Le reazioni in città e la difesa dell’Arsenale
I ‘rossi’ stavano da una parte, i ‘bianchi’, prossimi al parroco e sfamati con il pane del governo, dall’altra parte della barricata, quella che usciva vittoriosa.
Il consiglio comunale, il primo a maggioranza di sinistra nella breve storia della rinascita democratica – un’esperienza non si ripeterà mai più in avvenire – “rendendosi interprete del turbamento che pervade la popolazione”, riunitosi il 1° luglio, votò all’unanimità un ordine del giorno impostato in questi termini: ‘Il consiglio comunale di La Maddalena, riunitosi in assemblea straordinaria, venuto a conoscenza dei gravi provvedimenti di licenziamento relativi a 16 operai dipendenti della sezione arsenale della marina militare, mentre ravvisa un tentativo di liquidazione dell’arsenale con grave pregiudizio per la vita economica e sociale dell’Isola, eleva una vibrante protesta nei confronti delle autorità responsabili, solidarizza a nome di tutta la cittadinanza con gli operai licenziati e con le loro famiglie e dà mandato alla Giunta comunale per svolgere e prendere tutte le iniziative e contatti necessari tendenti alla risoluzione di questo grave problema” [1].
Il consiglio comunale stabilì anche di inviare a Roma una delegazione composta del vicesindaco Luigi Papandrea e dai consiglieri Augusto Morelli e Mario Filinesi, per poter esporre la situazione al Ministro della Difesa.
“Essendosi la delegazione, giunta a Roma rivolta a me, come ad altri parlamentari sardi, per aiutarla ad essere ricevuta al Ministero – aggiunse Polano durante il suo intervento – io dal canto mio ho cercato ieri di poter introdurre questa delegazione, sia presso i sottosegretari, che presso di lei. I sottosegretari mi hanno mandato da lei; ma da lei, signor ministro, non ho avuto l’onore di ricevere finora una risposta alla mia richiesta scritta di colloquio!.
In occasione di questi licenziamenti si pone anche e soprattutto il problema del destino dell’arsenale di La Maddalena, già altre volte trattato in quest’aula. Noi abbiamo chiesto al Governo tre anni addietro di dire quali sono le sue intenzioni intorno all’avvenire di un così importante stabilimento industriale qual è il cantiere navale di La Maddalena.
Che cosa intende fare il Governo di questo cantiere? Nell’ordine del giorno votato dal Consiglio comunale si esprime il timore che questi licenziamenti, oltre che per le ragioni che appaiono evidenti di persecuzione di carattere politico-sindacale, possano anche essere un inizio di smobilitazione del cantiere stesso.
La questione, dicevo, preoccupa molto l’opinione pubblica della Sardegna, perché il cantiere navale di La Maddalena rappresenta nell’isola un’attività economica importante. In esso vi sono stati occupati fino a 700-800 e forse più lavoratori. E’ la più grande impresa di tipo industriale nel nord della Sardegna. Questa impresa industriale ha sempre avuto un peso abbastanza considerevole nell’economia sarda soprattutto nell’immediato suo retroterra. Cioè nella Gallura, che è la fornitrice di tutti i generi di prima necessità necessari alla vita di quella popolazione. La Maddalena è una cittadina che andò nel passato sviluppandosi fondamentalmente come base navale, con continua presenza in porto di navi da guerra e di forti contingenti militari, nonché del lavoro del cantiere navale.
Questi contingenti militari non ci sono più; però vi è l’attrezzatura dell’Arsenale, che può ancora rappresentare una speranza di vita, di attività anche se attenuata, per la popolazione maddalenina e per l’economia del nord della Sardegna. In questi ultimi anni il cantiere navale ha vivacchiato. Dalla fine della guerra il cantiere navale compie lavori di riparazione per la marina militare e lavori vari per enti diversi. Attualmente vi lavorano circa 600 dipendenti tra operai, impiegati di ruolo e non di ruolo. Vi è stata una diminuzione nel personale e negli impiegati. Dal 1949 un centinaio di operai sono stati o dismessi per richiesta volontaria di licenziamento o trasferiti ad altra sede.
Il cantiere navale di La Maddalena è però un importante complesso industriale, come ho già detto, il quale potrebbe lavorare in pieno, potrebbe avere un impiego completo delle sue attrezzature, poiché ha degli impianti meccanici moderni ed una maestranza altamente qualificata.
