I progetti del deputato Garibaldi
Articolo dello scrittore Antonio Ciotta.
Il 1875 e il 1876 furono gli anni in cui il Cincinnato di Caprera, ormai definitivamente stabilitosi nell’arcipelago, lascerà la sua isola per lunghi periodi e non per compiere imprese di guerra, ma per dedicarsi all’unica attività che aveva sempre trascurato: quella di deputato. La lunga carriera politica dell’Eroe, durata dal 1848 fin quasi alla sua morte, fu un vero e proprio fallimento. Stavolta però, visto che i politici non si occupavano di lui, aveva deciso di recarsi a Roma per curare i suoi interessi e quelli dei figli. Le condizioni economiche dell’Eroe non erano certo delle più floride e c’erano in ballo cose di cui gli premeva occuparsi personalmente.
Il 23 gennaio 1875, dopo aver rifiutato il Dono Nazionale, lasciò Caprera per la nuova capitale d’Italia dove non era più stato da quell’infausta giornata del 3 giugno 1849 quando era uscito a cavallo, attraverso la Porta di San Giovanni, con a fianco l’eroica Anita e alla testa dei pochi uomini che gli erano rimasti fedeli. Gli premeva in primo luogo andare in parlamento per sostenere il suo grandioso progetto di legge per rendere il Tevere navigabile da Roma fino al mare con la deviazione dell’alveo del fiume e la bonifica dell’agro romano. Per risolvere poi i suoi problemi finanziari aveva accarezzato l’idea di aprire a Caprera delle cave di granito, a ciò sollecitato soprattutto da Menotti, il quale aveva già intrapreso delle trattative con la Banca d’Italia per la costruzione della nuova sede in via Nazionale che doveva sorgere con una facciata tutta in granito di Caprera. Il suo terzo scopo era quello di ottenere un incontro con il re perché intervenisse a risolvere l’annoso problema dello scioglimento della sua infelice unione con la contessina Raimondi cosa che non gli consentiva di legittimare i figli nati dal rapporto con Francesca Armosino.
La notizia del trasferimento di Garibaldi a Roma, per svolgere la sua attività di deputato si era sparsa ovunque e le gerarchie vaticane erano entrate in grande apprensione: “Quale sarà il contegno di Garibaldi arrivato a Roma? Si sa – scriveva un’agenzia di stampa della capitale – che lancerà uno sguardo minaccioso, ma impotente verso il Vaticano; quale condotta terrà nei confronti del Quirinale, nessuno ha saputo presagire”.
Ad attenderlo, sia a Civitavecchia che a Roma, c’era una folla immensa. I romani non erano stati ammessi ad entrare nella stazione, ove per ricevere Garibaldi si erano recati il sindaco e numerosi deputati, ma all’apparire dell’Eroe la folla abbatté le transenne, superò ogni cordone di sicurezza e gli si precipitò incontro portando poi quasi a braccia la sua carrozza fino all’albergo Costanzi in via San Nicola da Tolentino. La moltitudine che era rimasta all’esterno, chiamandolo a gran voce, doveva però rimanere delusa. Spalancatosi il balcone, Garibaldi, in camicia rossa, poncho e papalina in testa, pronunciò il discorso più breve della sua vita: “Romani! – disse – Siate seri!”.
La stoffa del politico proprio non l’aveva.
Le sue apparizioni alla Camera non destarono i temuti allarmi; prese di tanto in tanto la parola, ma mantenne sempre un tono pacato assai lontano dagli accesi e irruenti interventi con i quali si era esibito in passato. I suoi due primi obiettivi, purtroppo, naufragarono ben presto. Malgrado l’accorato intervento alla Camera di molti deputati suoi amici, il governo si oppose all’apertura delle cave di granito a Caprera perché era in programma, sin da allora, la realizzazione in quell’isola delle opere di fortificazione a protezione delle coste del nord Sardegna e della base navale che stava per nascere. L’incontro con Vittorio Emanuele, alla presenza dell’aiutante di campo del sovrano Giacomo Medici, che era stato l’eroe del Vascello, fu molto cordiale, ma quando Garibaldi gli chiese il suo interessamento risolutore per l’annullamento del matrimonio con la Raimondi, il re gli rispose che anche lui aveva dei figli illegittimi che gli sarebbe piaciuto riconoscere “…ma le leggi sono uguali per tutti – concluse – e io non posso cambiarle per l’uno o per l’altro”.
