Quando il mondo passava da Caprera
“E’ una vera repubblica democratica e sociale. Non conoscono la proprietà: tutto appartiene a tutti. Non conoscono neppure gli abiti da toilette, tutti portano delle giacche di grossa tela con i colletti aperti, le camicie rosse e le braccia nude, tutti sono neri dal sole, tutti lavorano fraternamente e tutti cantano. In alto sulla roccia sta un piccolo mulino a vapore e quando funziona è una festa per tutti. Tutti se ne occupano, gli uni portano l’acqua, gli altri mettono sotto il fornello degli arbusti e delle radici di cui è ricca Caprera, altri stanno stesi sulle rocce in pose pittoresche, parlano di politica, delle passate e future imprese, e cantano. In genere questa piccola adunata a Caprera di ragazzi sani, forti e gloriosi, di cui ognuno s’è già reso famoso per qualche gesta di coraggio, mi ha rammentato le prime pagine del ‘Corsaro’ di Byron. Ma tra loro sta Garibaldi, grandioso, calmo, appena sorridente, l’unico lavato e l’unico bianco in questa folla d’uomini neri”.
Così il 54enne Bakunin descrive la sua visita a Caprera, dal 19 al 23 gennaio 1864, nell’isoletta sulle bocche di Bonifacio diventata, dopo l’impresa dei Mille, la capitale morale dell’Europa. Bakunin scrive di un Garibaldi ancora zoppicante per quella che il Generale chiamerà la “carezza di regi avvoltoj” – le due palle di carabina sparategli il 29 agosto 1862 contro un piede dal bersagliere spezzino Luigi Ferrari – ma anche “forte come un leone”, instancabile contadino in un giardino “tutto seminato dalle sue mani sulla roccia e tra la roccia”, tra aranci, limoni, mandorli, viti, fichi e tanti fiori. A ricordare che quel barbuto contadino quattro anni prima aveva consegnato nelle mani del re sabaudo il Regno di Napoli – terzo stato d’Europa con una storia di 8 secoli ed una cultura di 3mila anni -, ci sono i carretti che arrancano sulle stradine di Caprera scaricando le centinaia di lettere che giungono da ogni parte del mondo. Sono di intellettuali, politici, artisti, patrioti. Ma anche di semplici ammiratori, molti dei quali donne. Straniere come l’inglese Fanny Maxwell (“Gli occhi delle donne sono stati pieni di lagrime nel leggere le azioni intrepide e gloriose di Garibaldi e della banda” scrive). Ma anche italiane.
Come l’irrequieta contessa piemontese Maria Martini Giovio della Torre, ribelle figlia del conte Carlo Camera di Salasco, il generale che diede il nome all’armistizio del ‘48 con gli austriaci, che aveva conosciuto Garibaldi a Londra facendone il suo idolo. Eccentrica pasionaria garibaldina – che dopo aver partecipato all’impresa dei Mille, aveva preso a vestirsi con calzoni militari e scudiscio ed era diventata un rumoroso e spesso scomodo sponsor del Generale -, nel 1865 gli annuncia per lettera la sua intenzione di suicidarsi: “Voi perderete in me un cane fedele”, “ebbi per voi un culto, un’adorazione! Invidiavano voi e me; e fecero di tutto per allontanarci. Io soffrii tutto senza addolorarvi. Morendo, posso giovare; viva non lo posso”. Al che Garibaldi cerca di calmarla: “Perché avete deciso di morire ? Ditemelo e ditemi ciò che io posso fare a sollievo vostro, perché io vi amo sempre, bella ed infelice donna! Rispondetemi, subito, ve ne prego”. E lei, calmata dalle attenzioni del suo eroe, risponde: “In qualche angolo della vostra Caprera, sopra una roccia, fate scrivere il nome di Maria. Esso vi farà sovvenire di chi vi amò al di sopra di ogni cosa”, “aiutate questo infelice paese; se non lo fate voi, chi lo farà?”.
