La pesca con le reti
Quando iniziava la stagione della pesca, la barca puteolana doveva essere corredata di 50 “pezzi” di rete, da 22.25 braccia l’uno (un braccio è misura variabile da 1,50 a 1,70 m). Poiché occorrevano mesi di lavoro per prepararli spesso erano le donne a provvedere a tutto: contrariamente a quanto avveniva per le donne maddalenine, che si interessavano esclusivamente dell’andamento della casa e della famiglia, quelle provenienti dal Napoletano aiutavano i mariti realizzando materialmente gli attrezzi di pesca per i quali ordinavano per tempo l’occorrente.
A “Bassamarina” Raffaella D’Agostino (cieca, ma abilissima nel manovrare gli aghi per la rete affidandosi solo al tatto e alla lunga esperienza) vendeva le materie prime necessarie: il cotone e la tinta. Il primo, acquistato in matasse da un quarto di chilo “u martiellu“, veniva disposto su un rudimentale arcolai “argatella” e, con l’aiuto di un fuso per eliminare la torsione eccessiva “strafusu“, veniva ridotto a matassine da 50 grammi l’una, quantità che poteva riempire l’ago “a cuccella“. Questa, era un sottile rettangolo di dimensioni variabili (da 10 a 30 cm) di legno di mirto o di corbezzolo nel quale si praticavano due incisioni alle estremità, allargandole man mano che il legno si seccava e aprendole infine a stagionatura ultimata, in m modo da potervi avvolgere il cotone.
La dimensione della maglia poteva variare secondo la rete ed era stabilita da un cilindro di legno, solitamente ricavato da una canna “u muorlu“: con questi strumenti il pescatore abile nel far la rete, senza bisogno di controllare le misure, sapeva che, avendo finito di lavorare 20 “cuccelle“, aveva realizzato esattamente un pezzo di tramaglio, cioè 25 “bracci“. Sui bordi lunghi della rete venivano quindi inseriti due cordoni di cotone resistente, “i filaccioli“, completati rispettivamente dai sugheri e dai piombi. I primi venivano acquistati a Tempio, ma più spesso si adoperavano quelli di “stracquatura“, recuperati cioè a mare o sulle spiagge; si preferiva il sughero maschio (prima scorza tolta dall’albero) più duro e compatto, difficile da tagliare e sagomare, ma più resistente rispetto a quello femmina, che invece tendeva a gonfiarsi. I quadrati di sughero “e corcite” dovevano essere arroventati sulla fiamma, bucati e messi a bagno nella tintura delle reti.
Quando per il lungo uso una “corcite” si rompeva veniva rattoppata con un pezzo nuovo cucito a quello vecchio. Per colorare e rendere più resistente la rete la si immergeva nell’acqua di mare bollente, nella quale era stata sciolta la polvere di scorza di zappino; si preparava perciò il paiolo “a carara“, di dimensioni e peso diversi (anche 55 Kg) sul treppiedi “u trippede“, e quindi, quando l’acqua bolliva, si immergevano le reti asciutte, questa operazione veniva ripetuta ogni 15-20 giorni per tutta la stagione, finita la quale, normalmente, si recuperavano i piombi e il sughero abbandonati il resto ormai inservibile. Anche per i piombi la preparazione era assolutamente artigianale: in vecchie pentole di ghisa il metallo veniva fuso, preso a piccole quantità con un mestolo e fatto cadere su una piastra di marmo in modo da formare delle piastrine circolari, regolari e basse, che una volta raffreddate venivano piegate su stesse, schiacciate con i denti e avvolte al cordone della rete. Era importante saper regolare la quantità di piombo perché il peso risultasse equilibrato: normalmente per ogni pezzo di rete occorrevano 7 Kg di piombo.
