tasti, sembrava che le pescasse nella memoria, ma è un pensiero di oggi; allora gli rimproveravo la lentezza e cercavo di trattenerlo al tavolo di lavoro. Quando si avvicinava il sabato della buona stagione sembrava che annusasse l’aria del mare come certi uccelli migratori. Impossibile alla fine non farsi travolgere dalle sue smanie stagionali. Che cosa, c’è da chiedersi, ci teneva uniti: un’altra passione estrema, il cinema, la comune volontà di riuscire che magari mi rendeva frettoloso e impaziente. Franco mi trasmetteva il suo, per così dire, segreto ottimismo, nel senso che non era mai proclamato, era nelle cose, nei gesti. E di me cosa apprezzava?
Posso soltanto immaginarlo: della nostra vita, di noi stessi, di quello che ci affliggeva parlavamo poco. I pensieri li nascondevamo nei soggetti che scrivevamo, in quella vita in comune che comprendeva tutto, lavoro, denaro, ansie, divertimenti. Ero riuscito ad acquistare a rate una “Giardinetta 500” metallizzata, correvamo su e giù per l’Italia, per così dire, senza freni. Che cosa ci spinse ad Amalfi, a passare una notte nel bellissimo albergo dei Cappuccini? Chi lo sa più! Sperperavamo il poco denaro che guadagnavamo “facendo i negri”, scrivendo, cioè, copioni per chi ne aveva troppi da fare. Che cosa ci spinse in Versilia, nei giorni del “Premio Viareggio”? Il desiderio di assistere ad un evento culturale-mondano o non piuttosto il piacere di rincorrere una ragazza che forse piaceva a me o forse a tutt’e due? Il tempo trascorso schiaccia insieme il mondo esclusivo degli scrittori di successo e una bella ragazza americana che viveva in Italia. La inseguimmo nei corridoi del grande albergo che ospitava gli scrittori; ricordo che mi infilai, per un attimo, in una camera in cui dormiva Carlo Levi.
Né posso dimenticare il tuffo e la lunga nuotata di Franco nel lago di Como, in quell’acqua dolce che per il maddalenino non sapeva di niente. Chi era? Squarciò che si perdeva in un universo così diverso dal paesaggio della sua vita o un giovane scrittore che si immergeva nelle acque manzoniane? Era settembre, scriverà anni dopo nell’incipit di Squarciò: «È il tempo migliore per pescare. Di settembre i pesci abbandonano i grandi fondali e si avvicinano alla costa. Laggiù, poi, dove l’ultima isola dell’arcipelago si allunga con una striscia di scogli verso ponente, c’è sempre stato un passo d’eccezione. Le spigole arrivano a centinaia e giocano e saltano sotto gli scogli perché l’acqua è ancora tiepida e l’erba è tenera e dolce».
Sono parole di un pescatore che diventa scrittore ripensando alla «sabbia morbida e rosa» della sua giovinezza, agli amici del suo paese che l’accompagnavano nelle sue pescate mattutine. «Ma bisogna essere pescatori, pescatori sul serio. Conoscere mari, venti, stagioni. Conoscere i fondali palmo palmo: bene come la strada di casa, come la piazza, come il pavimento dell’osteria. Sapere i posti più pescosi, che ormai non sono più tanti». Chi è che parla, Franco o Squarciò? Io dico che è lui che si identifica con i pescatori della sua isola, con i luoghi, gli scogli della sua giovinezza. Sento che è la sua voce, perché è con quella intensità e trasporto, con un misto, cioè, di sentimento e di competenza, che Franco parlava anche a me del suo mare bello e pescoso, di quegli anfratti che sapeva descrivere come attraverso una lente di ingrandimento, così che ogni dettaglio diveniva un’immagine, perché Squarciò non è soltanto un racconto di mare, è già un film di mare. Franco scriveva immagini, le rivedo illuminate da un grande operatore. E anch’io come lui, e con lui, ho imparato a scrivere immagini: periodi che sono sequenza. Avevamo bisogno di vedere quello che immaginavamo. Solo che il mio mondo era un altro, ho vissuto da ragazzo in città di mare, in borghi di pescatori come un estraneo, per me il mare era fare il bagno, prendere il sole sulla spiaggia, non pescavo, sono stato sportivo di terra e non ho mai usato la fiocina, eppure Franco ed io abbiamo avuto un sodalizio per anni. Ci ha unito a lungo, penso, proprio quella diversità delle immagini che conservavamo nella memoria, ma pur sempre immagini, inquadrature, panoramiche.