E a Garibaldi, a Caprera, scrivono non solo nobili e ricche borghesi ma anche una intera generazione di popolane cresciute a pane e rivoluzione. Non a caso è proprio di quegli anni il quadro “Le cucitrici di camicie rosse” di Odoardo Borrani: un interno di un salotto con delle signore intente a cucire le bluse per le imprese del loro eroe. Molte gli scrivono solo intestando “Giuseppe Garibaldi – Caprera” e l’augusto destinatario, tartassato dalle multe, si trova costretto a pubblicare un annuncio sui giornali per chiedere di affrancare le buste. Ad attorniare l’uomo più famoso del mondo, in quello sperduto angolo di mediterraneo, una corte tanto trasandata quanto ardimentosa: quella dei più fedeli garibaldini, capaci di tradirlo (essendo lui astemio), solo per una fugace sortita in qualche locanda della Maddalena e sempre pronti a seguirlo ogni qualvolta una nuova impresa lo trae fuori da quell’auto-esilio di rosei graniti, lentischi, mare, vento, belati di pecore, in cui si rinchiude ogni volta, per non dover spartire i suoi ideali con l’intrigo politico.
Nessuna donna viene descritta da Bakunin in quella colorita brigata che canta a squarciagola “Va’ fuori d’Italia! va’ fuori ch’è l’ora! Va’ fuori d’Italia! va’ fuori, stranier”, l’Inno di Garibaldi che il condottiero aveva chiesto di musicare nel 1858 al genovese Luigi Mercantini, l’autore della Spigolatrice di Sapri, per far marciare con ardimento i suoi Cacciatori delle Alpi e quindi i suoi Mille. Teresita, la ventenne figlia di Garibaldi e Anita – che tre anni prima ha sposato (con una collana di pietre preziose donatale dal re) Stefano Canzio, garibaldino della prima ora e poi ombra del suocero -, da pochi giorni ha partorito, a Genova, il secondo dei suoi 16 figli (4 moriranno in tenera età) che poi comincerà a far nascere a Caprera da quando, nel 1866, con l’arrivo della quarta figlia Annita, prenderà come balia l’astigiana Francesca Armosino. Teresita è selvaggia e volitiva, come la madre Anita.
E lo rimane anche quando è già madre di 4 figli, come racconta Petronilla Pilesu, tra le maddalenine più devote di Garibaldi: “Rammento che Teresita aveva un gran desiderio di sparare al bersaglio contro il tricorno del prete che ci sposò in casa, e che girava intorno col fucile imbracciato per alzare il tricorno in aria e sparargli al volo. Ma il prete le disse ‘fate pure, io lo dirò a vostro padre’: bastarono queste parole perché Teresita deponesse subito quel bizzarro pensiero“. Ma Teresita non è così poco accorta da non capire che il padre, in fatto di donne, è tanto irruente quanto incauto, lui che considera la femmina umana la “più perfetta delle creature”: lo si è visto con la storia della 18enne marchesina Giuseppina Raimondi, che il 52enne Garibaldi sposa il 24 gennaio 1860, nella cappella privata della tenuta Raimondi, a Fino Mornasco, ripudiandola poi al termine della cerimonia, quando un uomo gli consegna un biglietto anonimo con le prove che la sposina è incinta (ad agosto partorirà infatti un bambino nato morto) del giovane tenente bergamasco Luigi Caroli, suo amante (che poi inutilmente tenterà di entrare tra i Mille e finirà quindi i suoi giorni, nel 1865, in una prigione siberiana, arrestato dai russi mentre combatteva in Polonia).
Garibaldi ha conosciuto la bella Giuseppina sette mesi prima, lui sui campi di battaglia della seconda guerra di indipendenza. Lei, avvenente portaordini dei patrioti lombardi, riesce a convincerlo a marciare su Como. Poi, ad armistizio firmato, a novembre, mentre a Genova sta per imbarcarsi per Caprera, dove lo attende la figlioletta neonata avuta dalla sua serva di Caprera, l’analfabeta Giuseppe Ravello, un biglietto della marchesina (“Ti amo, fammi tua”) lo convince a raggiungerla di gran carriera. E, caduto da cavallo, a lasciarsi mettere a letto per tre settimane nella villa della sua bella, sotto le sue amorevoli cure (il che non esclude che la marchesina fosse in realtà incinta proprio di lui). Poi, la tragica rivelazione sul sagrato della chiesa. Il tempo, quindi, di ingiuriare la sposina traditrice e Garibaldi galoppa via per non più rivederla. Ed intenta una causa legale per il divorzio che otterrà solo 20 anni dopo.
