Lo sfollamento del 1943
I maddalenini, contenti di essere rientrati alla loro isola nell’estate del 1940, avevano cercato di riprendere la vita normale, normale quanto poteva esserlo la convivenza con lo stato di guerra, il richiamo alle armi dei giovani, le progressive restrizioni nelle attività civili: pesca, spostamenti, traffici marittimi erano severamente controllati e ridotti dall’esigenza di sicurezza della base.
Erano partiti con la promessa di rimborso integrale delle spese sostenute per il trasferimento e, una volta rientrati all’isola, cercarono di ottenerlo con richieste più o meno formali presentate all’amministrazione comunale. Ma le risposte erano vaghe: pareva che non ci fossero soldi stanziati per questa esigenza, non era chiaro se tutte le voci di spesa potevano essere rimborsate. Nel 1941 nessuno aveva ancora ricevuto quanto dovuto e, a settembre di quell’anno, il commissario prefettizio dott. Renzo Manca approntò una pratica per la prefettura: risultavano 1.064 domande documentate con le spese sostenute per trasferire le famiglie nei paesi identificati dal piano di sgombero. Ma la documentazione fu respinta alla luce delle disposizioni riguardanti i rimborsi; fu una vera doccia fredda per quanti, partendo, avevano portato con sé le poche (o tante) cose che ritenevano di non lasciare nella casa abbandonata per chissà quanto tempo: solo le spese di viaggio delle persone potevano essere rimborsate, ciò significava che gli sfollati dovevano pagare in proprio il trasporto dei bagagli, di tutti i bagagli anche quelli che erano stati ritenuti indispensabili e che erano stati stivati nelle valigie, nei cartoni legati con lo spago o nei sacchi approntati utilizzando vecchie vele.
Un esempio per tutti: Pasquale Macciocco, che aveva corredato la domanda con l’elenco di tutte le spese impiegate per la partenza, si sentì rispondere che le uniche considerate ammissibili erano quelle di puro. trasporto delle persone, in barca, dalla Maddalena a Palau (e ritorno) e, in treno, (da Palau a Luras (e ritorno); il trasporto dei bagagli veniva inesorabilmente depennato, così che a fronte di 171 Lire spese se ne potevano rimborsare solo 132.
A ottobre del 1942 ancora la pratica non era definita e il prefetto chiedeva al podestà di fare una cernita delle richieste in regola secondo le disposizioni.
Ma intanto, nella vita quotidiana, le autorità non rinunciavano a mostrare ottimismo visibile nelle cerimonie ufficiali che si sgranavano frequenti: a gennaio del 1943 la commemorazione del ventennale della fondazione della Milizia; a marzo quella della fondazione dei Fasci di Combattimento e, ancora, quella dell’aeronautica. A questi impegni di rappresentanza si affiancavano iniziative che, nella loro apparenza di normali interventi di routine, mostravano che la guerra non era poi così lontana come ci si illudeva che fosse. Il commissario prefettizio ordinava ai cittadini di mantenere in ordine e di puntellare i rifugi privati perché fossero perfettamente agibili e, “per superiori e inderogabili necessità dell’approvvigionamento bellico del paese”, chiedeva la consegna di tutti gli oggetti di rame: targhe, pomi, maniglie furono rimossi.
I bombardamenti di Cagliari dei primi mesi del 1943 avevano scosso molte certezze sull’inespugnabilità della base; erano arrivati alla Maddalena ed erano stati aggregati all’arsenale militare operai trasferiti dal capoluogo che, consci ormai della pericolosità degli attacchi aerei che avevano ridotto in macerie il centro storico della loro città seminando panico e morte, scappavano spaventati al primo allarme cercando riparo nei rifugi. Ancora i maddalenini reagivano con calma, ridacchiavano vedendo la paura disegnarsi sul volto dei cagliaritani e ostentavano una sicurezza che però in molti era ormai solo di facciata, mentre si dirigevano, per ubbidire agli ordini, nei rifugi.
