Le donne e il Generale
“I lancieri di Garibaldi passarono al galoppo. Fosse stato di nuovo al mondo Sir Walter Scott per vederli! Erano tutte figure snelle, atletiche, risolute, molti con le forme della bellezza meridionale maschile più splendida, tutti illuminati dallo spirito, e resi nobili dal coraggio deciso a osare, agire, morire. Indossavano tutti gli splendidi abiti della legione garibaldina, la tunica rosso fiamma, il berretto greco, oppure cappelli rotondi con la piuma come i Puritani. I lunghi capelli al vento, i volti decisi. La moglie di Garibaldi, Anita, lo seguiva a cavallo. Lui stesso si distingueva per la tunica bianca; sembrava in tutto e per tutto un eroe medievale – il volto ancora giovane, perché la sua vita tanto avventurosa è stata sempre carica di giovinezza, e non vi è segno di fatica sulla sua fronte o sulle guance. Che cada o vinca, in lui si vede un uomo impegnato nel compito per cui lo ha creato la natura stessa. Si avvicinò al parapetto, guardò la strada con il cannocchiale, e dato che non vi erano ostacoli in vista, si voltò per un momento verso Roma, poi condusse la legione oltre la Porta. Duro era il cuore, di pietra e atterrito l’occhio che non ebbe una lacrima per quell’istante”.
Con un tuffo al cuore i lettori del New York Daily Tribune nell’estate del 1849 leggono l’ultima cronaca dalla Repubblica romana firmata da Margaret Fuller, la battagliera giornalista (prima corrispondente estera americana della storia) salita sulle barricate per amore (ideale) di Mazzini e (passionale) del marchese romano Giovanni Angelo Ossoli. Fuller descrive l’uscita da Roma, il 2 luglio 1849, di Garibaldi e di quanti hanno deciso di seguirlo (saranno in 4700) dopo che la Repubblica è caduta, Mazzini così testardo da proclamare, il giorno dopo, in Campidoglio, le truppe francesi ormai in città, la Costituzione repubblicana più avanzata della storia, mai applicata ma mai abrogata. Il quadro descritto dalla Fuller è quello, romantico e spavaldo, che aleggia sempre intorno al guerriero nizzardo dalla chioma leonina, leggenda già vivente.
Nulla dal suo articolo, Margaret Fuller – che pure ha fatto l’infermiera negli ospedali repubblicani – lascia trapelare del dolore di quei 5 mesi di assedio. Nulla di Mameli che, divorato dalla cancrena, morirà 4 giorni dopo. Nulla di Colomba Antonietti che Garibaldi aveva elogiato come una nuova “Anita”: morta a 22 anni, il 13 giugno, a Porta San Pancrazio, vestita da bersagliere per combattere accanto al marito Luigi Porzi, dopo averlo seguito, vestita della divisa della Legione Lombarda, anche tra le truppe del generale Durando. Nulla della 19enne Rosa Strozzi che perde il marito, il capitano garibaldino Vincenzo Santini, sotto il fuoco nemico ma che resta così fedele a Garibaldi da seguirlo anche tra i Mille e a Mentana. Sono tutti gloriosi e splendenti quei primi garibaldini in camicia rossa che escono da Roma e che, solo pochi giorni prima, combattevano coperti di stracciate divise improvvisate, in un caravanserraglio feroce e riottoso di ex galeotti, avventurieri, spostati, che, all’ombra del Generale, cercavano riscatto (come l’ex schiavo uruguayano Andrea Aguyar, gigantesca guardia del corpo di Garibaldi, tra le vittime della Repubblica dimenticate dagli scultori dei busti del Gianicolo). Teppaglia che faceva storcere il naso agli altri capi carismatici dei volontari romani, Manara e Dandolo. Che in quei giorni, rispettivamente, scrissero: “Garibaldi è una pantera e i suoi uomini una masnada di briganti” e “Garibaldi assomiglia più a un capo di tribù indiana che a un generale”. E su Anita Margaret Fuller glissa rapidamente. Riferisce che gli cavalca alle spalle. Non ne descrive l’aspetto, perché non lo può fare.
