La vita difficile di Vico nell’isola
Le amministrazioni comunali succedutesi in quel periodo erano caratterizzate da un forte anticlericalismo, molti consiglieri e funzionari appartenevano alla massoneria e, in un crogiolo di ideologie e movimenti politici formatisi fra militari, scalpellini e operai di diverse provenienze, arrivarono pure i predicatori protestanti. Non fu per la Chiesa un periodo facile e Vico, come riconobbe don Capula, lottò con vigore riuscendo, seppure a fatica, “a contenere le prepotenze antireligiose“.
Le ostilità iniziarono nel 1890 quando il Parroco rifiutò di accettare come padrino un uomo definito concubinario perché sposato solo civilmente; subito dopo, il Sindaco, quasi come ritorsione, esigeva la consegna delle fatture per giustificare le spese della fabbriceria non accontentandosi più, come da tradizione, della semplice dichiarazione nei libri contabili. Era un annuncio della guerra imminente: nello stesso anno il Consiglio Comunale rivendicava la proprietà della casa parrocchiale e della fonte. Può darsi che questi avvenimenti non fossero legati, ma, vedendo il clamore suscitato dalla decisione di Vico, che fu accusato di reato per non riconoscere le leggi dello Stato, e la lettera inviatagli dal Vescovo per suggerirgli il giusto comportamento da tenere, c’è da pensare che si trattasse di una vera reazione provocata dal suo diniego al padrino. Era confortato nella sua decisione dal Vescovo che, però, ben lontano fisicamente, forse non capiva appieno le pressioni psicologiche alle quali era sottoposto il povero parroco. Scriveva monsignor Paolo Pinna da Castelsardo: “Che codesto consiglio siasi indispettito in seguito al di lei rifiuto di padrini e madrine concubinari!… Lasci cantare e faccia il suo dovere quanto esattamente può. … Per la casa parrocchiale risponda:
1- Che la casa quand’anche fosse fabbricata a spese del comune (ciò che sarebbe da provare) fu edificata pel parroco e ciò si prova dall’esser unita alla parrocchia in modo che non potrebbe servire ad altro uso.
2- Che se il Mamia spese del suo per riattarla e fece quello scritto, ciò deve attribuirsi più alla sua buonafede, o dirò meglio ignoranza, che a dritto del comune che pel decreto regio del 6 gennaio 24, sempre in vigore, era tenuto non solo a dar la casa al parroco, ma anche a ripararla a tutte sue spese”. Mamia non poteva cedere roba che era della parrocchia senza l’autorizzazione superiore, quindi “ella stia ferma nella casa parrocchiale, e lasci pur che facciano le deliberazioni volute; quando verrà il nodo al pettine allora si vedrà la risposta da dare”. Vico fu condotto in giudizio per il rifiuto opposto al padrino concubinario e, anche se non conosciamo esattamente i termini della questione, dobbiamo supporre che non ci fu un seguito alla comparizione di fronte al pretore perché, almeno per il momento, non se ne trova traccia.
La vertenza per la casa parrocchiale continuò con il sindaco Gerolamo Zicavo e i consiglieri Biaggi, Alibertini e Tanca, che ottennero un’approvazione unanime del Consiglio, per iniziare le pratiche giudiziarie nel caso in cui Vico non avesse riconosciuto ufficialmente la proprietà comunale. Fu il solito avvocato Domenico Culiolo, uomo prudente sempre pronto a trovare un accomodamento, a consigliare una soluzione accettata da tutti. (1) Ma, intanto, si proponeva l’altra spinosa questione della fonte che, come si ricorderà, era stata benevolmente composta nel 1809 col riconoscimento del suo sfruttamento alla Chiesa che ne ricavava un modesto introito. Nel 1891 fu lo stesso sindaco a portare l’argomento all’attenzione del Consiglio invitandolo a deliberare per rivendicarne il possesso chiedendo perentoriamente al Parroco la riconsegna della chiave. Vero è che con l’accresciuta popolazione il fabbisogno idrico era aumentato notevolmente e preoccupava l’amministrazione, ma ciò non toglie che i toni e le modalità di rivendicazione della fonte manifestino una forte ostilità nei confronti del Parroco le cui giustificazioni risultarono vane. Fortunatamente la situazione conflittuale si attenuò notevolmente con il ritiro del sindaco Zicavo: i toni si smorzarono e i rapporti ripresero istituzionalmente corretti.