Poco male perché c’è chi sostiene che lo stordimento causato in Garibaldi da quell’episodio – unito alla delusione per la cessione di Nizza alla Francia ordita da Cavour per permettere l’annessione della Toscana e dell’Emilia Romagna – gli avrebbe fatto rompere gli indugi nel guidare la spedizione in Sicilia (anche perché Cavour, che nel frattempo tesseva una rete organizzativa che andava dai rivoltosi siciliani alla marina britannica, pensava di mettere alla sua guida proprio un altro patriota nizzardo, Ignazio Ribotti). Il Garibaldi che incontra Bakunin, in quel 1864, è quindi il Vate di Caprera fermato per due volte dalle ragioni di Stato sabaudo nelle sue avanzate vittoriose: prima a Teano dai modi bonari del re, poi sull’Aspromonte da quelli ben più spicci del premier Rattazzi, che gli fa sparare addosso e lo fa arrestare con tutto il suo stato maggiore. Primo a soccorrere il generale azzoppato è Rocco Ricci Gramitto, che lo libera dello stivale che poi Garibaldi gli regala per riconoscenza (oggi è al Museo del Risorgimento al Vittoriano).
Gramitto è lo zio di Luigi Pirandello. La sorella di Gramitto, Caterina, nel 1860 incontra e si innamora in Sicilia di Stefano Pirandello, un carabiniere genovese arruolato tra i Mille, che sei anni dopo diventa così il padre del futuro Premio Nobel. Nel 1910 Stefano Pirandello scriverà alle sue nipotine, figlie della primogenita Rosalia, sorella di Luigi: “Ora il governo dell’ineffabile Giolitti ci ha ricompensati con una pensione di 25 centesimi al giorno dopo trascorsi 49 anni! Però la nostra ricompensa, più che dai 25 centesimi l’abbiamo ricevuta dalla nostra coscienza”. Ed anche i garibaldini che Bakunin descrive nella “corte” di Caprera sono tutti reduci dei Mille e alcuni anche dell’umiliazione dell’Aspromonte. Ci sono i due factotum della casa Bianca: il 40enne Giovanni Basso, sempre a fianco di Garibaldi fin dalle battaglie del Brasile, e il 53enne Giovanni Froscianti. Poi c’è Luigi Gusmaroli, anch’egli 53enne, che alla notizia dell’impresa dei Mille, aveva gettata la tonaca di parroco di un paesino mantovano per accorrere in Sicilia, quindi aveva seguito Garibaldi a Caprera e aveva anche sposato una maddalenina e generato due figli. Leggenda vuole che sia stato Froscianti, o forse Gusmaroli, o ancora un pastore maddalenino, Giacomo Simone, la cui barba venne ossigenata da Teresita, a fare da controfigura a Garibaldi ingannando le vedette delle lance e delle navi da guerra inviate da Rattazzi per presidiare l’isola ed impedire al vecchio eroe di raggiungere i figli Menotti e Ricciotti già sul continente e mettere in pratica la sua minaccia di “O Roma, o Morte!”.
Mentre nei binocoli i regi guardiani vedono un finto generale in poncho e fez passeggiare davanti alla Casa Bianca, quello vero, con tutta l’agilità che gli permette l’avanzata dell’artrite, aiutato dalla confinante inglese Emma Collins (che l’anno dopo cederà a Garibaldi, grazie ad una colletta dei suoi amici inglesi, anche il suo possedimento, per fare di Caprera l’esclusivo reame dell’eroe) e dal genero Stefano Canzio che gli mette nelle mani il remo di una pagoda, fugge e si avvia a guidare i 45 giorni della disastrosa campagna dell’Agro romano. “Di tante rischiate imprese che ho tentato in vita mia, la più ardua e la più bella, e di cui sentirò un certo vanto finché campi, è codesta mia fuga da Caprera” scriverà all’amico Benedetto Cairoli, patriota garibaldino, figlio di quella Adelaide Cairoli che Garibaldi venera come la madre della patria (ha perso due figli garibaldini nella battaglia di Varese e nell’impresa dei Mille ed altri due ne perderà dopo la campagna dell’Agro romano, sopravvivendo solo Benedetto, futuro presidente del Consiglio). Adelaide era accorsa alla fortezza di Varignano, nell’autunno del 1862, per prodigare le sue cure al generale ferito sull’Aspromonte, insieme all’amica Laura Solera Mantegazza, entrambe le più famose patriote – e finanziatrici – in Lombardia delle imprese garibaldine.
