Come la pensavano a Cagliari e a Torino
Nel dibattito sul che fare, gli interlocutori sardo-piemontesi si chiedevano anche come superare il limite di conoscenza che del tutto insufficiente, a tutto il 1766 e prima parte del 1767, si aveva della realtà delle isole. Si rendevano conto che le stesse notizie geografico di cui disponevano, del tutto insufficienti, spesso si contraddicevano anche sulle dimensioni delle diverse isole e sulla loro reale collocazione nelle Bocche. Le più recenti informazioni sulla popolazione e le sue attività erano state fornite due anni prima dal conte Rivarola. Esse apparivano insufficienti, non organiche e comunque non adeguate a fondare su di esse la decisione impegnativa di esercitare la sovranità sulle isole a partire da un’azione militare, e tantomeno a predisporre un piano operativo. Ma la lacuna più evidente, dopo aver tanto discusso del presunto interesse dei pastori, era quella di non conoscere i loro intendimenti, di non aver mai sentito da loro stessi gli interessi che li animavano. Anche i ragionamenti più azzeccati, come gli ultimi riportati del viceré e della Giunta, erano frutto di analisi teorica, mai verificata sul terreno pratico della testa della gente.
Il balio della Trinità parteggiava per la soluzione del mantenimento dei pastori corsi e aveva avanzato la proposta, come sappiamo non accettata, della immissione in esse anche degli altri corsi che chiedevano asilo in Gallura. Su quest’ultima circostanza la Giunta torinese intervenne in data 6 maggio 1766 con una proposta un po’ cervellotica, prevedendo l’insediamento di pastori sardi nelle isole e di tutti i bonifacini e altri stranieri che lo richiedevano nel territorio della Gallura. La obiezione posta dal reggente sulla inopportunità di favorire lo spopolamento della Gallura costiera, già povera di presenza umana, venne esplicitamente superata con la previsione di sostituirla in abbondanza con quella corsa e di altri stranieri. Rimaneva, però, valida e insuperabile l’osservazione di chi non riteneva proponibile ai pastori galluresi di lasciare ai corsi i ricchi ed estesi terreni di cui fruivano, e su cui riponevano la speranza di impossessarsene nel tempo. Tanto più chiedendo loro di sacrificarsi nelle isole in una condizione di ristrettezza di territorio, di scarso valore sia pascolativo che seminativo, e inoltre in coabitazione con pastori corsi. Ma la stessa Giunta mostrò una raffinata capacità d’analisi, quando nello stesso documento previde che comunque i pastori corso-maddalenini avrebbero avuto interesse ad accettare la sovranità sarda. Nell’idea che la spedizione di presa di possesso sarebbe stato utile eseguirla nel periodo estivo in cui, secondo quanto conosciuto, i pastori rientravano in Corsica, la Giunta affermava che: “è verosimile che i sopraddetti pastori nel difetto dei terreni in Corsica ameranno meglio di ritenere il bestiame nelle isole, di ritornarvi, di riconoscere il dominio di S.M. e di godere de’ comodi della protezione e difesa che loro sarà somministrata e quindi comincerà ad aversi una suddita ragionevole popolazione, la quale trattata colla moderazione propria della clemenza di S.M., giunti i propri comodi e vantaggi, potrebbe in breve tempo affezionarsi al governo ed essere in difetto contenuta dalla truppa”.
Anche il viceré aderiva all’idea di una spedizione estiva sulle isole: “primieramente – scriveva Des Hayes a Bogino il 6 giugno dello stesso 1766 – perché così s’occuperebbe una cosa assolutamente vacante e di niuno, in secondo luogo perché così o ritornando essi possono interrogarsi se vogliano farsi parte della nuova società, o che pure non ritornandovi cadono dal possesso, ancorché coll’animo ritenuto, di que’ pochi terreni già da loro per via di coltura occupati e appropriati”. Il ragionamento della prima carica cagliaritana, a favore dell’ipotesi che i pastori isolani avrebbero accettato di restare nelle Intermedie, era più articolato di quello esposto dalla Giunta, ma andava nella stessa direzione e lo completava arricchendolo. Per non perdere anche l’originalità lessicale, vale la pena e il gusto di leggerlo nella versione originale della stessa nota del 6 giugno: “Primo. Le note isole trovansi già mediocremente abitate da più famiglie bonifacine, le quali tratte dalla speranza di miglior fortuna, sé e le cose loro vi trasportarono. Queste, non avendo altrove altronde onde sostentare la vita, di leggieri s’arrenderanno al partito di starvi o di ritornarvi anche dopo la partenza. Se queste tornando s’accettano, possono ben accettarsene delle nuove della stessa nazione, le quali spinte dall’esempio ne faran volentieri lo stesso. Secondo. Veggendo queste famiglie ricavare tutto il loro sostentamento dalle isole vi dimoreranno con animo di naturalizzarvisi, poiché in Bonifacio sicuramente vi morrebbon di fame; onde saranno soggette ed ubbidientissime anche per interesse (primo mobile del cuor degli uomini), al governo, e riguarderanno d’allora innanzi come in lor patria. Tanto più che già molti trovansi ad avere della prole ivi propagata e cresciuta. [……] Quarto. Perché in tali tratti stando la cosa, non è credibile che più pensino a Bonifacio, dove per lo addietro erano schiavi e tenuti a pagare de’ diritti, ch’è quanto dire una porzione di loro sudori ai padroni, laddove qui ogni capo di famiglia troverebbesi padrone e libero nel suo poco, che come cosa propria pazientemente e consolato coltiverebbe senza pagamento di verun dazio o gabella per alcun tempo, essendo il giuramento o prestazione d’omaggio piucché sufficiente per riconoscimento della suprema potestà del principe, il quale condonando loro questo laudemio, perdendo pochissimo, acquisterebbe assai conciliandosi dapprincipio la loro benivoglienza. Quinto. Finalmente perché allo stato delle cose presenti sarebbe malagevole impresa il popolarlo altrimenti”. Il ministro Bogino chiuse il dibattito, aderendo all’idea che i pastori corsi potessero eleggere le isole a loro residenza permanente e definitiva, naturalmente con le “giuste regole”. Ma in previsione di una integrazione demografica, il grande ministro preferiva una popolazione laboriosa capace di applicarsi sia alla coltivazione che alla pesca, oltre, naturalmente, al commercio.
Salvatore Sanna – Co.Ri.S.Ma