Nel 1894, l’assessore anziano pregava il Parroco di benedire il nuovo cimitero che, come si ricorderà, era ormai gestito esclusivamente dal Comune e, ” tenendo a cuore il decoro della chiesa parrocchiale” e riconoscendo lo sforzo fatto dal Parroco per la manutenzione interna dell’edificio, provvedeva al restauro esterno assegnando 250 lire alla fabbriceria per la “pulitura della facciata, pittura e bronzatura della porta“. Non si concedeva, invece, la sistemazione della scala di accesso all’orologio pubblico. Il contributo di 250 lire, divenuto stabile, non fu più messo in discussione anche se altri motivi di frizione venivano dalla gestione dell’orologio e dalla proprietà di quel terreno, chiamato la Fornace, che era stato occupato dalla chiesa all’epoca della sua costruzione, nel 1814, per fare la calce e che, in quel momento, era affittato a Luigi Guccini.
La progressiva laicizzazione della città passò anche attraverso la nuova toponomastica cittadina. Nel 1896, con Luigi Alibertini facente funzioni di sindaco, Giuseppe Volpe presentò un progetto di globale trasformazione: i nomi di tutte le vie intestate a santi furono sostituiti con altri risorgimentali. Sparivano le vie Santa Maria Maddalena, S. Erasmo, S. Ambrogio, S. Pietro, Monte Sinai, S. Vittorio, S. Luca, S. Agostino; rimaneva solo la piazza di chiesa intestata alla Santa patrona.
Puntualmente, cambiando sindaco e giunta, i problemi di coesistenza si ripresentavano, animati dal solito Alibertini. Nel 1897 la scusa fu il diniego opposto da Vico all’introduzione della bandiera nazionale in chiesa a meno che non fosse prima benedetta, in occasione della premiazione dei bambini licenziati di quinta elementare. L’argomento era delicato ed eccedeva le prerogative del Parroco rischiando di innescare una polemica a livello politico ben più alto. Dopo l’arringa furibonda di Alibertini in Consiglio, che stigmatizzava la pretesa di sottoporre il simbolo dell’unità nazionale alla Chiesa, si decise, per ritorsione, di non pagare più alcun sussidio, neanche quelli previsti per legge, finché “il vessillo della nazione non sia ammesso e venerato nella chiesa”. E poiché anche la Società Elena di Montenegro pretendeva di portare la sua bandiera all’interno del tempio perché provvista dei colori nazionali, fu interessato il sottoprefetto; questo rispose dando ragione al Parroco in quanto vessilli di società come la Elena di Montenegro erano da considerarsi privati; per quanto riguardava la bandiera nazionale, se ne lavava le mani affermando che la decisione del Parroco, se scorretta, era competenza del Ministro di Grazia e Giustizia al quale, eventualmente, il Consiglio poteva rivolgersi. (2)
Un ambiente così ostile non era generalizzato nella comunità, ma aveva all’interno dell’amministrazione comunale agguerriti rappresentanti che non lasciavano passare occasione per opporsi a qualunque presunta deriva clericale. Quando, approfittando dell’assenza del sindaco Alibertini che non avrebbe mai concesso il permesso, il 28 maggio 1906, l’assessore all’istruzione Ornano decise di chiudere la scuola elementare per consentire le cresime e di imbandierare il palazzo comunale in occasione dell’arrivo del Vescovo, suscitò una velenosa reazione del consigliere massone Antonio Berretta: con toni fermi e accesi questi sosteneva che tali atti di deferenza, abituali in periodi di oscurantismo, non potevano essere giustificati in quello che definiva pieno secolo di civiltà e che, se i genitori erano liberi di non mandare i bambini a scuola per la cresima, questo non doveva rendere schiavi gli altri padri che l’avessero pensata diversamente. E un altro consigliere, Domenico Bargone, non esitava a definire i preti nemici tuttora della civiltà e del progresso.