A questo proposito mi risulta che il direttore dello stabilimento ha sempre dichiarato ai dirigenti sindacali, in diverse occasioni, di essere soddisfatto del personale, che lavora molto e bene. Anche recentemente, dopo i licenziamenti, ha confermato questo indizio, dichiarando inoltre, in una relazione mandata – a quanto mi risulta – al Ministero, di aver fatto presente che, il personale qualificato, anche se lavorava molto a lungo, non era sufficiente per l’utilizzazione del cantiere e che era necessario assumere altro personale.
Sicché, non si dovrebbe trattare di licenziamenti, tra i quali vi è una parte di questa maestranza qualificata che ha lavorato sempre molto bene: ma si dovrebbe invece trattare di nuove assunzioni di personale qualificato. Il cantiere navale di La Maddalena vale decine di miliardi, è un patrimonio del popolo italiano, con attrezzature elettromeccaniche di primissimo ordine. Esso può e deve essere utilizzato in pieno nell’interesse dell’economia nazionale. E se le esigenze della marina militare non bastano al pieno utilizzo del cantiere, si dovrebbero trovare altre vie di utilizzazione. Il rimodernamento dei cantieri permetterebbe, per esempio, di usarne gli impianti per la costruzione e la riparazione di attrezzature agricole, nonché per la costruzione o riparazione di vagoni ferroviari, di locomotive, ecc. Si pensi che il materiale ferroviario della Sardegna viene ora avviato nel continente, quando necessita di grandi riparazioni. Evidentemente, se fosse possibile avviarlo a La Maddalena, è probabile che si risparmierebbe una notevole spesa e si apporterebbe un contributo alla rinascita industriale della Sardegna tutta. Inoltre, costruendo un bacino di carenaggio, il cantiere potrebbe servire anche alle necessità della marina mercantile con la conseguente possibilità di offrire impiego a numerosi lavoratori.
La Maddalena, sviluppatasi economicamente come base militare per la marina da guerra, ha ricevuto un durissimo colpo a seguito della smobilitazione determinata dalle vicende belliche. E’ quindi assolutamente necessario operare nel cantiere quella trasformazione che lo rendano atto a compiere lavorazioni che non siano strettamente destinate alla marina militare.
Io mi sono reso interprete, signor ministro, delle preoccupazioni della popolazione di La Maddalena, espresse anche nell’ordine del giorno del consiglio comunale. Nella mia veste di rappresentante anche di quella popolazione io chiedo che siano sospesi i provvedimenti di licenziamento e restituiti al lavoro quegli operai che hanno sempre lavorato onestamente. I licenziamenti non sono giustificati da nessuna ragione, meno che meno da necessità di carattere finanziario, come hanno dimostrato i colleghi che mi hanno preceduto. (…)” [2].
La sezione del PCI, a La Maddalena, fece stampare alcune centinaia di volantini che furono distribuiti nella città in difesa di coloro che, da un momento all’altro è il caso di dire, avevano perso il posto di lavoro.
Ma quello che fu rilevato da tutti fu che da quel momento in poi i rapporti politici, civili e personali ne risultarono disgregati. Sorse un’atmosfera di paura, un senso d’insicurezza, ma anche uno spirito di sospetto reciproco che cambiò per sempre il clima della cittadina ‘dove tutti si conoscevano’ che era prima del fattaccio. “S’instaurò un regime di polizia, di delazioni” ricorda oggi Augusto Morelli [3], e Mario Filinesi aggiunge che “anche i compagni a volte evitavano di parlarci, cambiavano strada quando ci vedevano arrivare, per non farsi vedere in comunella. Ognuno temeva per la propria sorte, per il proprio tozzo di pane, nessuno volle più iscriversi al sindacato o entrare nella commissione interna” [4]. Il rapporto di forza all’interno della stessa Commissione Interna mutò decisamente a vantaggio dei moderati e divenne di 2 rappresentanti a 9 per la CISL, esattamente il contrario di quello che accadeva prima del famigerato 24 giugno .