Ma le conseguenze dei bombardamenti di Cagliari erano solo un tassello della situazione che andava trasformandosi alla Maddalena; si diffondevano notizie, alimentate dai soliti bene informati, che gli alleati preparavano uno sbarco in Sardegna e alcuni elementi sembravano confermare le voci: erano stati arrestati e portati alla caserma di fanteria Regina Elena due soldati inglesi; si diceva che alcuni commandos angloamericani erano stati fermati in diverse zone costiere subito dopo un tentativo di sbarco, che su uno di questi era stata trovata una carta topografica in seta impermeabilizzata che riproduceva il profilo delle coste sarde. Anche la propaganda ufficiale contribuiva ad alimentare incertezze e paure: il giornale L’Isola evidenziava la ferocia con la quale i “banditi dell’aria” avevano attaccato, a Cagliari, non obiettivi militari ma la città e la popolazione civile, mostrando così ai maddalenini che non esistevano distinzioni fra obiettivi possibili; gli stessi cartelli propagandistici con il suggerimento “Taci il nemico ti ascolta”, assumevano un altro valore nella popolazione che sempre più spesso sentiva parlare di tradimento di alti ufficiali o di convogli navali affondati grazie a spie che si annidavano nelle stesse forze armate.
Su tutto gravavano le difficoltà della vita quotidiana: di giorno in giorno si evidenziava la penuria di beni alimentari sempre più difficili da reperire nella nostra città chiusa al traffico marittimo.
Questi elementi avevano convinto molti ad allontanarsi dall’isola nei primi mesi del ‘43: il 3 marzo il commissario prefettizio Lorenzo Manini chiedeva al capostazione di Palau di predisporre un aumento del numero di vagoni per persone e merci in quanto si prevedeva un forte esodo di famiglie dalla Maddalena verso i centri galluresi.
Proprio alla fine del mese di marzo anche Manini partiva per la Liguria per problemi di salute sostituito da Stefano Rocca che si trovò a gestire una delle peggiori situazioni della nostra storia.
Il 10 aprile, infatti, inaspettato, arrivò il finimondo; la piazzaforte che pareva imprendibile fu bombardata con precisione nei suoi punti strategici, l’arsenale militare, la rada dinanzi alla base, il Trieste alla fonda nella rada di Mezzoschifo, il Gorizia, ancorato a Porto Palma. Finito l’allarme agli increduli operai che uscivano dai rifugi si presentava quello che a qualcuno apparve come una sorta di straordinario, ma terribile, presepe. Il piazzale era disseminato di capok sventrato, di chiodi, legname, carbone, carta smeriglio, pezzi di ricambio e congegni. Le officine distrutte mostravano un inusuale irreale disordine. Le notizie peggiori venivano dalle due grandi navi che fino a quel momento avevano rappresentato la certezza di una difesa pronta e potente. Il Trieste affondava sono lo sguardo attonito della gente mentre le barelle con i morti e i feriti arrivavano alle banchine.
In serata circolava il conto approssimativo delle vittime militari, si ripetevano i racconti allibiti di chi aveva visto l’azione precisa e inaspettata degli aerei nemici: alla pietà per i poveri marinai periti nelle navi si aggiungeva quella per i civili maddalenini: Raimondo Altea, Quirico Dadea, Rosario Caucci, Stefano Uccioni e Nunzio Difraia.
I danni alla città erano pochi: qualche casa era stata lesionata, in campagna erano cadute delle bombe senza arrecare danni; la posta di Moneta, invece, era stata distrutta: rimanevano in piedi i muri di un piccolo magazzino usato per depositare i pacchi e, ancora intatta, la cassaforte; il piazzale di Faravelli, centrato da molti colpi, pareva arato. La popolazione finalmente capì che non era più tempo di tergiversare e che era necessario partire: questa volta l’esodo fu consistente, pur se ancora non obbligatorio. Su richiesta del comune, il vaporetto Gallura fece dei viaggi solo per gli sfollati nei giorni 11 e 13 aprile; convogli speciali furono richiesti alle ferrovie; Centogalli con la sua macchina stracarica portava famiglie intere nei paesi dell’interno; le barche isolane facevano la spola fra La Maddalena e Palau.