E, ancora, nel romitaggio di Caprera, Bakunin trova Guerzoni, lo storico di Garibaldi, che funge da anello con Mazzini, il 29enne Francesco Bideschini, ufficiale al Volturno, maggiore sull’Aspromonte, poi ancora in Trentino (dove alla Bezzecca, morirà anche suo fratello Enrico), figlio del conte Giuseppe Bidischini dall’Oglio che non esita a lasciare il commercio della seta in Turchia per andare a combattere nel 1849 per la libertà delle native Venezie. Al suo fianco anche il figlio Augusto, che morirà per le ferite riportate e la figlia Eloisa, che poi perderà il marito Pietro Lavagnolo tra i Mille e che, su incarico del governo piemontese, cercherà poi di convincere Garibaldi a lasciare l’Italia dopo la ferita in Aspromonte. E ci sono anche i due figli di Anita e Garibaldi: Menotti e Ricciotti, all’epoca 24enne il primo – anch’esso ferito in Aspromonte – e che 4 anni dopo sposerà una sorella di Bideschini, la 16enne Francesca Italia; il secondo 17enne, cresciuto a Londra sotto la protezione di due delle amiche inglesi di Garibaldi, Emma Roberts – con la quale nel 1854 a Londra Garibaldi ebbe una relazione che poi divenne di stretta amicizia negli anni – e Jessy White, amica dell’esule Mazzini.
Non c’è invece, quando Bakunin visita Garibaldi, il 41enne Jacopo Sgarallino, livornese, con il fratello Andrea tra i Mille, perché sta combattendo con le camicie rosse in Polonia. Garibaldi, figura troppo ingombrante, i polacchi non l’hanno voluto per guidarli (anche se l’anno dopo Garibaldi declinerà l’invito fattogli da Lincoln in persona di comandare l’esercito dell’Unione contro i secessionisti del Sud!). Garibaldi, a Bakunin, esprime tutto il suo rammarico: “In questi ultimi tempi la vita m’è venuta a noia, io mi separerei volentieri da lei, ma vorrei morire in modo utile alla patria e alla libertà di tutti i popoli. Intendevo partire per la Polonia, ma i polacchi mi fecero dire che io sarei stato inutile là e che il mio arrivo avrebbe causato più danno che giovamento. Perciò ho rinunciato. Del resto io stesso ammetto che sarò più utile a loro qui che non là. Se faremo qualcosa in Italia, ciò sarà proficuo anche per la Polonia”.
Ma quel “dolore profondo e nascosto” di cui Bakunin parla è anche quello di un “uomo ormai anziano dopo aver dedicato tutta la vita alla liberazione e all’umanizzazione dell’umanità”. E’ quello del neo deputato, già amareggiato dalla nascente questione del Mezzogiorno, tre anni prima, il 18 marzo 1861, aveva mandato al diavolo un impallidito Cavour nel suo primo discorso alla Camera (“… io domando ai rappresentanti della Nazione se, come uomo, potrò mai stringere la mano a colui che mi ha reso straniero in Italia”).
E’ quello di uno scopo non raggiunto: Roma, senza la quale l’unità d’Italia non può dirsi completata. Il sogno che Garibaldi continua ad evocare anche spaccando le zolle di terra, soccorrendo un agnello perduto (tutta una notte lo terrà accanto al suo letto tendendogli sul muso una spugna intrisa di latte, il giorno dopo portandoselo in braccio per tutta l’isola in cerca della madre), accudendo l’asinello che chiama Pio IX (ma tra i somarelli del Garibaldi allevatore – arrivò ad averne 60, insieme a 150 bovini, 400 polli, 200 capre, 50 maiali – c’erano anche ciuchini di nome don Chico, alias Francesco Giuseppe, Oudinot e Napoleone III…). O ancora compilando i suoi “Quaderni agricoli”, quando tra gli anonimi appunti sui contratti con i pastori, il registro del bestiame e le abitudini delle api spuntano le sue lucidissime annotazioni politiche. O anche standosene seduto su uno scoglio a ripararsi la camicia rossa.