“Molti anni dopo, sotto Natale, ritornai a La Maddalena e incontrai un vecchio amico democristiano nella piazza della chiesa – racconta ancora Augusto Morelli – Egli si avvicinò e mi disse: ’Augusto, ce l’hai con me?’,’No, risposi io, ‘per quale ragione ce la dovrei avere con te?’. Lui: ‘credevo che tu mi avessi attribuito la responsabilità del tuo licenziamento dall’Arsenale’, poi aggiunse ‘io so che la sera del 24 giugno, quando sei stato licenziato, alcuni notabili democristiani brindarono nella sacrestia. Io non ero fra loro, perché ho abbandonato prima la riunione prima della fine ’ [5].
Mario Filinesi addirittura fu arrestato negli Stati Uniti. Dopo il licenziamento era andato a navigare, imbarcandosi sulle petroliere in quanto aveva il libretto di navigazione ed aveva trasferito la sua residenza a Genova. A La Maddalena c’era la polizia politica che evidentemente aveva informato quella americana che era andata a bordo dove era imbarcato Mario e lo aveva arrestato.
Il comandante della nave, siccome conosceva bene Filinesi che da parecchi anni lavorava con lui, si meravigliò e addirittura i poliziotti americani che dovevano controllarlo gli permettevano di muoversi liberamente dappertutto perché si erano resi che era un bravo uomo, d’onestà specchiata, e un padre di famiglia.
C’era un regime di polizia e di delazioni. L’impressione da noi avuta in quegli anni era questa: che tutto partiva dalla sacrestia. I rapporti con i vari enti militari l’avevano loro mica noi. Nei primi licenziamenti, evidentemente per confondere le idee, avevano messo nella lista anche dei personaggi vicini al mondo cattolico.
Il povero Francesi Sechi ‘Pallò’, ad esempio, cosa ne sapeva del comunismo, di politica? Dovevano mascherare: ’Pallò’ era davvero un bonaccione. La sacrestia ha avuto un ruolo, ha saputo colpire, però doveva camuffare, quindi ha messo in mezzo anche dei ‘semplici’. Nello stesso tempo, ha colpito me, Luigi Cappadona, Mario Filinesi, Egidio Cossu. Hanno messo in mezzo anche dei poveri cristi solo per imbrogliare le carte.
Sono stati colpiti anche dipendenti di altri atri arsenali ed è successo quello che è successo qui. Hanno licenziato dirigenti politici e sindacali, rappresentanze di commissioni, circa 2200 persone.
In Sardegna si sono avuti dei licenziamenti qui e qualcuno a Cagliari.
C’è stato, in seguito, un intervento a livello nazionale della CGIL e del PCI.
Nella battaglia in nostra difesa Alessandro Natta e Renzo Laconi sono intervenuti in prima persona. Palmiro Togliatti era il leader del gruppo parlamentare comunista alla Camera, però chi svolgeva le funzioni di presidente, chi lo coordinava, era il sardo Laconi. Era intervenuto, come detto, anche Giuseppe Di Vittorio, segretario generale della CGIL in prima persona pur non essendo venuto mai a La Maddalena.
Dopo il 1952, ho cominciato a fare politica attivamente, ho svolto tre mandati da consigliere comunale a Tempio, poi tre da consigliere provinciale, a Sassari. Sono stato eletto segretario di federazione in Gallura nel 1959, su incarico di Giorgio Amendola, responsabile organizzativo del partito, sono stato dirigente provinciale della CGIL, in diverse epoche, e presidente dell’ospedale di Tempio dal 1978 al 1982 [6].
Nel 1952 è stato licenziato anche Pietrino Del Giudice. Lui era invalido di guerra, e nel momento in cui il direttore Bianca ci comunicava il licenziamento gli si rivolse dicendo ‘guardi, io sono un invalido di guerra”, ma io lo zittii subito dicendo ‘cosa tratti di questa cosa, è una questione personale’. Del Giudice aprì poi un chiosco al mercato per vendere frutta e verdura: tutte le mattine riceveva la visita delle guardie municipali che gli mettevano 1000 lire di multa perché avvolgeva, dicevano, la frutta con la carta del giornale. E mille oggi e mille domani e dopodomani, lo costrinsero a lasciare l’attività. Ecco, questo era il clima.
In particolare hanno colpito dirigenti politici, dirigenti sindacali e membri della commissione interna. Passati un paio di mesi la direzione CGIL nazionale ci fece sapere che avremmo dovuto farci rilasciare un attestato della nostra abilità professionale.