Il 26 aprile il segretario del comune, Egidio Casazza, dava cosi notizia dell’accaduto a Lorenzo Manini in convalescenza a Varazze Ligure: “Egregio avvocato, doverosamente vi informo delle condizioni del comune, dopo la incursione aerea nemica del 10 c. m. Appena dopo l’incursione il Comune, con il segretario politico, si è prodigato per dare l’assistenza ai sinistrati di frazione Moneta: sono stati distribuiti generi alimentari extra tessera ai sinistrati. Immediatamente dopo l’incursione si è verificato quanto facilmente si prevedeva: lo sfollamento. Circa 5.500 anime sono andate via per i paesi viciniori. Lo sfollamento ha carattere ancora facoltativo e non obbligatorio. Lascio a voi immaginare la confusione che si è creata in Comune per lo sfollamento. Il Comune è stato trasferito nei locali del ricovero E.C.A. ed i poveri assistiti sono stati trasferiti all’ospedale Garibaldi in attesa di una prossima destinazione forse a Luras o a Calangianus. Passato il primo periodo di grande confusione, il servizio comunale si sta normalizzando…………”
Quindi, se dobbiamo credere al segretario Casazza, 5.500 partirono nei giorni successivi al 10 aprile, ma tanti rimasero, limitandosi a sfollare dal centro abitato nelle campagne dell’isola o, con un ottimismo che oggi appare inconcepibile, verso la periferia del centro abitato. Una famiglia che abitava sulla piazza Garibaldi credette di avere risolto il problema trasferendosi nella parte alta di via Cairoli, seguendo l’esempio degli uffici pubblici che avevano occupato degli edifici situati in quella parte del paese, alla fine di via Balbo: forse la nuova sistemazione appariva lontanissima dalla sede abbandonata del Comune, in piazza Garibaldi, dalla quale distava, in realtà, poche centinaia di metri. Le autorità ricordavano bene le difficoltà dello sgombero del 1940, che fortunatamente era durato solo pochi giorni; ora tutto si riproponeva con la prospettiva di una lunga permanenza fuori dall’isola, con un problema che nel frattempo si era accentuato il sostentamento di tante persone allontanate dal loro lavoro abituale e dalle opportunità di reperire cibo che ognuno aveva cercato di crearsi, dall’orticello nel giardino, alle galline nel cortile o a casa, dalla piccola pesca nelle zone consentite, a qualche albero che stava per regalare i suoi frutti.
Fra le difficoltà da superare prima di dichiarare obbligatorio lo sfollamento, vi era quella di reperire, da parte dell’amministrazione, i locali per trasferire chi non aveva possibilità di pagare un affitto, i malati, i degenti nell’ospedale e nel ricovero degli anziani: basta pensare che ancora il 17 giugno il commissario prefettizio chiedeva al dottor Virdis un’indicazione precisa sulla destinazione degli ammalati da sgomberare e che solo il 13 agosto i ricoverati dell’ospedale Garibaldi poterono partire per Sassari con mezzi messi a disposizione dalla prefettura.
L’arcipelago fu sorvolato da ricognitori nemici il giorno successivo e il 13 (forse gli americani volevano assicurarsi dei danneggiamenti provocati); poi, a partire da questo momento, per quasi un mese una parvenza di calma sembrò tornare. Non ci furono altri bombardamenti, la tensione parve diminuire, gli abitanti rimasti esitavano ad assumere la decisione definitiva della partenza e pur dimostrando, ad ogni allarme, la paura che si ripetessero i terribili momenti vissuti il 10 aprile, molti mostravano estrema indecisione. Questa allentata tensione é dimostrata anche dal fatto che il commissario prefettizio si preoccupava di precettare alcuni muratori locali per far costruire nuovi rifugi a Due Strade come se la popolazione dovesse ancora rimanere in sede.