Ben altra piega sembrava però prendere il piano per la deviazione del Tevere. L’incarico era stato dapprima affidato all’ing. Wilkinson di Londra il quale aveva predisposto un progetto che prevedeva a Fiumicino un immenso porto. Per realizzarlo occorrevano cento milioni, ma il Wilkinson si era impegnato a trovarli in Inghilterra. La proposta, accolta con molta diffidenza perché era evidente che dietro c’erano precisi interessi di potenti gruppi finanziari, venne abbandonata. Wilkinson inviò a Garibaldi un conto di 800 sterline, ma siano certi che ancora aspetta di essere pagato. Un secondo progetto, stavolta meno ambizioso, che prevedeva una spesa di sessanta milioni, fu redatto dall’ing. Landi. La proposta di legge, presentata alla camera da Garibaldi nella seduta del 26 maggio 1875, ebbe un inter velocissimo, ma trovare sessanta milioni era quasi impossibile. Il presidente del Consiglio aveva suo tempo proposto di coprire le spese con una nuova tassa, ma nella seduta del 16 giugno vi si era opposto l’onorevole Petruccelli, il quale, pur essendo meridionale mostrò in quell’occasione, quasi come un antesignano di Bossi, un’apertura alla padana; intervenne in favore dell’Eroe dicendo:
“Quando fu presentato questo progetto di legge, l’onorevole presidente del Consiglio lo bollò della sua massima: a nuove spese contrapporre nuove entrate. Il regno intero non può pagare per la sua capitale, avvegnachè ciò si sia visto a Torino, ed in proporzione più grave a Firenze. Questa tassa piglierebbe il nome di Garibaldi. E nella mente del popolo egli cesserebbe di essere il “redentore”, e diventerebbe il “gabelloso”. Lo si è di già sfatato di troppo. In questa terra di rovine rispettiamo questa superba rovina vivente”.
Petruccelli propose quindi di finanziare il progetto attraverso strette economie da parte dello stato, ma, su invito del presidente della Camera, per far proseguire l’iter della legge dovette poi ritirare il suo emandamento riservandosi di “…meglio riproporlo allorquando verrà innanzi alla Camera la proposta per determinare l’entrata con la quale provvedere a questa spesa”.
Garibaldi credette di aver raggiunto il suo scopo quando il suo disegno di legge, passato al Senato, ove venne approvato nella seduta del 27 giugno con 70 voti favorevoli e 24 contrari, divenne la Legge dello Stato n. 2853 del 6 luglio 1875.
Pago di questi risultati, che si riveleranno poi effimeri, l’11 agosto Garibaldi si imbarcherà a Civitavecchia per far ritorno nella sua Caprera. Porterà con sé la figlia Anita, avuta dalla relazione con Battistina Raveo, che lo aveva raggiunto a Roma dopo aver abbandonato Speranza von Schwartz alla quale era stata affidata. La giovane Anita, appena sedicenne, morirà poi a Caprera il 31 agosto successivo.
In attesa di far rientro a Roma alla riapertura della Camera, Garibaldi ritornerà ad essere il cincinnato di Caprera; dopo la mietitura, si occuperà a tempo pieno delle sue coltivazioni, della vigna, di cui era prossima la vendemmia, dell’orto, del frutteto e del bestiame.
Approssimandosi l’inverno decise di far ritorno a Roma. Stavolta gli era giunta notizia che il suo progetto aveva destato l’interesse del grande finanziere Luigi Schandler e che due società di Parigi avevano già contattato le maggiori banche europee tra le quali quella dei Rothschild.
La cronologia garibaldina della bibliografia di Garibaldi a Caprera pubblicata nel 1982 da Antonio Frau e Gin Racheli fissa al 25 novembre la data della partenza di Garibaldi per Roma, annotando che Bizzoni e Vismara la riportano per il giorno 22. Una inedita lettera recentemente ritrovata ci offre invece l’occasione per stabilire che il suo viaggio alla volta di Civitavecchia avvenne il 24 novembre.