Della amazzone brasiliana Anna Maria Ribeiro da Silva, dopo 10 anni di lotta condotta a fianco del suo Josè, resta solo una donna con la divisa da legionario slacciata sul ventre gonfio dei cinque mesi di gravidanza, il volto emaciato, lo sguardo teso. Così diversa dalla statuaria 17enne, orfana di un pescatore e sposata a forza ad un uomo molto più vecchio di lei, che era magicamente comparsa in una giorno di luglio del 1839 nel cannocchiale del 32enne marinaio figlio di marinaio, folgorato 25enne – mozzo su una nave mercantile nel Mediterraneo orientale – dai discorsi di un eccentrico passeggero francese, il saintsimoniano Emile Barrault, affiliato 26enne alla Giovine Italia di Mazzini e 27enne condannato a morte per aver partecipato alla prima rivolta mazziniana fallita. Garibaldi fugge all’arresto grazie a tre donne, la prime di tante che sosterranno le sue gesta: la fruttivendola Natalina Pozzo e l’ostessa Caterina Boscovich con la sua cameriera Teresina Cassamiglia che gli danno rifugio, permettendogli di raggiungere Marsiglia, quindi Odessa, infine Tunisi, dove si arruola nella flotta piratesca di Hussein Bey; poi il viaggio fino in Brasile, paese che, come anche l’Uruguay, dal 1835, batterà in lungo e in largo, sul cassero di una nave battezzata “Mazzini”, dividendosi tra cause repubblicane ed imprese commerciali, protetto dagli inglesi. Dall’ottobre 1839 Garibaldi veleggia al fianco di Anita che ha strappato al vecchio consorte filo-imperialista senza troppo fatica anche se scriverà che per amore di lei si era fatto “magnetico” nella sua “insolenza” . L’anno dopo nascerà il figlio Menotti. Il neonato, a 12 settimane, è già un fuggitivo, in braccio alla madre, costretta a darsi alla macchia. “Sola osò, madre nobile, avanzare con il suo sposo attraverso l’onda amara” sono i versi patriottici che le dedica la poetessa nizzarda Agata Sophie Sassernò quando vede Anita, il 21 giugno 1847, sbarcare tra la folla osannante, al fianco dell’ormai marito, accorso alla notizia dei moti europei. Con lei i figlioletti Menotti, 7 anni (dal nome del martire risorgimentale), Teresita, 2 anni (come la sorellina di Giuseppe, morta tra le fiamme a 3 anni) e Ricciotti, 4 mesi (come il patriota fucilato nel 1844 con i fratelli Bandiera). E’ invece rimasta sepolta in Brasile la secondogenita Rosa (come la madre di Giuseppe ), morta a 2 anni, 2 anni prima. Dalla nave “Speranza” scende il Generale insieme ad un centinaio dei reduci della sua “Legione Italiana”, cui 4 anni prima aveva dato una divisa per combattere contro l’Argentina approfittando della vendita a prezzi stracciati a Montevideo di una partita di tuniche rosse che, a causa della guerra, non poteva raggiungere i macellai di Buenos Aires, cui era destinata (le usavano per occultare il sangue degli animali). Tra di essi c’è il 34enne maddalenino Giovan Battista Culiolo, il garibaldino “Maggior Leggero”, disertore della marina sarda diventato uno dei fedelissimi di Garibaldi. C’è il genovese Gaetano Gallino, che porta con sé l’unico ritratto dal vivo di Anita. Al suo fianco sorregge il tisico Federico Anzani che 14 giorni dopo morirà. Una amicizia, quella tra Gallino e Anzani, nata sulle rive di un fiume sudamericano, dove il secondo, luogotenente di Garibaldi, lavava la sua unica camicia. Due settimane dopo lo sbarco, il freddo incontro avuto con Carlo Alberto – che non ama l’alone di avventuriero che ormai ammanta il ribattezzato Eroe dei Due Mondi -, non raffredda l’entusiasmo di Garibaldi. Il governo provvisorio di Milano non esita, infatti, a nominarlo generale di brigata. A Bergamo, in marcia verso Brescia, Garibaldi fa la sua prima arringa al popolo. Non è alto e deve salire su di uno sgabello per farsi vedere bene da una finestra del palazzo di Gabriele Camozzi. E’ costretto a farsi stringere le gambe per non rischiare di precipitare di sotto dal fratello di Gabriele, Giovan Battista. Gabriele è un ricco patriota che finanzierà le imprese di Garibaldi che lo chiamerà “protettore mio nella sventura” e che nella moglie Alba Coralli avrà una delle sue più ardenti sostenitrici in Lombardia, cui non mancherà di inviare un ciuffo dei suoi ambiti riccioli biondi. Alba così garibaldina da entrare in aperto conflitto con il marito quando, ormai