O ad attaccarsi i bottoni ai vecchi jeans. Impegnato in quest’ultimo compito lo scopre con sorpresa il duca di Sutherland mentre scruta con il binocolo da una delle finestre della Casa Bianca. Il ricco duca inglese, insieme alla moglie Anna, è uno dei più assidui frequentatori dell’eremo garibaldino. Perché l’alta società europea, dopo l’impresa dei Mille, fa di Caprera una meta di pellegrinaggio, spesso però rimanendo delusa nel ritrovarsi di fronte non l’ardimentoso esaltato dalla stampa ma uno spartano mangiatore di pecorino ed una altrettanto disadorna dimora di pietra che, per accogliere gli ospiti, si è ampliata con aggiunte che oggi definiremmo container, di legno e di lamiera, dono di Felice Orrigoni che nell’impresa dei Mille aveva guidato il piroscafo Franklin, battente bandiera americana per sviare i borbonici, con cui Garibaldi, dopo Marsala, era sbarcato in Calabria. Ma c’è anche chi, come Anna di Sutherland, rimane affascinata dal lato intimo del condottiero, che aumenta la devozione e la tenerezza che le donne inglesi gli tributano. Lei, la bella Anna, stravede per Garibaldi, come d’altronde tutte le dame inglesi (eccetto la regina…). “Vi dono ciò che ho: un vero culto per la vostra bella vita” gli scrive. E adorante è anche la suocera, la vecchia duchessa di Harriet, che arriva a confidare all’eroe di pensarlo anche quando è in chiesa. Sul loro yacht Ondina i duchi di Shuterland accompagnano Garibaldi ad Ischia, nel giugno 1864, dove per due mesi cura con le acque termali i postumi della ferita dell’Aspromonte ma anche i crescenti dolori dell’artrite.
Con lui due medici siciliani, già combattenti dei Mille e sull’Aspromonte: Giuseppe Basile ed Enrico Albanese (cui toccò poi il compito di imbalsamare il cadavere di Garibaldi, tradendo le sue ultime volontà). Ad accompagnarlo anche il figlio Menotti, Basso, Bideschini, Guerzoni, Sgarallino: la sua “guardia” che in primavera lo ha scortato nel trionfale viaggio in Inghilterra, con tanto di sfilata tra ali di folla a Londra che tanto imbarazza la Corona (e un fuggevole incontro con Mazzini), che rafforza il mito di Garibaldi oltremanica, peraltro già consacrato dalle corrispondenze del Times dalla Sicilia e dagli articoli di Victor Hugo, George Sand, Karl Marx e Friedrich Engels e da una fiorente industria del merchendasing, che non tarda a contagiare anche l’Italia: dalle statuine del condottiero cavallo, al profumo dall’aroma “irresistibile”, dai biscotti “palle di Garibaldi” ai foulard, dai segnalibri alle pipe. E ancora righelli, ventagli, cammei, miniature, medaglie, busti, fazzoletti. Il pino che il generale pianta nella sua visita al poeta Alfred Lord Tennyson, sull’Isola di Wight, è spoglio dopo pochi giorni per i tanti ammiratori che ne strappano un rametto per ricordo.
La moglie di un deputato, Mary Seely, che ospita il generale nella sua casa, gli chiede in dono il fazzoletto che porta al collo e lo visiterà anche a Caprera. Anche i protestanti inglesi omaggiano il proverbiale “mangiapreti” dandogli una Bibbia. Una cronaca inglese racconta di “signore che gli chiedevano baci e ciocche di capelli come ricordo” con il generale Turr, di guardia a Garibaldi, “spazientito mentre l’eroe, con un pettine, preparava i boccoli”. E sul romantico aspetto leonino dell’eroe anche il corrispondente del London Times infioretta: “Ho avuto la mia prima intervista con il disinteressato ed eroico liberatore d’Italia vestito di una camicia rossa, un paio di pantaloni jeans e vecchi stivali. Il più grande patriota dai tempi di Washington pettinava, in piedi davanti allo specchio, i suoi lunghi, fini capelli”. E tale è il rispetto per le sue imprese che anche una rivista satirica come il Punch, che disegna Pio IV e Napoleone III come degli straccioni, lo esalta.
Per Teano parla dell’incontro di “due re”, con Vittorio Emanuele che cavalca verso il trono mentre Garibaldi “prende possesso di un trono più alto e di una più nobile corona”. D’altronde se leggenda vuole che l’impresa dei Mille sia stata finanziata dalla massoneria di Edimburgo (piastre turche pari ad un valore attuale di milioni di dollari custoditi da Ippolito Nievo), storia certa sono i finanziamenti di Lady Anne Isabelle, vedova di Byron e dell’altrettanto facoltosa Emma Roberts e le sottoscrizioni che tra i tanti donatori vedono anche Charles Darwin e il duca di Wellington, le mogli di Palmerston, Gladstone e Shaftesbury e Florence Nightingale, mentre gli operai dei cantieri di Glasgow e Liverpool donano le loro ore di straordinario. E se in Italia, a Firenze, la poetessa Elizabeth Barrett Browning verseggia nel 1860 in onore dell’eroe leonino, un’altra inglese, più concretamente guerreggia per lui: Jessy White, la battagliera infermiera dei Mille. Quando la servetta Francesca Armosino arriva quindi a Caprera, in quel 1866, al seguito di Teresita, Garibaldi ha 56 anni e lei 20 ed è una ragazza madre.
