Nelle isole colonizzazione senza infeudazione
Altri tentativi di ripopolamento dei terreni incolti e spopolati e di fondazione di nuovi villaggi vennero attuati anche all’interno di feudi preesistenti, e al di fuori dello schema della Carta Reale spagnola del 1686. Anche questi tentativi subirono le opposizioni e le azioni di contrasto che avevano reso più che difficili e addirittura impossibili i tentativi messi in atto. Per quel che riguarda le isole Intermedie, invece, i ragionamenti che si sono fatti sul loro futuro nascevano dal fatto che esse erano già state colonizzate da pastori di altra nazione al di fuori di qualsiasi processo di infeudazione, e che si doveva fare i conti con tale preesistenza. Il lungo processo decisionale su cosa fare delle isole si sostanziò nelle questioni relative alla loro infeudazione e al mantenimento o meno dei pastori insediatisi indisturbati in quei territori da molti decenni, e si intrecciò con l’evoluzione altalenante dei moti antigenovesi in Corsica nel quarantennio 1729-1769.
Gli avvocati fiscali: infeudazione se i corsi non si assoggettano
Già alla fine del 1736 a Torino due regi avvocati fiscali, certi Dani e Cani operanti il primo nella stessa Torino e l’altro a Cagliari ma in quel momento presente nella capitale continentale del regno, elaborarono per il re una “rappresentanza” in cui ipotizzarono la infeudazione delle isole per colonizzarle con una nuova popolazione e reintegrarle, così, nel patrimonio del re. Lo stesso avvocato Dani riprese l’argomento nell’aprile del 1748, in una informativa alla Segreteria di stato. In quest’ultima occasione l’alto funzionario nel suo parere prese in considerazione le condizioni interne della Corsica, nelle quali aveva iniziato ad impegnarsi il regno sardo con la decisione di Carlo Emanuele III, in convenzione con l’Austria (febbraio 1748), di inviare un corpo di spedizione che fu operativo nell’isola dal maggio dello stesso 1748. All’avvocato Dani non sfuggiva la particolarità che i padroni delle bestie, anche se con quote di proprietà sempre più ridotte, erano i maggiorenti bonifacini pro Genova e che i pastori ne erano “clienti”. La soluzione proposta considerava le due possibili situazioni relative all’accettazione o meno da parte dei pastori della giurisdizione sarda e al riconoscimento di un fitto per l’uso dei terreni delle isole, e quindi alla sua corresponsione alla Intendenza Generale di Cagliari. In caso di rifiuto, senza prevedere esplicitamente l’evacuazione forzosa dei pastori corsi, ipotizzava quale soluzione la: “infeudazione [delle isole] a persone fidate che ne procurassero la popolazione con persone fedeli, il che gioverebbe molto per impedire i sfrosi e contrabbandi”. Di fatto si sarebbe trattato di praticare il sistema del chiodo che scaccia chiodo.
Quando l’evoluzione della situazione corsa, sotto la spinta dell’azione di Pasquale Paoli rientrato nella sua isola nel 1755, si fece più significativa, ci fu la ripresa e una forte accelerazione dello scambio di memorie, pareri e progetti sulle isole tra i due poli del governo sardo, Torino e Cagliari. Questo dibattito veniva raccolto e portato a sintesi dal grande ministro per gli affari della Sardegna, Giovanni Battista Bogino. A proposito della ipotesi di infeudazione, gli interlocutori dovettero inizialmente fare i conti con il quesito pregiudiziale sulla condizione patrimoniale delle isole: sono del demanio del re o fanno parte, come tutta la Gallura, del feudo d’Orani della famiglia spagnola De Silva Fernandez? L’interrogativo non era peregrino, giacché, secondo il diritto feudale, i diritti del mare come quelli delle isole prospicienti le terre dei baroni erano compresi nella concessione, ma solo se esplicitamente specificato negli atti di infeudazione, trattandosi di una “regalia riservata”. In questo caso la soluzione al quesito fu registrata, nel febbraio 1767, all’interno di un ponderoso memoriale della Reale Giunta patrimoniale, che per esporre le proprie proposte sulle isole dovette preventivamente definire il fatto pregiudiziale. La Giunta, a tal proposito, diede atto che il marchese d’Orani, appositamente investito della questione, non riuscì a esibire il titolo utile a rivendicare la concessione delle isole, per cui esse dovevano essere intese appartenenti al regio demanio.