deputato, si sposterà su posizioni meno radicali. Ma le promesse di vittoria lanciate dal pulpito dei Camozzi non verranno esaudite. In quel 1848 verranno la sconfitta di Custoza, le diserzioni, la fuga di Garibaldi in Svizzera travestito da contadino. Quindi, l’anno dopo, l’impresa della Repubblica romana dove Anita accorre, lasciando i figli alla suocera Rosa, concependo durante l’assedio intanto un altro figlio, che le morirà in grembo. Nella cronaca di Margaret Fuller, Garibaldi e la sua Anita escono galoppando da Roma con fare ardito. Ma in realtà è l’inizio di una disperata fuga, condotta anche a piedi, attraverso l’Appennino, braccati da austriaci e papalini. Che sarò fatale a quella che il marito Garibaldi descrisse come la “dea delle battaglie” che, in Sudamerica, resisteva “nelle veglie come un veterano”, cannoneggiava i nemici, aveva tanto sangue freddo da, dopo la battaglia di Curitibanos del 1840, mettersi a cercare il suo uomo, dato per disperso, rivoltando i cadaveri sfigurati. Il 4 agosto 1849, a 28 anni, Anita muore mentre Garibaldi e Leggero, sfuggiti al fuoco nemico, la trasbordano – lei ormai agonizzante su un materasso – da una barchetta ad una fattoria, vicino Ravenna. Sono costretti a seppellirla di corsa sotto la sabbia e a fuggire. Per oltre 15 giorni per i fuggitivi sarà la rocambolesca “trafila” tra Romagna e Maremma, con la figlia di un oste che svia i soldati austriaci, fino all’imbarco nel golfo Follonica alla volta della Liguria. Quindi Garibaldi affida i figli alle cure della madre e dei coniugi nizzardi Deidery, Joseph e Vincenza, amici del cugino Augusto Garibaldi. Salpati alla volta di Tunisi, Garibaldi e Leggero vengono stavolta respinti da Bey. Si rifugiano alla Maddalena, e dopo un mese sono a Tangeri. Dopo sei mesi arriva l’imbarco per New York dove Garibaldi va a lavorare in un salumificio, poi nella fabbrica di candele di Meucci, l’inventore del telefono. Ha appena da sfamarsi quando arriva al comando di una nave mercantile. E per tre anni saranno le rotte dell’Estremo Oriente. Ad inizio 1854 lo troviamo con un carico di grano a Londra, incontra Mazzini, conosce una sua amica, Emma Roberts, ricca vedova che si innamora subito del vigoroso marinaio, che la asseconda. Ma, in quel 1854, Garibaldi ha anche modo di far girare la testa alla 24enne contessa Maria Martini Giovio della Torre (“Sarò cosa vostra. Ve lo giuro” gli scrive), figlia ribelle del conte di Salasco, proprio il generale sabaudo che sottoscrisse l’armistizio con gli austriaci del 1848, che tanto fece infuriare Garibaldi. Farà concorrenza a Jessy White nell’organizzare la propaganda garibaldina, con opuscoli, conferenze, sottoscrizioni. Jessy, figlia di un armatore dello Hampshire che il battello a vapore sta portando alla rovina, accompagna l’amica Emma Roberts, quando Garibaldi organizza un viaggio in Sardegna. Da quel viaggio, nel maggio 1855, la 23enne Jessy torna “patriota italiana”, si mette a studiare per diventare infermiera nelle battaglie garibaldine, conosce Mazzini, allora in esilio a Londra. Diventerà grande amica di entrambi. L’esuberante Garibaldi la chiamerà “sorella”, il mite Mazzini “miss Uragano”. Da quel viaggio, invece – in cui Garibaldi sembra rinato tra caccie al cinghiale e scorribande in barca -, Emma torna del tutto persuasa che non può costringere nella gabbia dorata della sua villa inglese un uomo del genere, che non ha d’altronde mai mostrato di gradire gli ambienti aristocratici: “No, non posso farcela, non mi ridurrò mai a una mummia come i vostri amici, fasciati di bende d’alta sartoria”, “un servo ad ogni passo, e poi tre ore a pranzo e mai l’ora di andare a letto. Un mese di questa vita mi avrebbe ucciso!” alcuni dei suoi sfoghi. D’altronde lui non fa mistero di aspirare a trovarsi un “buen retiro” in vista del mare cristallino della Gallura. Desiderio che diventa decisione quando, a novembre, con la morte del fratello Felice, eredita 35mila lire. E dà mandato all’amico Francesco Susini della Maddalena di comprargli metà dell’isola di Caprera, tra cui uno dei terreni di Emma Claire Collins che, con il burbero marito Richard (con il quale spesso Garibaldi avrà banali discussioni da vicinato, mentre lei gli offrirà servigi di segretaria), fanno parte della colonia