Per capire quali fossero i pensieri e le preoccupazioni dei maddalenini rimasti all’isola è bene affiancare ai documenti ufficiali alcune lettere scritte da privati a parenti e amici in quei mesi carichi di incertezze, paure e speranze: i protagonisti esprimevano questi sentimenti contrastanti con l’immediatezza e la sincerità dettate dal momento, a volte con enfasi, altre volte con estrema semplicità.
Dopo l’innocuo attacco di aerosiluranti del 14 maggio, il successivo attacco del 24 dello stesso mese diede un altro scossone alle speranze di un ritorno alla normalità. Caprera, Santo Stefano, Maddalena furono bersagliate: in città l’edificio comunale riportò danni, vetri e finestre del centro furono divelti, alcune case furono distrutte, altre seriamente danneggiate, i coniugi Laconi morirono sotto la roccia di un tafone che avrebbe dovuto proteggerli, diverse bombe caddero anche all’esterno della città.
Nei giorni immediatamente successivi al bombardamento del 24 venivano fatte brillare alcune bombe rimaste inesplose a Terralugiana e a Santo Stefano; il prefetto e, quindi, il commissario prefettizio avvertivano la popolazione del fatto che, per terrorizzare i civili, il nemico lanciava nuovi ordigni delle forme più strane “e ingannevoli quali penne stilografiche, matite, giocattoli, saponette”, si raccomandava soprattutto alle madri di famiglia perché ne dessero “istruzione ai loro bambini”, di non raccogliere nulla e, in caso di avvistamenti sospetti, di avvertire i carabinieri. Effetto simile doveva avere il successivo lancio di manifestini propagandistici fatti piovere sulla città dagli aerei nemici il 23 giugno: il commissario Rocca si preoccupava di comunicare al prefetto che le autorità civili locali avevano “operato in modo che i volantini non cadessero nelle mani dei cittadini”.
Era chiaro ormai che nessun riparo poteva garantire salvezza, né quelli ingenui usati da qualcuno che si accovacciava sono il letto, né quelli consigliati dalle autorità in caso di impossibilità di uscire di casa, quali le pareti presso i muri portanti e gli angoli situati sotto gli architravi lontani dalle finestre dalle quali potevano entrare delle schegge, né i ponticelli sulle vadine, fra i quali il più frequentato era quello di Rachela sotto il quale, fino a quel momento, molti abitanti di Due Strade si erano ritrovati per combattere insieme la paura riuscendo anche a distrarsi, nei momenti di calma, con racconti che qualche buontempone aveva sempre di riserva. I rifugi approntati per proteggere il personale dell’arsenale erano sufficienti per numero e grado di sicurezza purché li si potesse raggiungere nei tempi dovuti e la rapidità inattesa dei bombardieri americani il 10 aprile aveva dimostrato che non sempre ciò era possibile e qualche operaio era stato sorpreso troppo lontano dal riparo, si era accovacciato alla meglio sotto un carro abbandonato sul piazzale e solo dopo il primo passaggio aereo aveva potuto entrare nel rifugio, spinto dallo stesso spostamento dell’aria; altrettanto poteva dirsi peri rifugi privati quali quello scavato nella parete rocciosa sono i Tozzi (con un ingresso nel cortile della falegnameria di Ornano e l’altro presso l’Artiglieria) o quello scavato presso l’attuale Liceo Classico dagli allievi operai che si erano trasferiti dall’Arsenale militare in un caseggiato in quei pressi.
Entrando nei rifugi la gente aveva reazioni diverse: terrore, pacata indifferenza (vera o finta), bisogno di pregare. Si entrava di fretta e con altrettanta fretta si usciva per riprendere la normale attività dopo che il pericolo si era allontanato; eppure, almeno una volta, la concitazione non fu dovuta alla paura dei bombardamenti, ma ad un evento lieto e commovente insieme: il 30 maggio 1943, nella scomodità di un rifugio (indicato come A del Commissariato, nasceva un bambino. Cinque giorni prima, il 25 maggio, all’indomani del bombardamento del 24, era nata in condizioni simili una bambina, Anna Maria: forse per paura di affrontare il parto sotto le bombe la madre era stata portata dalla sua casa in un tafone di Guardioli dove la levatrice l’aveva assistita, per quanto possibile, al sicuro.