Il parere del marchese Paliacho della Planargia: tre feudatari per tre isole più tre.
Ancora sub judice il quesito patrimoniale sulle isole, l’autorevole marchese Ignazio Paliacho della Planargia, reggente giubilato in quanto già reggente di toga nel Supremo Consiglio di Torino, presentò il suo parere sul complesso della questione maddalenina tra dicembre 1765 e gennaio 1766. Il suo giudizio particolarmente preoccupato sulla situazione della Corsica, lo orientò ad una proposta radicale: i corsi vanno allontanati per evitare reclami di dominio genovese e francese sulle isole. L’allontanamento dei corsi, secondo Paliacho, avrebbe potuto teoricamente avvenire per accordi diplomatici, ma la repubblica genovese non avrebbe trattato, vista la rottura dei rapporti tra i due stati. In pratica la cacciata dei pastori corsi avrebbe dovuto essere compito dei nuovi feudatari cui concedere le isole. Il marchese della Planargia proponeva, infatti, di fare tre infeudazioni separate a tre soggetti forestieri diversi, concedendo a ciascuno di loro una delle isole maggiori (Maddalena, Cabrera e S. Stefano) abbinandone una più piccola, e integrando la concessione feudale con un titolo. Proponendo il paragone dell’isola di Capraia, con le sue 500 famiglie e 3000 abitanti che vivevano bene della sola attività marittima, ipotizzava che i nuovi concessionari potessero sostituire i pastori corsi con una popolazione marinara, che con la loro attività avrebbe esercitato commerci regolari soppiantando quelli di contrabbando. Qualora non si fossero trovati feudatari forestieri, le infeudazioni avrebbero potuto essere fatte a favore di cavalieri sardi. Quelli di Tempio sarebbero stati da preferirsi perché detentori del maggior numero di “clienti“ e di dipendenti, ma gli stessi, in quanto grossi proprietari di bestiame e di formaggi, potevano non essere interessati alla estirpazione del lucroso contrabbando, a meno che il loro senso di fedeltà al sovrano non li avesse portati se non a combatterlo a fondo almeno a diminuirlo. I pastori corsi potevano restare con il giuramento di fedeltà al re e al feudatario e distribuirsi tra le isole con i sardi introdotti dai concessionari.
La Giunta Patrimoniale: infeudazione necessaria ma difficile
A fine febbraio del 1766, a distanza di poche settimane dal documento del marchese Paliacho, a Cagliari si conobbero i risultati del lavoro della Giunta patrimoniale torinese, che sciolse il quesito sulla demanialità delle isole. I tre componenti la Giunta, Niger, Pes e De Rossi, furono d’avviso diverso del marchese della Planargia sui corsi presenti nelle isole. Secondo loro non sarebbe stato giusto scacciare quelli che “per primi si assunsero di lavorare e trarre vantaggio dai beni incolti”. Naturalmente avrebbero dovuto sottomettersi al pagamento dei diritti, e in caso della reiterazione della scusa della proprietà del bestiame a favore dei mercanti bonifacini bisognava dare loro un rigido ultimatum temporale, pena il sequestro del bestiame e la loro cacciata. In caso di risposta positiva si sarebbe lasciata loro la libertà di pascolo col pagamento dei diritti. Secondo la Giunta la infeudazione risultava la soluzione più opportuna, ma non a favore di uno straniero. Soltanto un concessionario sardo sarebbe stato in grado di procurare una popolazione e predisporla alla difesa contro le incursioni barbaresche. A contrastare il contrabbando ci avrebbe pensato l’armamento navale che si prevedeva di incrementare. La infeudazione delle isole però, a giudizio dei tre componenti della Giunta, nonostante i vantaggi che ne sarebbero derivati, non sarebbe stata una operazione facile. Nelle grandi estensioni del litorale gallurese, una volta ricco di molti paesi e in quell’epoca spopolato, si trovavano condizioni più utili e remunerative per iniziative di colonizzazione.