Io sono stato il primo in assoluto ad essere licenziato il 24 giugno 1952. Ebbi la nascita di mia figlia pochi giorni dopo, il 9 luglio.
Ci sono stati dei casi in cui le famiglie si sono divise, perché il ‘capo’ non ha trovato più un lavoro e in cui i disoccupati incolpevoli sono impazziti perché le mogli spesso gli rinfacciavano che l’indigenza non sarebbe arrivata se non avessero fatto attività politica. Non c’erano allora gli ammortizzatori sociali di oggi, né la cassa integrazione guadagni, corta o lunga che sia. Dal giorno dopo il licenziamento mi impegnai a svolgere attività di mobilitazione.
Noi ‘cacciati’ non abbiamo avuto nemmeno la possibilità di rientrare in officina, e allora ci siamo riuniti nella sezione del PCI, in Via XX Settembre ed abbiamo iniziato le attività, investendo il gruppo consiliare del partito, la CGIL provinciale e nazionale.
A Roma, Di Vittorio ottenne che ci fossero assegnati ulteriori sei mesi di paga oltre l’assegno di liquidazione.
Abbiamo iniziato un lavoro che è durato 22 anni.
Nel 1974, infatti, hanno riconosciuto l’errore e ci hanno ripagato con la quiescenza.
No, non ci aspettavamo una riassunzione e qui attribuisco una colpa al sindacato, che decise lui per noi tentando la strada della riassunzione, fatto che determinò anche una rottura, perché i sindacalisti non erano autorizzati ad agire di testa propria senza consultarci. La Marina Militare non si sarebbe mai data la zappa sui piedi riassumendoci. Dopo quei licenziamenti in Arsenale subentrò la paura. La libertà d’opinione ne subì le logiche conseguenze. Gli iscritti al sindacato di sinistra. che prima erano circa 900, scesero a poco più di 100. Nessuno voleva più accettare incarichi nella Commissione Interna, né nei sindacati, né incarichi pubblici. La vita democratica, nel suo insieme subì una dura battuta d’arresto e la chiesa divenne, attraverso i suoi uomini, il vero centro dell’attività amministrativa” [7].
Il Pane del Governo di Salvatore Abate e Francesco Nardini – Paolo Sorba Editore – La Maddalena
NOTE:
[1] Cfr. ACLM, Registro delle Delibere Consiliari. A. 1952, delibera n. 108.
[2] Nella seduta pomeridiana della Camera, il 12 luglio 1952, era stata aperta la discussione sul disegno di legge della Legge Finanziaria . Un capitolo riguardava lo “stato di previsione della spesa del Ministero della Difesa per l’esercizio finanziario 1952-53” e “l’autorizzazione di spese straordinarie del Ministero della Difesa da effettuare negli esercizi finanziari 1952-53 e 1953-54”. Prima che Luigi Polano presentasse il suo ordine del giorno, firmato insieme al collega Renzo Laconi, erano intervenuti i deputati Viola e Petrucci. Cfr. AA.PP. Cit.
[3] A. MORELLI, Testimonianza cit.
[4] M. FILINESI, Testimonianza cit.
[5] A. MORELLI, Cit.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
- Prologo di “Il pane del Governo”
- 1946. Le prime elezioni, ovvero ‘la maggioranza di una minoranza’
- 1946. La democrazia si presenta
- 1947. Gli anni della guerra fredda
- 1948. Le elezioni del 18 aprile
- 1949. L’Italia nella NATO e il Piano Marshall
- Alla vigilia delle elezioni del 26 maggio 1952
- Una maggioranza laica e di sinistra
- Le dimissioni di Renzo Larco
- Colpire le sinistre
- 24 Giugno 1952: dopo i tre suoni di sirena
- 12 luglio 1952 – L’intervento dell’on. Luigi Polano alla Camera dei Deputati
- Le reazioni in città e la difesa dell’Arsenale
- 16 luglio 1952. Al ritorno da Roma
- La libertà di dire la verità
- Un problema nazionale
- La vita amministrativa
- La fine della primavera isolana
- Le elezioni dell’8 marzo 1953. ‘Antò scopa di ferru’
- La diaspora del 1953
- L’amministrazione Carbini
- La ‘destra’ al governo (1953/1956)
- 1956 L’anno del consenso
- 1956 L’ultima offensiva
- Venti anni d’attesa
- Epilogo