Ha lasciato la sua figlia della colpa in un paesino astigiano ed approda a Caprera portando in dote la sua fermezza contadina ed una dedizione assoluta per quel nuovo padrone tanto importante. Ben presto mette un freno non solo alla confusione cameratesca della Casa Bianca – che i garibaldini accettano a denti stretti – ma anche alle avventure dello stesso Garibaldi con le giovani isolane o le avvenenti visitatrici che fanno visita al Vate di Caprera, mischiandosi nella schiera di emissari del re, dei movimenti rivoluzionari europei, delle associazioni operaie, artisti, intellettuali, giornalisti. Teresita è riuscita a fare allontanare da Caprera Giuseppina Ravello e la sua bambina che comunque crescerà alla Maddalena fino ai 9 anni detta Anita ma con il nome di Anna Maria Imeni e che poi Garibaldi affiderà all’amica scrittrice Maria Espérance von Schwartz – una sorta di “Anita raffinata”, esuberante e passionale, l’unica che amò Garibaldi ma rifiutò le sue proposte di matrimonio -, che farà educare quella che è una piccola selvaggia in un costoso collegio svizzero e che, 16enne, raggiunto a Caprera, nel 1876, quel padre sul quale aveva tanto favoleggiato (ma ormai artritico e paralizzato), morirà improvvisamente, forse per un’infezione intestinale o un’insolazione.
Una tragica morte che Francesca Armosino userà per infangare la reputazione della cosmopolita Schwartz visto che la figlia Clelia, all’epoca bambina di 8 anni, nel suo bestseller pubblicato 73 anni dopo, “Mio padre”, parlerà della scrittrice come di una “tedesca innamorata e feroce”, responsabile della “pietosa avventura della bimba Anita”. Ma se Teresita avversa il progetto del padre di sposare Giuseppina Ravello, asseconda invece le crescenti intimità che prende ad avere con Francesca Armosino (che verranno coronate, il 16 febbraio 1867, con la nascita di Clelia, concepita prima della battaglia di Bezzecca; seguita nel 1869 da Rosa, morta a 18 mesi mentre il padre combatteva le sue ultime battaglia in Francia, e nel 1873 da Manlio). E, con fedeltà assoluta e dolce fermezza, Francesca diventerà la indiscussa padrona di Caprera, imparerà anche a leggere e scrivere per curare la sempre crescente corrispondenza di Garibaldi, gli sarà vicina nei suoi anni più difficili: quelli della vecchiaia, resi amari da una artrite che andrà facendosi deformante.
Lei – e soltanto lei – finirà per accudire, pulire, massaggiare, vestire con il leggendario poncho ed il fez ricamato il corpo ormai immobilizzato del Generale, unico conforto che poteva dare alla sua anima delusa. Eletto deputato nel 1874, da un anno dopo ormai paralizzato, Garibaldi si dimetterà nel 1880 in segno di protesta: “Tutt’altra Italia io sognavo nella mia vita, non questa miserabile all’interno e umiliata all’estero ed in preda alla parte peggiore della nazione” le sue parole di condanna. Il 1880 è anche l’anno in cui Garibaldi ottiene finalmente il divorzio dalla Raimondi, dopo una strenua battaglia legale (tanto che arriva ad inoltrare una supplica al re in carta bollata da una lira, come un semplice cittadino) e può sposare Francesca, dopo 14 anni di convivenza. Due anni dopo, nel gennaio 1882, lei gli è a fianco per il suo ultimo viaggio a Napoli e in Sicilia. La folla accoglie il passaggio del vecchio eroe in un silenzio adorante, per non disturbarlo. Visto che appare sconveniente farlo in pubblico, Francesca concede a Menotti quello che considera un suo “privilegio”: spingere la sedia a rotelle di Garibaldi, donata da operai inglesi, e sollevarlo negli spostamenti.