inglese disseminata nell’arcipelago. Emma intanto – e in seguito insieme a Jessy -, si prende cura del figlio di Garibaldi, Ricciotti, irrequieto studente dei gesuiti a Nizza (si sospetta la sua mano dietro l’incendio doloso del collegio), reso storpio da una ferita al piede. E, quando si ritrova davanti, nel gennaio 1856, nel grigio di Londra, i tanto dolci quanto fiammeggianti occhi di Garibaldi, intanto promosso capitano, non esita a finanziargli la costruzione, nel cantiere navale del padre di Jessy, di un cutter per i suoi trasporti marittimi tra Nizza, Genova e Sardegna. Emma resterà quindi una intima compagna di Garibaldi, in questo pienamente ricambiata. Sarà l’unica alla quale lui si rivolgerà dandole del “tu” nelle sue lettere, per vent’anni. Al regalo di addio della sua “fidanzata” inglese, Garibaldi dà il nome di “Emma” e su di esso prende il largo con il figlio Menotti. Puntando quindi su Caprera per iniziare la costruzione di quella che sarebbe diventata la “casa bianca”, l’ex casa di un pescatore restaurata e poi ampliata. Lui, umilmente, si occupa di trasportare i massi di granito da quando il capomastro, un ex frate, gli ha detto: “Generale, usare la cazzuola non è affar vostro”. E in estate si fa quindi raggiungere dai figli Teresita e Ricciotto.
Ad accudirli una servetta analfabeta nizzarda, Battistina Ravello, che finisce per prendersi cura dell’eroe anche sotto le lenzuola. Quando poi, nel gennaio 1857, un carico di calcina caricato sull’“Emma” prende fuoco e la nave affonda, Garibaldi decide di diventare il guerriero-contadino con poncho e camicia rossa, il “compare” di tanti pastori sardi (tra tutti Ignazio Sanna di Arzachena, la cui moglie Maria Prunedda accoglie sempre Garibaldi come un re), loro compagno di vita dura e primitiva, di terra coltivata a mani nude, di pranzi dai sapori forti negli stazzi, di discussioni seduti su grezze panche intorno ad un camino. A scuotere il “nuovo” Garibaldi, nell’ottobre 1857, il soggiorno durato un mese della cosmopolita scrittrice e baronessa inglese, di origine tedesca, Esperance von Schwartz, divorziata da un ricco banchiere, che sta scrivendo una biografia su di lui e vuole conoscerlo. Il suo sbarco sull’isola, lei bellissima, i capelli neri sciolti sulle spalle, al guinzaglio due bianchi levrieri al guinzaglio, è da diva. Leggenda vuole che, appena entrata nella spartana casa bianca, abbia chiesto a Garibaldi dei pantaloni per salire a cavallo e si sia tolta la gonnellona davanti a lui, allibito. Ma con un fare così cameratesco e così poco civettuolo da far perdere subito la testa al suo rude ospite. Per un mese cavalcheranno e veleggeranno insieme nella selvaggia bellezza mediterranea. Dopo un mese, tornata la baronessa a Londra, Garibaldi prende a tempestarla di lettere amorose, chiamandola “Speranza amatissima” (“mi sento l’uomo più felice della terra dacchè vi ho avvicinata” le scrive). Poi, un anno dopo, Esperance di nuovo a Caprera, incurante delle occhiatacce della servetta Battistina incinta (che presto partorirà Anna Maria Imeni, detta Anita, morta a 16 anni di meningite, proprio dopo un avventuroso viaggio all’estero fatto insieme alla stessa Esperance), Garibaldi la chiede in moglie, ma ne riceve un garbato rifiuto. Esperance, spasimando con maturità, capisce ben presto che la leggenda vivente non è anche un leggendario amatore: impacciato ed ingenuo nel gioco sentimentale, tanto appassionato nelle missive quanto compassato nel tete-a-tete. Ciò non toglie che, non volendo rinunciare alla sua prestigiosa amicizia, quando Garibaldi torna sul campo di battaglia nel 1859, convinto da Cavour, nominato generale dell’esercito sardo in guerra contro l’Austria, al comando dei 32mila Cacciatori delle Alpi (tra cui il figlio Menotti e il genovese Stefano Canzio, che sposerà Teresa Garibaldi), si fa anche lei garibaldina e lo rimarrà per sempre. Accorre quando il generale la chiama, recapita per suo conto dei messaggi clandestini, finisce in carcere ed evade. E anche negli anni a venire sarà il maggiore sponsor, presso i maggiori notabili esteri (e le loro tasche) di quello che chiama “amico unico e amatissimo”. Ma, fedeli al mito di Garibaldi, in quel 1859, saranno anche delle donne ben diverse dalla raffinata Esperance.