L’interessante missiva, datata 22 novembre 1875, diretta all’amico Francesco Susini e lasciata a Daniel Roberts per essere recapitata, è sottoscritta da Garibaldi, ma materialmente vergata da altra persona. L’Eroe, infatti, non era in quel momento in grado di scrivere a causa dell’artrosi che lo tormentava. La firma, tuttavia, è autentica; e dovette tremargli la mano perchè sopra l’iniziale del suo nome vi è uno sbuffo di inchiostro. La lettera ci informa che, al momento di partire per Roma, egli aveva appena completato la semina del grano, ma che un incombente quanto inatteso pericolo metteva a rischio le sue coltivazioni. E a chi meglio dell’amico Susini poteva affidare durante la sua assenza la cura e la vigilanza dei suoi possessi.
“Caprera, 22 novembre 1875 – Mio caro Francesco, ti faccio scrivere questa mia dettata in quanto tu sai come è messa la mia mano. Sono passato ieri per la tua vigna ma non ti ho incontrato. Ho pensato di far lasciare questa a Daniel. Come tu sai sono arrivati numerosi stormi di uccelli a controllare se possono nidificare nella mia zona. Secondo il nostro intenditore Lombardo dovevano arrivare due mesi o tre più tardi, ma ahimé sono già quì, ieri sera un pescatore li ha visti arrivare, gran disfaccio. Tu capisci che il nostro raccolto verrebbe perduto in base alla fresca semina”.
Questa prima parte della lettera ci offre l’opportunità di rilevare, in un epoca di sconvolgimenti ecologici nella quale si dice che le stagioni sono cambiate e che anche gli animali non si comportano più come prima (dimenticando spesso quelle sette annate di vacche grasse seguite da sette annate di vacche magre di biblica memoria), che anche ai tempi di Garibaldi le cose non andavano diversamente. Una imprevista migrazione anticipata di uccelli, difatti, rischiava di apportargli quello che lui, usando una forma arcaica del termine disfacimento, definisce un gran disfaccio.
“Devo partire subito per Roma a prendere nuove semenze. – prosegue speranzoso Garibaldi passando dalle piccole cose di Caprera a quelle più grandi dei suoi ambiziosi progetti – Si parla che il Tevere sarà navigabile da Roma verso il mare. Ho sentito Ferracciolo passerò con lui domani notte. Abbi come sempre tu scrupolo di controllare tutto durante la mia breve assenza. Contatta i nostri cugini e informali del mio arrivo in settimana. Tornerò in tempo per il nostro raccolto. Tuo debitore aff.mo G. Garibaldi”.
La richiesta di informare della sua partenza i cugini (ben sottolineati) è un evidente messaggio massonico. E’ infatti documentalmente provato che, tanto il Susini quanto il Roberts, avevano aderito alla loggia di Garibaldi. La persona che lo doveva trasbordare dall’isola era il ventiseienne Pietro Ferracciolo, il figlio di quel pastore che gli aveva ceduto il lotto di terreno sul quale fu poi edificata la Casa Bianca.
La seconda tornata parlamentare dell’Eroe non fu certamente delle più felici. La legge per la deviazione del Tevere e della bonifica dell’agro pontino non ebbe pratica attuazione e fu definitivamente sepolta. Venne invece approvata, escludendo da essa la paternità di Garibaldi, una legge che prevedeva lo stanziamento di dieci milioni, ripartiti in quattro esercizi finanziari, per l’esecuzione di lavori di rafforzamento degli argini del Tevere, lavori che, “…venivano a costituire una letterale esecuzione di quanto appunto previsto nel testo di legge del 1875?. La noncuranza e la diffidenza del governo non consentirono poi l’intervento dei grandi finanzieri europei interessati alla realizzazione del progetto.
E poiché le economie e l’austerità auspicate per finanziare i lavori non vennero fatte, Garibaldi, con intenti chiaramente provocatori, il 13 maggio del 1876 presentò un disegno di legge composto di un solo articolo così concepito: “Finché l’Italia non sia rilevata dalla depressione finanziaria, in cui indebitamente è stata posta, nessuna pensione, assegno o stipendio, pagati dallo Stato potranno oltrepassare le 5000 lire annue”.