Ad aprile il ritorno a Caprera. Già da settembre Garibaldi ha dettato le sue ultime volontà in un documento che è stato controfirmato da Francesca. Vuole che il suo corpo, vestito dalla camicia rossa, venga fatto bruciare su una pira “omerica”, “appoggiato al muro verso tramontana con volto scoperto”, ossia non voltato verso l’Italia ma verso la sua Nizza, un pizzico delle ceneri deposto in una urna di granito (che dovrà custodire anche le ceneri di Francesca), da deporre sotto l’acacia che domina sulla tomba della loro bambina morta in tenera età. Muore alle 18.22 di un venerdì, il 3 giugno 1882, all’età di 75 anni. Si scatena una tempesta di telegrammi da tutto il mondo per impedire che quel corpo venerato venga cremato. E una tempesta, vera, si abbatte prima dei funerali a Caprera, degni di un capo di Stato, presenti ministri, generali, garibaldini, nobili e popolani, quando si appronta la tumulazione in un sarcofago del suo corpo imbalsamato (come vollero i figli Menotti e Ricciotti, sollevando le dure proteste di Carducci: “Bruciate tutti i vostri poeti, me il primo….
Non vogliono che l’eroe bruci sulla catasta omerica nel cospetto del mare e del cielo. Lo vogliono trasportare a Roma per fare delle processioni, del chiasso, delle frasi. Oh, ora capisco perché il popolo italiano non ebbe mai vera epopea!”). Un violentissimo nubifragio impedisce infatti che si svolga la cerimonia, le eleganti uniformi di gala sferzate dal vento, gli ombrellini delle signore indifesi contro la pioggia scrosciante e ben mille persone, tra cui anche nomi altisonanti, costrette a passare la notte all’addiaccio per poi, alle prime luci dell’alba, placati i marosi, lasciare l’isola in fretta e furia. Ma ciò non impedisce ai più fanatici di portarsi via, quale ricordo, tutti i legnetti della catasta che doveva servire per il rogo del corpo del loro Vate. Francesca morirà nel luglio 1923 a Caprera, 77enne e qui verrà sepolta (dove riposa anche Teresita, unica dei figli di Anita). Poche settimane prima, sull’isola, era sbarcato Ricciotti.
Ma non per visitare l’ultima moglie di sua padre. Il 2 giugno, il 78enne Ricciotti, con barba bianca e stampelle (morirà un anno dopo), aveva accompagnato Benito Mussolini davanti alla tomba del padre ed aveva pronunciato un discorso che esaltava “la storica connessione fra le camicie rosse e le camicie nere”. Il 29enne figlio Ezio, autore del proclama ” Fascismo garibaldino”, è plenipotenziario del Duce in Messico e Perù. Ha sposato l’ereditiera american Speranza Mc Michael che, grazie ai legami in Vaticano e all’ambasciata, salverà numerosi ebrei. Ad Ezio si deve la realizzazione del monumento ad Anita Garibaldi, inaugurato nel 1932 sul Gianicolo per accogliere i suoi resti che 73 anni prima, nel 1859, il padre Ricciotti, 12enne e senza nessun ricordo della madre, morta quando aveva 2 anni, insieme al fratello e al padre erano andati a riesumare dal cimitero di Mandriole, per trasferirli a Nizza. Il fratello Sante, 39enne, dal 1925, in Francia, animerà invece le antiche associazioni garibaldine in chiave antifascista.
Dopo la morte dei fratelli Teresa e di Menotti, scomparsi entrambi nel 1903, Ricciotti aveva avviato una battaglia legale per non riconoscere come legittimi eredi i figli di Francesca, che peraltro rimarranno senza discendenza. Non era stato vicino al padre morente, a differenza di Menotti, anche se era rientrato in Italia dall’Australia dove si era trasferito. Si era allontanato una decina di anni prima da Caprera visto che non soffriva la presenza della nuova famiglia del padre. A Londra aveva conosciuto Constance Hopcraft, che gli darà dieci figli, più altri cinque adottati dopo il terremoto di Messina. Fervente interventista allo scoppio della prima guerra mondiale, perderà due figli poco più che ventenni nella battaglia delle Argonne.
Gli speroni in metallo, cesellati con motivi allegorici con fibbie e rondelle e realizzati nel 1876, furono portati a Caprera nel 1946 dalla casa della famiglia Garibaldi all’Ardenza (Livorno), per essere esposti nella casa museo.