L’intendente generale Vacha: prima occupare e poi eventualmente infeudare
L’intendente generale Vacha era tra quegli alti funzionari che ritenevano che i pastori corsi non volessero assoggettarsi al dominio del re di Sardegna. Secondo lui i bonifacini avevano un interesse troppo forte a tenere le isole indipendenti per i loro contrabbandi, per cui avrebbero contrastato qualsiasi azione di parte sarda per non perderle. Nel suo progetto di presa di possesso delle isole presentato nel marzo del 1766, quando trasmise anche la relazione del conte Rivarola e il suo elenco dei pastori presenti nelle isole, ne prevedeva l’evacuazione anche forzosa, e, nel caso in cui i pastori corsi si fossero sottomessi di fronte ad un atto di forza, riteneva che dovessero essere fortemente controllati. Per rendere effettivo il loro allontanamento e impedirne il ritorno, e/o controllarli, era necessario un distaccamento di guardia nelle isole, e incentivare l’interesse di pastori sardi ad utilizzare i terreni delle isole con l’esenzione da ogni tributo. Secondo l’intendente a presa di possesso avvenuta si sarebbe potuto pervenire alla loro infeudazione, ma comunque riteneva che tale operazione sarebbe stata difficile sin quando si sarebbero avute nelle isole le vessazioni dei bonifacini e dei pastori loro sodali.
Il progetto dell’intendente Vacha sarà ripreso in seguito per altri argomenti presenti nel suo documento, e intanto si possono conoscere i risultati di un “congresso” riunito a Cagliari dal viceré nei giorni successivi, proprio per analizzare quel documento. Della riunione fece parte, oltre il viceré, lo stesso Vacha, il giudice Cocco e il reggente Arnaud, che non firmò il documento finale, elaborando un proprio parere a parte. Il congresso riprese la tesi dell’intendente circa la necessità di una occupazione iniziale e del mantenimento di un distaccamento, ma il gruppo di lavoro cagliaritano, al contrario, riteneva molto probabile la decisione dei pastori di assoggettarsi. Il parere separato del reggente Arnaud si giustificava per alcuni elementi di divergenza col resto del gruppo di lavoro, e per ciò che riguardava i pastori utilizzatori delle isole riteneva che non avrebbero accettato di restare. Secondo lui, tolta la libertà di mobilità con la Corsica e interrotto il contrabbando, non avrebbero avuto più interesse ad utilizzare le isole, e neppure i pastori della Gallura sarebbero stati interessati al loro sfruttamento per l’abbondanza e la qualità dei pascoli già a loro disposizione. L’unica soluzione di colonizzazione delle isole stava nel ripopolarle con una industriosa popolazione straniera, in particolare pratica della pesca del corallo.
Il viceré non vuole infeudare le isole
Pur partecipando alle riunioni collegiali che lui stesso convocava, il viceré, il balio della Trinità, che era quasi a conclusione del suo mandato in Sardegna, si ritagliò uno spazio di autonomia politica per riferire direttamente al ministro Bogino il suo parere negativo sulla infeudazione delle isole. Il primo argomento addotto era certamente lungimirante, di tipo strategico, che nel tempo si rivelò esatto, circa la loro funzione militare: “essendo queste per loro topica situazione alle estremità della Gallura e quasi frontiera della medesima – scriveva il viceré l’11 aprile 1766 – non si sa se coll’andare del tempo non convenga di costruirvi una qualche fortezza, e non piuttosto indurvi delle ville, che si potrebbero col tempo fabbricare, ministri di giustizia dipendenti a dirittura del governo e non da verun barone, perocché questi potrebbe talvolta tenere, volendo, delle connivenze segrete ed ergersi eziandio contro dell’istesso sovrano, qualora venisse da qualche potenza spalleggiato”. Riprendendo la riserva avanzata dal marchese Paliacho, rimarcò il rischio che il feudatario potesse addirittura essere parte interessata ai commerci di contrabbando, per proprio utile o di parenti, e quindi a favorirli invece che a estirparli. L’esperienza dei rapporti con i feudatari e i regidori-podatari loro fiduciari lo portò, inoltre, a rilevare il continuo conflitto tra gli interessi personali del barone con quelli generali del governo. Per ultimo, ma non per qualità, il viceré espose la considerazione sullo svilimento delle infeudazioni fatte non a favore di concessionari già appartenenti alla nobiltà, ma ai nuovi ricchi, determinando una situazione non vantaggiosa al regno e, addirittura, oppressiva per i sudditi.
Salvatore Sanna – Co.Ri.S.Ma