Le reti variano secondo il tipo di pesca, dividendosi in rete a fondale, da posta, da circuizione. Le prime, formate di solito da 30-40 pezzi uniti insieme, si calano percorrendo con la barca uno zig zag e scandagliando il fondo per calcolare la giusta profondità. Sono: – i tramaglioni (a maglia grossa, composti da tre strati: uno centrale, “u pannu“, e due laterali, “i pareti“, per pesci di buona dimensione e aragoste; hanno 5-6 nodi a palmo; – i tramagli “sinai“, composti da “pannu” e “pareto“, per tutti i pesci di fondo, hanno 11-14 nodi a palmo; – la bogara “u rarlu”: rete da posta composta dal solo panno, alta 200 maglie, ha 11-12 nodi a palmo; – la schietta: per occhiate alta anch’essa 200 maglie, è più “chiara” della bogara, avendo solo 9 nodi a palmo; – l’incazzellata: formata da due diverse reti: la schieta superiormente e il tramaglio inferiormente; – la palamitara: rete da posta che rimane sempre nella stessa posizione, con maglie più chiare della schietta, ha 5 nodi a palmo; – la tonnara: rete da posta anch’essa, ha filato molto grosso e resistente a maglie larghe; – il barracuda: rete fina, azzurrina, di nylon monofilo, risulta praticamente invisibile in acqua; vi si possono ammagliare molte specie di pesci, anche grossi, che non riescono a sfondarla.
Il “guarracinaro“, usato da settembre a dicembre, prende il nome da piccoli pesci scuri, i “guarracini“, che spesso accompagnano e segnalano la presenza dei zerri.
Era un “mestieri lavuratu“, ma che dava soddisfazione, ora completamente in disuso. Si tratta di una sorta di coppo, dalla circonferenza di 6 metri, diviso per comodità di trasporto, in due semicerhi che venivano uniti sul posto attraverso un incastro alle estremità, “e femminelle“; quattro sagole “i trianguli“, legati al ferro della rete, venivano uniti ad una certa altezza (in modo da ottenere tre braccia e mezza di profondità totale), con un nodo di bandiera doppio al quale veniva collegata un’altra sagola con un piombo e dei gusci di gritta riempiti con la “mangianza” (pane, ricci, ganci, alici e “u ruzzu”, particolare tipo di velella che arrivava in grande quantità a fine primavera, portata dal vento sulla superficie del mare, e che veniva raccolta, pestata con la terra e essiccata al sole). Una volta immerso il guarracinaro, si tirava e abbassava la sagola che reggeva i gusci di gritta per farne spargere il contenuto e attirare così gli zerri; per salparlo si sollevavano i triangoli fino a che il cerchio restava “abbozzato” sotto la barca, quindi si issavano i due capi estremi. Un attrezzo del genere, faticoso perché veniva calato e salpato decine di volte al giorno, richiedeva come condizione indispensabile la corrente giusta; poiché lo si adoperava in zone particolari (ad esempio fra punta Filetto e i Barrettini e a est di questi ultimi), la corrente di levante, che tende a spostare verso i bassi fondali, è una “corrente storta“, e non consentiva una pesca proficua. L’unica zona accessibile in tali condizioni era a ovest di “u Gottaru” o “Gottu”, l’ultimo isolotto settentrionale del gruppo di Barrettini. Le reti si dispongono in modi diversi, seguendo dei criteri (orientamento, direzione e forma della costa), dai quali un buon pescatore non prescinde e che sono indispensabili per capire la strada che il pesce seguirà e quindi farlo ammagliare all’interno e non all’esterno (“a dritta“” e non “a smerza“).
Il più comune di questi sistemi è l’impostata: si dispone un capo della rete a terra, poi si cala man mano allontanandosi dalla costa e formando una prima curva “u vurellu” o “rellu”; si prosegue poi per un tratto paralleli e quindi si piega verso l’interno formando una curva più piccola “a’ ngina“. Con questo sistema, se le previsioni del pescatore sono esatte, il pesce si ammaglia “volontariamente” percorrendo il suo normale cammino, e quindi, dopo qualche ora la rete viene salpata. Col sistema detta “bulià“, invece, il pescatore obbliga il pesce ad incappare nella rete spingendovelo: si tratta di un tipo di pesca notturna per cui si cala, sempre partendo da un punto della costa, chiudendo con una larga curva una cala nella quale, presumibilmente, ci sono pesci addormentati; appena finito di disporre la trappola, sulla barca si accende la luce e si batte sull’acqua un remo o la “mazzerella”, alternativamente verso terra e verso la rete per spingere il pesce nella direzione voluta, accompagnandolo con la luce dall’alto e i rumori nell’acqua. Quindi si salpa per poter eventualmente ricalare in un’altra zona. Per issare la rete se ne afferra l’estremità “orza” e si tira a “dritta”, nella giusta direzione, tirando anche i piombi con un movimento circolare, “dà a cuppià“: di qui l’esortazione dei vecchi “cuppèa, cuppèa“, per ricordare ai giovani che, essendo più vigorosi salpavano, la giusta maniera di eseguire il lavoro.