Con il sindaco Alibertini i rapporti furono sempre tesi: nella corrispondenza si percepisce una durezza di toni a volte sorprendente priva di qualsiasi rispetto istituzionale. Alle richieste di Vico le risposte erano sempre secche, spinose, perentorie. A quella, prevista per legge, di contribuire alle spese per l’episcopio di Tempio, rispondeva: “sulla cattedrale di Tempio i devoti di Maddalena non godono nulla, e nulla del tutto i non devoti, in verità non ci sarebbe alcunissima ragione che questa popolazione dovesse concorrere nelle spese per restauro di quell’episcopato … L’alloggio è a Tempio e Tempio provveda“. Rifiutando, poi, di stanziare somme per quello scopo, affermava che, se pure fosse stato messo al corrente del progetto, ne avrebbe criticato certe scelte definite, senza mezzi termini “spese di lusso” per il Vescovo.
Per la cresima del 1910, a Vico che aveva annunciato cortesemente l’arrivo del vescovo monsignor Bernardo Pizzorno, coadiutore dell’arcivescovo di Sassari e amministratore apostolico della diocesi di Tempio per le cresime, dal Comune si rispondeva: “le significo che stanti le anormali condizioni sanitarie della provincia, non ritengo opportuno nell’interesse della salute pubblica che siano per il giorno 8 corrente eseguite le funzioni per la cresima. Ne preavviso la S Vanche per non indurmi ad emettere un decreto di sospensione. Per il sind Francesco Pietri”.
In questo clima difficile don Vico si trovò assediato dalle richieste pressanti di Ricciotti Garibaldi per ottenere in enfiteusi l’Isuleddu. Garibaldi, in lite con Francesca Armosino che ne aveva ottenuto l’allontanamento da Caprera, aveva pensato di costruire una casa su quell’isolotto pietroso che garantiva alla Chiesa un piccolo reddito ma che, essendo stato assegnato dal Comune, poteva, nelle peggiori previsioni di Vico, essere espropriato a favore di un figlio dell’Eroe al quale il Consiglio Comunale di La Maddalena sembrava non poter rifiutare niente. Vico aveva cercato l’appoggio del Vescovo che, però, meno implicato emotivamente, gli aveva risposto, il 26 marzo 1908: “Lei desidererebbe che l’isolotto non andasse in certe mani e ha ragione. È da osservare però che se Lei dà una negativa quell’uomo non se ne starà certamen te e ricorrerà al Governo da cui avrà ciò che desidera e forse senza obbligo di corrispondere a codesta Chiesa nessun canone o tutt’al più daranno una cartella D P del reddito approssimativo all’attuale. Lei non avrà guadagnato nulla dal lato materiale, non avrà impedito la costruzione di quella casa e forse si sarà fatto un nemico che potrebbe far del male. Mi pare che sia forse bene attaccarsi al detto prendi tempo e camperai …Il richiedente ha degli amici ma anche dei nemici, può darsi che nel fare le pratiche col governo si venga a far pubblica la cosa e i contrari all’uomo mettano ostacoli tali per cui a Lei non sia concesso di venire a quel contratto”. E finiva consigliandogli di non parlare dell’autorità ecclesiastica diocesana, ma dell’autorità ecclesiastica in generale, forse per non subire, a sua volta, pressioni. Come sappiamo, Vico dovette cedere, l’Isuleddu passò nelle mani dei Garibaldi che non furono buoni e corretti pagatori, e, dopo appena cinquanta anni, ottennero la proprietà e la vendettero provocando una dolorosa situazione che oppose il parroco Capula al vescovo Melis.
Paradossalmente la Chiesa trovò maggiore sostegno durante i primi anni del fascismo quando la massoneria fu annientata dal regime e i protestanti furono obbligati a contenere la loro propaganda all’interno delle chiese. Nel censimento del 1931 i protestanti erano ridotti a ventisette. (3)
Giovanna Sotgiu – Co.Ri.S.Ma
- Culiolo convinse il Consiglio a non intentare lite con Vico, prendere atto delle sue dichiarazioni sulla proprietà e tenere obbligato il parroco, come nel passato, al pagamento delle tasse e alle manutenzioni.
- La bandiera italiana doveva aspettare circa novanta anni prima di entrare con tutti gli onori in chiesa: sarebbe stato don Capula a volerla dandole la dignità meritata; oggi la vediamo presso l’altare di San Giorgio.
- Archivio Storico del Comune di La Maddalena, categoria XII, classe I: Famiglia Andolfi due, Larco due, Clerico uno, Cossu Gabriele uno (militare a Punta Rossa), Orlando nove, Lena, tre; De Franchi Alberto cinque (via Regina Margherita), Albano Ernesto quattro (Cantiere).