Io sono stato segnato dalla guerra, dalle esperienze della vita militare, lui ragazzo diventato adulto fra i pescatori, imparando a usare la fiocina, la bombola dell’ossigeno, infilandosi la tuta da sommozzatore, io a portare le armi sulla spalla o attaccate al telaio della bicicletta da bersagliere, a marciare sotto il sole e la pioggia in terra di occupazione e sentirne vergogna. Andando avanti, progredendo, mano mano che acquistavamo professionalità i nostri interessi, nel senso delle tematiche legate alle nostre diverse esperienze di vita, resero difficile una collaborazione stretta, vissuta giorno per giorno; così proseguimmo ognuno per la strada che attraversava il nostro passato per sbucare nel presente, nella vita com’era così povera e straordinaria. Nulla mutò nei nostri rapporti fraterni, paradossalmente potrei dire che Franco se ne andò col suo Squarciò e io restai con i soldati dell’occupazione della Jugoslavia e Grecia, aggrappato, cioè, all’esperienza della vita militare, della guerra, come lui al mare de La Maddalena.
Alla sua isola era attaccato come un’ostrica agli scogli sprofondati nei fondali, io invece non avevo scogli, non ho vissuto a lungo dove sono nato e in nessun altro luogo ho potuto mettere radici: da ragazzo seguivo il destino e la carriera di mio padre, le mie inquietudini nell’età giovane e poi gli spostamenti della vita militare, senza mai sapere quando avrei potuto fermarmi. Avevamo, in conclusione, molte idee e speranze in comune eppure venivamo da viaggi diversi, diretti verso capilinea situati in parallelo ma distanti fra loro.
Ciò che sorprende in Solinas è che abbia scritto un solo libro che ci restituisce il suo sentimento isolano, la passione di pescatore, di cacciatore appassionato. Non solo: fra tante sceneggiature che ha scritto – se si esclude “La lunga strada azzurra” tratto appunto da Squarciò – nessun film che porta la sua firma ha una tematica marinara, un’ambientazione che spunti dalla sua memoria di ragazzo isolano. Perché? Non possiamo addebitarla al caso questa cancellazione silenziosa.
Come se i casi della sua vita lo inchiodassero sul mare, ma appartato, cordiale e ospitale con tutti, eppure lontano da tutti, forse dal suo stesso passato. Ma non dai figli.
Abitava a Fregene in riva al mare, un mare assai diverso da quello in cui sguazzava a La Maddalena, dunque il suo mare è, era sull’altra sponda, di fronte a lui eppure la sua immaginazione correva altrove, sulla terraferma, su su fino ad Auschwitz. Quasi che in lui vi fosse un inconscio bisogno di dimenticare la sua isola, che poi cercava di vincere rifugiandosi in piena estate nella piccola casa sull’isoletta di fronte a La Maddalena. Ecco ciò che non so spiegare: la sua fuga, quel tentare di essere altrove, assente da qualcosa e da qualcuno. Nelle sue scelte di cineasta certo molto influì il regista che più l’apprezzò, Gillo Pontecorvo.
A Fregene l’inverno è vuoto, in quel villaggio dei pescatori, per così dire, non si pesca più, le baracche, quelle casette che crescono sulla sabbia, ospitano romani, gente di cinema, di teatro, scrittori, giornalisti. Sono diventate “seconde case” per intellettuali, ma Franco vi è vissuto anche
d’inverno, lavorava vicino al mare in un isolamento, per così dire, di pescatore. In quella strana casa che sembrava costruita per un paese di neve con quello strano tetto puntuto Franco Solinas scrisse Squarciò.