Questo, lungo e faticoso, veniva fatto da due persone che si alternavano a poppa: una salpava e l’altra tirava indietro le reti (“mittì da banda“); ad ogni posta si scambiavano il compito. Quando si smagliavano i pesci se ne trovavano a volte mangiucchiati da polpo, calamari o seppie; erano i cosidetti “mizzoni“, più saporiti degli altri, forse perché più impregnati d’acqua di mare. Malgrado l’abbondanza di pesce e di località adatte, nei mesi più fecondi per certi tipi di pesca, l’arcipelago sembrava restringersi e molti pescatori si trovavano a contendersi lo stesso punto per calare le reti, per cui la saggezza e la prudenza dovevano dettare norme di comportamento che consentissero a tutti di lavorare in pace. Particolarmente contese erano le zone in cui l’esperienza di generazioni succedutesi aveva insegnato l’esatta posizione per le impostate migliori, che evitavano sia gli “scallummati”, sia gli scogli sul fondo, pericolosi per l’integrità della rete; una d queste era cala Canniccia a Caprera dove erano stati localizzati cinque diversi “percorsi” sicuri ai quali era stato dato un nome ben preciso: “da terra“, “in mezzu“, “a puntata“, “a cala“, “a triglia” (probabile corruzione di “a tegghia liscia“, altro nome con cui veniva definita questa impostata). Si aggiunse, più recentemente, “a posta nova“. Una regola non scritta per evitare litigi era rappresentata dalla precedenza: chi arrivava per primo sceglieva il punto di partenza, se gli interessava la prima impostata da terra o quella “di fuori” (da scegliersi preferibilmente con “a luna chiara” o “a luna quinta“, il plenilunio); il secondo doveva aspettare o, per regolarsi, chiedere al primo “undi molli tu?”. E gli altri a seguire.
A “cinta“, mestiere ormai in disuso, un tempo molto comune, consiste nel cingere una zona di costa con la rete spingendo il pesce verso una secca o verso la spiaggia, imprigionandolo, man mano che avanza, con altre reti. Era un lavoro lungo, ma normalmente redditizio. Se vi partecipavano più barche si sceglievano le golfate (Porto Cervo, Liscia, Cannigione), possibilmente dopo le giornate di vento (è il momento dell'”imnattitu“), quando il pesce viene verso terra per nutrirsi; partire di qua al mattino, le barche arrivavano a destinazione verso mezzogiorno o nel primo pomeriggio e si preparavano per il lungo lavoro: dopo aver fissato un capo presso la costa, calavano due o tre chilometri d rete cingendo completamente un vasto tratto di mare nel quale, possibilmente, doveva essere compresa una “chiana”. Quindi due barche, partendo dai due lati opposti della costa, si muovevano a zig zag, lentamente, mentre uno o due pescatori battevano nell’acqua l'”aiaccio” o la “mazzerella” per spingere il pesce verso la chiana. Quando la zona cintata era troppo vasta, il lavoro non veniva portato a termine prima di notte, e doveva essere interrotto dopo aver controllato con lo specchio la quantità di pesce che si era riusciti a convogliare e aver calato un’altra rete che ne bloccasse la fuga indietro. Spesso il capobarca tornava a questo punto a Maddalena per contrattare con gli acquirenti il prezzo del pesce ormai imprigionato e, in base a questo, stabiliva se prenderne solo una parte (e in tal caso si adoperava specchio e fiocina) lasciando il resto come in una sorta di vivaio costituito dalla rete, o se prelevarlo tutto e in questo caso usava un sistema proibito: un sacchetto di circa mezzo chilo di potassa legato in cima ad un’asta che veniva immersa verso la “chana” fino a toccarla. La potassa costringeva il pesce “intaffonato” a fuggire verso l’esterno andando ad incappare nella rete. A volte, in questo modo venivano catturati anche due o tre quintali di pesce.
