Pescatori a La Maddalena
Quella della pesca è un attività che a La Maddalena non ha profonde origini autoctone, essendo ereditata (come in molte altre parti della Sardegna) da pescatori campani emigrati verso le coste sarde alla fine dell’800. Tuttavia, proprio per la straordinaria predisposizione dell’isola verso un’economia derivante dal mare, essa ha preso facilmente piede, favorita inoltre dalla grande pescosità dei mari locali e dalle straordinarie ricchezze offerte dai fondali marini. Da più di un secolo, quindi, il mondo della pesca professionale è entrato in simbiosi con l’ambiente dell’arcipelago, integrandosi con i ritmi riproduttivi e biologici della natura.
Ciò è stato favorito dalla non eccessiva crescita della comunità locale e quindi dalla contenuta attività che ha permesso di preservare l’ambiente e la fauna marina da depredazioni senza limite. Oggi i pescatori di La Maddalena non superano la cinquantina di unità, in possesso di una flotta assai modesta se confrontata con quella della vicina Olbia o di altri centri marinari della Sardegna e del continente. La loro attività e normalmente rivolta alla pesca sotto-costa, con particolare attenzione alla cattura delle aragoste, che caratterizza la specificità della pesca locale.
Nel contesto del parco dell’arcipelago, i pescatori di La Maddalena sono stati tutelati nella loro attività, possedendo, per un periodo, una propria rappresentanza all’interno dell’Ente di gestione. La risorsa della pesca è un elemento che si è voluto valorizzare e salvaguardare, non solo per il mantenimento di un’economia ormai consolidata tra la popolazione, ma anche per la sua straordinaria integrazione con il ciclo biologico sommerso, di cui – si può affermare – ormai fa pienamente parte. Malgrado la storia della nostra comunità sia recente, è difficile determinare con esattezza il periodo iniziale e lo sviluppo delle attività di pesca nell’Arcipelago maddalenino per la penuria di documenti sull’argomento.
Nel Settecento, prima dell’occupazione piemontese del 1767, i viceré di Sardegna avevano inviato qui diverse spedizioni di ricognizione per raccogliere tutte le notizie utili ad affermare o avvalorare il possesso delle cosiddette Isole intermedie, conteso da Bonifacio, e quindi d Genova, ad identificare, provenienze, attività ed usi degli abitanti. Dalle circostanziate relazioni che seguirono risulta che la popolazione, più o meno stabile, era formata da agricoltori-pastori corsi e che nessuno svolgeva attività di pesca: né Sardi né stranieri. La presenza dei primi infatti, sarebbe stata notata perché dare al Piemonte qualche titolo di possesso in più nella disputa sull’appartenenza delle isole; i secondi, da qualunque stato anche italiano provenissero, sarebbero stati soggetti a pagare dei tributi, dei quali si sarebbe trovata traccia nei documenti amministrativi dell’epoca.
Eppure lo sfruttamento del corallo nella zona del Nord Sardegna, iniziato subito dopo la preziosa scoperta, nel 1559, era divenuto sempre più notevole: i Campani, i Torresi in particolare, venivano numerosi sulle loro feluche per la stagione della pesca e probabilmente preferivano non allontanarsi troppo dalle città costiere, sia per i necessari approvvigionamenti, sia a causa delle temute incursioni barbaresche. La città di Alghero giocò in questo campo un ruolo determinante per il numero delle coralline, esercitanti la pesca nei mari della città, sottoposte a tassa.
Anche le nostre isole divennero meta di ricerca, ma non si è in grado di precisare o azzardare dati: infatti nei documenti francesi presentati in occasione della disputa sul possesso delle Isole Intermedie, appare spesso la esazione da parte di Bonifacio, dei diritti sul corallo, ma non viene mai precisato il nostro arcipelago come zona di pesca e , data la ben nota necessità per i corallatori di restare in una zona prossima ad una città, dobbiamo pensare che Bonifacio servisse come riferimento per tutto il mare delle Bocche.
Intanto, nella seconda meta del Settecento, si era determinato sulle coste della Sardegna un afflusso stagionale di pescatori campani, attirati dalla mancanza di concorrenti locali, diretto soprattutto verso le città come Alghero, Posada, Oristano, Olbia, che potevano garantire una certa protezione contro i predoni saraceni. Anche a La Maddalena, dopo l’occupazione piemontese e la conseguente difesa armata dell’Arcipelago, arrivarono i primi napoletani, procidani e ponzesi, che trovarono condizioni ideali per stabilirsi: lasciavano paesi ormai sovrappopolati e con attività insufficienti per tutti, e trovavano qui zone vergini, mai sfruttate prima; lasciavano golfi troppo aperti e pericolosi per le intemperie e trovavano coste articolate con maggiori possibilità di riparo; ma soprattutto, provenendo da paesi con attività troppo specializzate (per cui, ad esempio, i Ponzesi adoperavano quasi sempre nasse i puteolani reti), nei quali tutti dovevano necessariamente pescare in determinati mesi e località, trovavano qui, nella molteplicità degli attrezzi, “mestieri”, usati e dei tempi la possibilità di lavorare senza importunarsi l’un l’altro.