Che, nella seconda guerra di indipendenza, hanno permesso di preservare la memoria delle coraggiose vivandiere del Risorgimento (ogni reggimento di fanteria ne avrà in forza due, sino al 1866), come delle tante donne che, a prezzo della vita, curarono i feriti, aiutarono i fuggiaschi, furono messaggere di guerra. Una di queste è la 42enne ex balia di Elena Casati, la mazziniana moglie di Achille Sacchi: Maria Vitali riesce a far avere a Garibaldi il rapporto (che verrà donato da Jessy White allo Stato italiano) con cui Sacchi, reduce della Repubblica Romana e futuro medico dei Mille, informa Garibaldi delle massicce diserzioni che stanno avvenendo a Como. Nella orribile mattanza delle battaglie di Solferino e San Martino, che fece inorridire anche l’imperatore Francesco Giuseppe (11mila morti e 23mila feriti in poche ore), a soccorrere i granatieri feriti, c’erano anche Serafina Donadei e Maddalena Donadoni Giudici. A Serafina, Vittorio Emanuele II in persona, dopo la battaglia, dona la medaglia d’argento al valore militare che lei si toglie dal petto e appunta sul tricolore del suo reparto. Anche Maddalena, che era scappata di casa insieme al fratello per arruolarsi nella prima guerra di indipendenza, ebbe una medaglia d’argento, oltre a tre di bronzo, per il valore dimostrato nel soccorso di feriti di San Martino. E, a Solferino, quel 24 giugno 1859, c’è anche Adeodata Friggeri, che a fianco di Garibaldi aveva già combattuto nella Repubblica Romana e che quindi è diventata una vivandiera ufficiale dell’esercito piemontese, finendo, insieme al marito artigliere, nel 1854, in Crimea. Dove lo ha visto finire nel triste elenco dei dispersi. Quindi nel 1859, vivandiera a Solferino, colpita alle gambe, Adeodata giace in terra accanto alle altre migliaia di feriti. I pochi soccorritori presenti riescono, a malapena, a trascinare i caduti, ammassandoli su dei carretti, lontani dal campo di battaglia. A sera si ritrova in un immenso accampamento a cielo aperto, da cui si levano lamenti disperati e i gemiti dei moribondi. Se potesse stare in piedi, anche lei farebbe come le donne dei dintorni che sono accorse per curare i feriti, incuranti se piemontesi, francesi o austriaci. Un coraggio che colpisce Henry Dunant, il 31enne imprenditore svizzero finito per caso sul campo di battaglia e che, alla vista dei corpi abbandonati a terra, si mette a capo di un gruppo di soccorritori, allestisce ospedali improvvisati, lancia appelli alla popolazione per portare acqua, cibo, bendaggi. Tre anni dopo, a Ginevra, con due medici, un generale ed un giurista, fonderà il primo nucleo della Croce Rossa. Chissà se Adeodata avrà visto passare quel giovanotto giunto in Lombardia per chiedere a Napoleone III di dargli una concessione su un terreno nella colonia di Algeria e diventato invece il filantropo più famoso del mondo. E’ certo che, ad un tratto, guardando l’orrore che la circonda, il volto le si illumina di gioia. Le avanza incontro, esterrefatto come lei, il marito che credeva morto. Ha un braccio ferito, è salvo. Oramai vecchi e pieni di ricordi, nella loro casa di Perugia, prima di morire, detteranno le loro ultime volontà: essere sepolti in camicia rossa.