La sciabica: è una lunga rete composta da un sacco centrale e da due bracci laterali. Le parti che la compongono, diverse fra loro per la maggiore quantità di maglie man mano che si procede verso il centro sono: “a stazza“, i “riali“, “a gola“, che formano i bracci laterali e”i mappi e “i curoni” che formano il sacco (“a manica”), lunga 6-7 metri. Due lunghe funi, (200-300 metri) “i restoni”, consentono di allontanarla da terra a piacere e di collocarla in modo da chiudere una cala. La si adopera per “sciarmi” di pesci quali connari, zerri o sardine, regolandone la profondità attraverso il numero dei sugheri disposti a corona che tengono aperto il sacco. Si cale nel pomeriggio con un capo a terra e una lunga curva, in modo da lasciare un vasto spazio al pesce che prima di sera tende a “ingolfare, andare cioè nelle cale, vicino alla costa. Quando il mare è calmo, l’avvicinarsi del banco è denunciato dalle increspature sulla superficie dell’acqua, in caso contrario un pescatore si porta in una posizione dominante spiando l’arrivo del pesce. Appena questo è entrato nel raggio d’azione della sciabica si tira anche la corda che la teneva aperta in modo che il pesce, fuggendo, si sposti verso la spiaggia dove viene catturato nel sacco. I più vecchi “sciabiguttari” che si ricordano sono: D’Oriano Gennaro “Jennarò“, proveniente da Pozzuoli, Caucci Nicolino “Pappellu meu“, Caucci Biagio e Oriano Francesco “Ciccillu“: quest’ultimo si dedicava in gioventù alle reti classiche fino a che una forte tramontanata a Cala Canniccia di Caprera non capovolse la barca uccidendo tre suoi colleghi; da quel momento preferì abbandonare quel mestiere che poteva diventare così pericoloso e dedicarsi alla sciabica che, dovendo essere manovrata dalla costa o in prossimità di questa, risultava più sicura.
La Tonnara; Nel 1949 il commendator Basso, armatore di Camogli, già proprietario di due pescherecci, “Audacemente” e “Garibaldino“, decise di piazzare nei nostri mari una tonnara e impiantare una piccola fabbrica per l’inscatolamento del pesce, per cui aveva chiesto e ottenuto dall’Amministrazione Militare l’utilizzo di alcuni capannoni a Padule. La complessa operazione di sistemazione della tonnara, presieduta da un tecnico, ebbe luogo a giugno, presso cala Coticcio, dopo numerosi sopralluoghi: la parte fissata a terra, il “pedale“, era di cocco, le reti di pesante cotone tinto col sistema traizionale, la camera della morte rinforzata da canapa, i cavi di sostegno incatramati e rivestiti. Per fissare la parte inferiore al fondo erano state piazzate grosse pietre da 40 Kg. l’una ogni 20 metri e 50 ancore. Due barche controllavano l’entrata del pesce: “la poltrona”, presso l’ingresso, e” l’asino”, vicino alla camera della morte. Un motoveliero, la Santa Candida, attrezzato di frigorifero, restava ancorato immagazzinando il pesce e spostandosi solo quando aveva raggiunto il carico. L’equipaggio, formato per maggior parte da maddalenini (il comandante Nardellu D’Oriano, Silverio Giudice, Michele Giudice e Salvatore Miglio), per i rifornimenti veniva a La Maddalena con la “diesel” militare di Stagnali, che raggiungevano a piedi dopo aver attraversato l’isola. L’impianto rimase a Coticcio circa quattro mesi, ma i risultati non furono soddisfacenti: salpate ricche, di sei-otto tonnellate, e magre si alternavano con la conseguenza che il proprietario si convinse a spostare la tonnara presso Capriccioli. Tentativo risultato ancor meno proficuo a causa della corrente che, malgrado le ancore da 2-3 quintali prestate dalla Marina Militare, riusciva a spostare l’impalcatura della rete. Fallita l’impresa qualche maddalenino tornò alla tonnara tradizionale, semplice impostata senza struttura complessa, che, se pure non dava risultati eccezionali, non comportava però spese.
Tutti i periodi dell’anno possono essere sfruttati seguendo i movimenti dei pesci da e verso terra, ma per ogni tipo di pesca c’è un periodo più propizio, che trova il momento culminante nei “muntoni”, precedente all’accoppiamento delle varie specie, particolarmente interessante per la quantità non per la qualità del pescato. Quindi i pescatori dovevano variare le località, il tempo e il numero delle calate secondo le abitudini delle prede. Rispetto alle profondità si distinguono tre zone di pesca: 1 – “terra terra”, a tre-quattro braccio; 2 – “a mezz’acqua”, da 10 a 15 braccia; 3 – “a cigliu”, da 18 braccia in su.