Era una proposta a dir poco rivoluzionaria che avrebbe visto decurtati gli stipendi di tutti i parlamentari e degli alti funzionari dello stato. La notizia di quella legge fu pubblicata da tutti i giornali prima ancora che ne fosse data lettura alla Camera. Tutti commentarono il fatto che Garibaldi stesso era disposto a fare un diretto sacrificio finanziario personale visto che quel rimedio avrebbe ridotto alla ventesima parte la pensione a lui assegnata. Il 9 aprile, difatti, aveva comunicato al Presidente del Consiglio Depretis di essere disposto ad accettare il Dono Nazionale fissato il lire 100.000 annue. E di simili utopistiche idee Garibaldi ne aveva avuto anche in passato. Il 13 settembre 1860, pochi giorni dopo la sua entrata a Napoli, aveva emesso un decreto per l’abolizione del gioco del lotto e l’istituzione di un istituto di Cassa di Risparmio (quella che poi diverrà il Banco di Napoli), con l’intento di combattere l’usura e agevolare con i suoi prestiti le classi meno abbienti. Il provvedimento, che avrebbe reso inutilizzabili i sogni dei napoletani e avrebbe fatto fallire gli editori delle “smorfie”, non era piaciuto agli inveterati cabalisti partenopei e non era piaciuto poi neppure al Ministro delle Finanze del nuovo governo italiano visto che il lotto era, ed è, uno dei maggiori cespiti delle entrate dello stato. Quanto poi al presumere che una banca potesse venire in soccorso alle classi meno abbienti era parimenti utopistico. Come disse Mark Twain “Le banche sono quelle istituzioni disposte a dare denaro a chiunque dimostri di non averne bisogno”.
Nella seduta del 18 maggio 1876, quando il segretario della Camera Passavini diede lettura in aula della proposta di Garibaldi, il presidente, molto laconicamente, concluse: “Sarà fissato il giorno in cui si dovrà procedere allo svolgimento di questo disegno di legge”. Quel giorno, ovviamente, non fu mai fissato.
Quando mai i parlamentari (allora come oggi), avrebbero votato una legge che riduceva loro lo stipendio e la futura pensione, “in attesa che l’Italia” superasse quella “depressione finanziaria”, dalla quale ancora oggi non pare sia mai stata sufficientemente “rilevata”.
Il giorno stesso Garibaldi si dimetteva da deputato e il 31, a Civitavecchia, prendeva imbarco sul piroscafo postale “Umbria” per far ritorno a Caprera.
Era ormai il mese di giugno, ma non sappiamo se l’Eroe-deputato-agricoltore prese quell’anno la falce in pugno, se il raccolto andò a buon fine, se gli uccelli abbiano poi depredato il suo campo e se da Roma sia giunto in tempo il grano per una nuova seminagione.
La sua donchisciottesca avventura parlamentare, tuttavia, malgrado le dimissioni, annunciate irrevocabili, continuerà. Caduto il governo e indette nuove elezioni, il 12 novembre dello stesso anno Garibaldi verrà rieletto deputato nella Prima Circoscrizione di Roma.
Il progetto di bonifica dell’agro pontino e quello, ancor’esso ambizioso, per la bonifica delle paludi sarde dell’Arborea, verranno poi realizzati negli anni del deprecato regime. Forse a qualcuno non piacerà questa conclusione, ma fra i tanti disastri che combinò il fascismo, il merito di aver portato a buon fine i sogni irrealizzati di Garibaldi bisogna pur riconoscerglielo, anche se oggi gli ecologisti accusano Mussolini di averci privato di quelle bellissime zone umide ove la malaria mieteva a fasci le vite umane.
Ma il Duce era certamente ben lontano dal prevedere a quell’epoca l’arrivo degli americani e della fondazione Rockfeller.
“Al governo della cosa pubblica poi, giacché i padroni regnano od imperano e non governano, vi si collocano sempre coloro che ne son meno degni, od i più atti a sgovernare, non volendo i despoti gente onesta a tali Uffici, ma disonesti come loro, striscianti e corruttori parassiti, coll’abilità della volpe o del coccodrillo.
Ciò non succede soltanto nelle monarchie dispotiche, ma anche nelle Repubbliche, ove gli intriganti s’innalzano sovente ai primi posti dello Stato, ingannando tutto il mondo con ipocrisie e dissimulazioni; mentre uomini virtuosi e capaci, perché modesti, rimangono confusi nella folla, a detrimento del bene pubblico. E sovente pure nelle immense Società popolane succede lo stesso inconveniente d’archimandriti immeritevoli. I popoli son così facili ad essere ingannati”
Giuseppe Garibaldi I MILLE pag. 61-62