Palazzo degli Uffici
“Fatti trovare alle 5 e mezzo a Palazzo degli Uffici: ci voglio parlare io con Monsignore, insieme a te, voglio sentire cosa dice lui”.
Già, “cosa dice lui”, perché io ho già detto: “non ho fatto niente, niente di niente”.
“E allora perché ti ha messo 5 in religione? Ci sarà un motivo, qualcosa avrai pure combinato! Non si spiega altrimenti”.
E difatti non si spiega: la mia pagella è più che buona, a parte quel maledetto 5 in religione.
Alle medie, soprattutto in prima, studiavo, eccome: a casa mia, sulla scuola e sull’educazione, “pochi mussi”.
E poi, figurati tu: a me, che ho solo dieci anni, don Capula non solo mi mette soggezione, ma anche paura, e mica solo a me e a noi ragazzini, il perché l’ho capito molti anni dopo.
“Palazzo degli Uffici”, come lo chiamavamo a quel tempo, era ed è il “Casino Roberts”, su via Amendola, dov’è oggi la sede del Banco di Sardegna.
Qui don Capula, che abita poco distante, svolge tutte le sue funzioni di parroco e da udienza a tutti: questo pomeriggio tocca a noi, a me e a mio padre.
Io sono già lì, dopo poco, puntuale, mio padre che arranca sulla sua bicicletta, una vecchia Bianchi Impero, con i freni a bacchetta, preziosissima, suo solo mezzo di locomozione, come per tanti nell’isola.
Ha appena finito il suo servizio all’Ospedale Militare, dov’è Segretario del Direttore, “capo Mulas”, come lo conoscono tutti, ed è perciò rigorosamente in divisa.
Poggia la Bianchi Impero al muro del Palazzo degli Uffici, chiude bene il lucchetto, perché non si sa mai, entriamo.
E aspettiamo.
Dopo un poco, finalmente Monsignore ci viene incontro, solenne nel suo abito talare, con la destra tesa verso mio padre.
Lui, da vecchio militare, s’irrigidisce, scatta sull’attenti, batte i tacchi, la mano alla visiera: Monsignore è Monsignore, non si scherza.
Poi, ma solo poi, gli stringe la mano.
Io me la sto facendo sotto dalla paura:
“E adesso cosa gli dirà che ho fatto, don Capula a mio babbo?”.
“Buonasera Monsignore, mi scusi se la disturbo: sono il padre di Mulas.
Siccome Andrea nella pagella del primo trimestre ha portato 5 in religione, volevo sapere da Lei se non ha studiato o se magari si è comportato male.
Lui dice che ha sempre risposto a tutte le interrogazioni, e che non ha mai fatto niente di male, ma io vorrei conoscere da Lei la verità dei fatti”.
All’improvviso Monsignore impallidisce, sgrana gli occhi dietro le lenti, come fa alla predica della domenica, scuote la testa.
“Oddio! stasera in casa mi fraccano!”.
Intanto però non riesco a credere a quello che sento e che vedo.
“Mi sono sbagliato, mi sono sbagliato”, ripete Monsignore salmodiando, “è stato un errore, un mio errore”.
E pure se alla fin fine non ha spiegato il resto di niente, io intanto però me la sono scampata, meno male!
Mio padre scatta sull’attenti, s’irrigidisce, destra alla visiera, colpo secco di tacchi, stringe forte la mano di Monsignore, che gli tende la sua.
“Hai visto che non avevo fatto niente?”, piagnucolo intanto che mio padre sblocca il lucchetto della vecchia “Bianchi Impero”.
Così, tutti e due a piedi, ce ne torniamo insieme a piazza Barò, ma lui non mi risponde mai.
Adesso vaglielo a spiegare tu a mamma il perché di quel 5 in religione!
“Allora, cos’ha detto Monsignore, cos’ha fatto Andrea, non ha studiato?”, ripete tra l’incuriosito e il minaccioso.
“Niente: ha detto che si è sbagliato”.
“Chi si è sbagliato: Monsignore?”.
“Sì, Monsignore: “mi sono sbagliato”, ha detto”.
Anni e anni siamo stati senza riuscire a capire quale poteva essere mai l’errore che don Capula si attribuiva da se stesso, lui poi, un errore: ma figuriamoci!
Ci sono arrivato io, per caso, non molto tempo fa, morti tutti oramai, mia madre, Monsignore, mio padre.
E’ stato quando ho scoperto che a Maddalena c’era, e magari c’è ancora, non so, una famiglia Mulas, tutti comunisti.
E lui mi aveva preso per uno di loro.
Poi, vedendo mio padre in divisa, aveva capito che non poteva essere, un “capo Mulas” comunista.
Ma questo non è un ossimoro, questa è una bestemmia bell’e buona, ahiò!
Sulla pagella del secondo trimestre, in religione, perciò avevo 7.
Andrea Mulas