Erano però, dal punto di vista amministrativo, stranieri, provenienti da un altro Stato sovrano, il Regno di Napoli, e sottoposti quindi a pagare dei diritti allo Stato ospite; e poiché sulla loro esazione e sulla correttezza dei funzionari addetti non sempre i pescatori napoletani potevano essere d’accordo, nel 1789, per proteggere gli interessi dei propri cittadini, il Console di Napoli a Cagliari presentò un’istanza al Viceré per la destinazione di un Viceconsole a La Maddalena.
Arrivarono i corallatori, per tradizione più pronti ad affrontare gli spostamenti stagionali e la difficile vita che ne derivava, e quindi i pescatori. Casalis alla voce “La Maddalena” del “Dizionario geografico-storico”, attribuisce a La Maddalena 25 barche pescherecce per un totale di 30 famiglie di lavoratori nel settore (contro 280 di marinai, 35 di agricoltori e pastori, 40 di negozianti, 30 di meccanici, e 10 di altri uffici). Basta confrontare questi dati con quelli che Baldacci desume dai registri parrocchiali di matrimonio (fino al 1825 sono 22 i coniugi provenienti dalla Campania, dal 1825 al 1861 sono 38), per capire quale fosse la nazionalità dei pescatori a La Maddalena e anche la consistenza di questo nucleo dal quale, non dimentichiamolo, molti membri mantengono le loro famiglie nei luoghi d’origine e sono quindi tutti gli anni per 6-8 mesi, non lasciando quindi traccia della loro presenza nei nostri registri parrocchiali di nascita e matrimonio. Giova ricordare che anche i pescatori “maddalenesi” di cui parla il Casalis, appartengono alla seconda generazione degli immigrati della fine del Settecento.
Si tratta quindi di una fetta consistente della popolazione isolana che non realizzerà fino ai nostri giorni una completa integrazione con le altre componenti: infatti i matrimoni fra Campani e Maddalenine erano rari e sempre nuovi arrivi, soprattutto da Ponza e da Pozzuoli, di individui o di intere famiglie, andavano a rimpinguare il nucleo primitivo mantenendone le caratteristiche iniziali.
Così, mentre le altre componenti etniche continentali o di altre isole, essendo esigue minoranze nel calderone cosmopolita di La Maddalena dell’Ottocento, ed esercitando diversi mestieri, dovevano necessariamente integrarsi e quindi perdere le loro peculiarità d’origine, la colonia campana si accresceva continuamente di nuove immissioni, e essendo i suoi componenti gli unici ad esercitare la pesca, finirono per mantenere, limpide fino ad oggi le nostre attività, le abitudini e la lingua. Impegnati nella loro vita umile e dura sono passati attraverso tutto il secolo senza essere toccati dalle vicende gloriose e oscure della nascita della Marina Sarda, dell’epopea garibaldina, della trasformazione di La Maddalena, con la piazzaforte marittima, in sentinella del Mediterraneo. Negli ultimi anni del secolo le immigrazioni conobbero un risveglio dovuto alle accresciute potenzialità economiche de La Maddalena sotto l’impulso della base militare, ma proprio questa presenza provocò le prime limitazioni alla libera attività di pesca.
Diventava però più rigoroso il controllo esercitato dalla Finanza che intendeva evitare ogni contatto clandestino con la Corsica. In effetti il desiderio di interrompere il commercio illegale sulle Bocche di Bonifacio non si era mai realizzato malgrado i numerosi tentativi e i provvedimenti ad hoc che dalla fine del Settecento lo Stato Sabaudo aveva emanato: se poteva essere più facile controllare le bilancelle o i rivani da carico che facevano piccolo cabotaggio, diventava praticamente impossibile tener d’occhio tutte le barche da pesca; e quindi, soprattutto nei periodi più duri, erano proprio queste a trasportare notevoli quantitativi di formaggio, caricati a Liscia, Porto Pollo e Porto Pozzo. Proprio presso quest’ultima località il veliero scuro della Finanza si teneva spesso in agguato in una cala che ancor oggi i pescatori conoscono con il nome di “Cala d’a Finanza”.