Chi è Squarciò, che dicono ispirato da un personaggio realmente esistito? Ecco come Franco ce lo presenta: «Quando sua madre era già morta, Squarciò cucinava una enorme fetta di filetto, e aspettava il medico per le iniezioni. Il medico venne e disse che sua madre era morta da almeno dieci ore. Squarciò dovette mangiarsi lui tutta quella carne, e riportò le iniezioni al farmacista. Così iniziò la sua storia di bombardiere». E continua: «Non è un mestiere giusto, ma è comunque un mestiere: e, a differenza di tutti gli altri, mostra subito a chi lo sceglie di quale tipo saranno i suoi rapporti e come può andare a finire. Non ci sono padroni, ma nemici. Tutto ciò che può accadere è un rischio già previsto e accettato. Squarciò aveva un nemico, la Finanza. E Squarciò era considerato un nemico dai pescatori con le reti». È un ritratto scarno, essenziale, oserei dire sardo, nel senso che è duro e asciutto come spesso lo è il dialetto sardo, il sassarese, almeno come appare a chi sardo non è, una qualità che è anche propria del Neorealismo non solo per la tematica e il senso del racconto, per quel periodare essenziale, per il mondo che egli descrive con passione di militante, percorsa da una sommessa malinconia che è poi la sua cifra stilistica. Non si può non ricordare quale influenza ebbe sui giovani scrittori in quegli anni Ernest Hemingway, erano gli anni de Il vecchio e il mare. Erano anche gli anni in cui i giovani scrittori italiani ottenevano una scarsa e superficiale attenzione da parte dei recensori, si potrebbe provare che molti nemmeno leggevano i libri che recensivano, addirittura si copiavano vicendevolmente al solo scopo di evitare qualsiasi sforzo. Ripetenti della critica letteraria. Il paradosso era che, mentre si affermava il Neorealismo, il suo stile, anche la sua semplicità di racconto e di stile, quella attenzione affettuosa alla gente comune, alle storie di vita quotidiana, la critica letteraria, anche la più avveduta, restava estasiata di fronte alla bella pagina, alla prosa d’arte. Era il modo della società letteraria di ignorare i grandi cambiamenti, di sottovalutare l’influenza del cinema sulla narrativa; di evitare, cioè, ogni confronto serio. A rileggere puntigliosamente, quale risarcimento necessario e tardivo a un giovane scrittore, le recensioni che Squarciò ricevette nell’anno della sua pubblicazione ci si accorge che solo un critico apprezzò l’autenticità dello stile, così sentito e naturale di Solinas. Non si vuol qui negare la semplicità dell’impianto narrativo che peraltro apparteneva a quegli anni in cui tutto aveva il sapore di una nascita. Nasceva una nazione, in realtà, e gli scrittori scrivevano sulle macerie, paradossalmente non si dovevano soltanto ricostruire le case e le linee ferroviarie, ma anche individuare uno stile, una scrittura, un modo di raccontare all’altezza di quegli anni nuovi. Basta scorrere i titoli della collana universale economica delle edizioni Feltrinelli per ritrovare una generazione di scrittori alla loro prima prova. Edizioni economiche di poche lire proprio nel tentativo di farle accettare dal pubblico e involontariamente farle ignorare dalle riviste letterarie.
Ma a dispetto della modesta veste editoriale molti titoli si ricordano ancora. Non è un caso che Squarciò si ristampa dopo quarantacinque anni dalla prima edizione. È forse soltanto un caso che in questo anno si ristampa Le soldatesse.
È, per così dire, un incontro malinconico, ma che ci riunisce simbolicamente a distanza di anni.
«Squarciò non ha più niente da pensare. Sa che è ormai inutile spingere gli occhi fino all’orizzonte, perché sa quante ore ci vogliono per raggiungere l’isola da quel posto e quante altre per ritornare. Squarciò guarda il mare e non sente dolore. Il mare, che adesso non è più calmo per pescare come pescava lui. Eppure all’alba era così piatto, così trasparente. Ed è settembre, il tempo migliore per la pesca».
Sono le ultime righe del libro e sembrano anche le ultime parole della sua vita così breve, così appassionata.
Ugo Pirro