Valutando con forza della corrente si calano le reti in modo che non superino il “cigliu”, andando a finire nella zona più profonda, detta “scallummatu”, dove si prendono facilmente le pesanti e dannose pietre di fondale, “macciotti”.
Non per tutti i tipi di pesci le reti vanno calate per lo stesso lasso di tempo, anche se esistono dei momenti standard per salpare, quali il tramonto, “a calata di soli“; la sera inoltrata, “arbura” (soprattutto per le sciabighe); al mattino, “a sfugata d’acqua” (aurora già chiara ma che non lascia ancora vedere, il fondo chiaramente); a buio completa, “a u cantu“.
Talvolta si calavano le reti in piena notte, alle 10, per salparle alle due, con la luna, ricalarle subito per salparle al sorgere del sole; tutta questa operazione prende il nome di “sunnottu“. Per non dormire troppo profondamente il capo barca appoggiava la testa, in posizione volutamente scomodo, allo sgabellino, “scannitiellu“, in modo da essere sicuro di svegliarsi al momento opportuno. Non dappertutto però si potevano lasciare le reti col buio, “mittì u cantu”, perchè in alcune zone, come Barca Brujata e Cala d’Alga, di notte le pulci di mare erano capaci di struggere l’intera pesca.
Per quanto riguarda i tipi di pesce e il periodo dei “muntoni”, possiamo dare delle indicazioni così come le abbiamo raccolte: – “i locchi“, mennole, periodo luglio-agosto; si adoperavano per questa pesca le reti ormai inservibili che venivano calate e salpate subito dopo; – “i zerri“, col guarracinaro nei mesi di ottobre-novembre e dicembre; con le nasse a marzo-aprile; con le bogate a febbraio; con la sciabica in inverno; – “i scurpini“, “i caponi“, periodo luglio-agosto, detto anche il mese d'”u muccu” perchè nel tempo dell’accoppiamento emettono dalla pancia un muco evidente; in questo momento essi si trovano spesso insieme ad altri tipi di pesce quali triglie, paggelli, “pizzogne” (occhialoni) e saraghi. – occhiate: aprile-maggio è il periodo migliore, del pascolo più ricco; a giugno le occhiate vanno e deporre le uova e quindi costeggiano e vengono catturate con le impostate. Anche d’inverno, quando dopo una forte ponentata rimane il mare lungo con la schiuma presso la costa, è facile prendere le occhiate “a bulià“. – triglie, sono migliori a gennaio-febbraio; il periodo dell’accoppiamento è giugno quando le triglie si riuniscono in quella che i pescatori chiamano “traiàna”; secondo i mesi di pesca varia la profondità: a luglio le si trova a 20 braccia, ad agosto da 20 a 22 braccia; da questo momento la profondità comincia a diminuire progressivamente fino a marzo quando si prendono a 13-14 braccia; – sarpe: non fanno “muntoni” e sono buone in estate; il proverbio dice: “sarpa d’agosto mangia arrosto”; – palamiti (palombi): si pescano preferibilmente ad agosto con la luna piena nelle golfate dove i pesci “vanno a dormire“. I tramagli venivano salpati la mattina.
I più vecchi pescherecci in ferro presenti a La Maddalena (di proprietà di Bargone Marcantonio, Di Fraia Vincenzino e Toso Nando), il “Medusa“, l'”Ilva”, il “Grecale”, furono requisiti in tempo di guerra e adoperati come dragamine.
Parzialmente tratto da “Il mondo della pesca” – Co.Ri.S.Ma – Giovanna Sotgiu
- Il mondo della pesca – I parte
- Il mondo della pesca – II parte
- Il mondo della pesca – III parte
- Il mondo della pesca – IV parte
- La pesca con le reti
- La pesca delle aragoste
- La pesca con le nasse
- La pesca con i palamiti
- Erba corallina
- Foca monaca – (Monachus Monachus)
- Tartaruga di mare – Cuppulata
- Pinna Nobilis – Gnacchera
- Delfino – U fironu
- Le spugne
- Le razze
- La barca
- Provenienze dei pescatori maddalenini