Il 22 giugno, il prefetto emanava, finalmente, un suo bando con il quale ordinava lo sfollamento: ma solo l’8 agosto il contrammiraglio comandante della piazza marittima, Aristotile Bona, dichiarava che tutti coloro che non avevano possibilità di trasferimento autonomo erano stati in qualche modo sistemati e quindi si poteva fissare al 20 agosto il termine ultimo per sgombrare “inderogabilmente” gli ultimi “civili tuttora presenti nel territorio del Comune, in esso comprese le campagne e le isole dell’estuario” Da quel momento chiunque fosse stato trovato nel territorio comunale senza il permesso di risiedervi in qualità di militarizzato o, se civile, di addetto ai servizi essenziali, sarebbe stato allontanato d’autorità e denunciato “a termini di legge”.
Ovviamente, per scoraggiare gli eventuali testardi, si stabiliva che, per. ritirare i “generi razionati”, sarebbe stata necessaria la tessera che autorizzava la presenza alla Maddalena.
L’ordinanza ebbe il suo effetto e molti di quelli che non si erano arresi alla paura di nuovi bombardamenti dovettero rassegnarsi. Ma con numerose eccezioni: rimasero le donne che, potendo dimostrare di avere terreni da curare, ricorrevano all’amicizia dei funzionari del fascio locali e ottenevano la qualifica di “donne rurali” e la conseguente autorizzazione a risiedere all’isola mantenendovi le famiglie; altre approfittarono del fatto che nessuno aveva interesse a controllare, nelle zone periferiche della città, le presenze irregolari casa per casa e cosi l’ordinanza di Bona, nella sua formulazione severa e apparentemente senza appigli, rimaneva per molti lettera morta. Le campagne nella parte settentrionale dell’isola e nelle zone ritenute più lontane dai possibili bersagli degli aerei si popolarono d’incanto: le casette fino a quel momento utilizzate solo nei periodi di vendemmia o come ripari temporanei, si animarono, mentre intorno riprendevano vita orticelli dimenticati e comparivano galline e anche maiali. Abbatoggia non fu mai così popolata: donne e bambini delle famiglie Favale, Acciaro e Ornano vivevano indisturbate vicino ai contingenti dei mitraglieri che proprio nella zona avevano la loro caserma.
La presenza di tante famiglie é provata dal numero delle morti e delle nascite di quel periodo: dal 10 aprile al 31 dicembre del 1943 furono annotati nei registri parrocchiali 42 morti di cui 18 donne (in queste cifre non sono compresi i militari e i militarizzati deceduti a causa dei bombardamenti); nel 1944 i morti furono 113 di cui 52 donne. Nello stesso periodo del ‘43 nacquero alla Maddalena e furono regolarmente registrati in comune 31 bambini, nel 1944 i nati furono 224: con una certa ironia uno di questi, venuto alla luce il 23 maggio 1943, fu chiamato non con il nome di battesimo (Ottavio Marcello), ma col nomignolo, che porta ancora oggi, di Guerrino.
Il centro della città rimase vuoto e silenzioso: durame la giornata gli uomini rimasti impiegati nella difesa o nei servizi connessi, restavano nei posti di lavoro e solo a tarda sera rientravano per strade deserte prive dei giochi dei bambini, sulle quali si affacciavano solo finestre chiuse e porte sbarrate. Nella casa vuota la cucina spenta e il silenzio che accoglievano il ritorno acuivano il senso di tristezza e di abbandono. Molti civili, essendo militarizzati, rientravano a casa tardi, avendo la possibilità di mangiare presso le mense comuni: altri, fra i quali i dipendenti di uffici pubblici, dovevano provvedere per loro conto alle necessità quotidiane non avendo ricevuto il permesso di aggregarsi alle mense militari; per loro il rientro a casa era ancora più triste: ad attenderli solo una tavola vuota e una cena consumata in silenzio. I soli fortunati erano quelli che potevano raggiungere le famiglie sfollate nella campagna.
Giovanna Sotgiu – Co.Ri.S.Ma