Ricciotti Garibaldi
Quartogenito di Giuseppe e di Anita Ribeiro da Silva, nacque a Montevideo il 24 febbraio 1847 e, come già il fratello Menotti, fu battezzato con il nome di un mazziniano, il frusinate Nicola Ricciotti, fucilato con i fratelli Bandiera il 25 luglio 1844. Trasferitasi la famiglia in Italia all’inizio del 1848, trascorse l’infanzia a Nizza dove, mentre frequentava un seminario tenuto dai gesuiti e poi distrutto da un incendio di cui molto tempo dopo si sarebbe attribuita la responsabilità (Roma, Museo centrale del Risorgimento, b. 1034/104/5), fu allevato dalla nonna paterna e da un’amica del padre, la signora Deideri, la cui prima cura fu quella di alleviare gli effetti di una caduta che ancora piccolo lo aveva reso storpio.
L’infortunio, la cui gravità poté essere attenuata nel tempo (alla fine del 1858 il padre diceva di lui che era in grado di “camminare senza zoppicare”, Epistolario, III, p. 197), ma solo fin quando una ferita riportata in Francia nel 1871 lo costrinse all’uso delle grucce, condizionò probabilmente il suo carattere e certo ebbe un effetto sulla sua educazione che, proprio per metterlo in grado di ricevere cure più efficaci, ebbe luogo in Inghilterra, sotto la tutela di altre amiche del padre, Emma Roberts e Jessie White Mario, che tra Londra, Liverpool e Manchester gli fecero seguire studi di ingegneria e mineralogia.
Intanto, in Italia aveva inizio il decennio che avrebbe visto il padre impegnato, con esito spesso doloroso, nel completamento dell’unificazione nazionale. Al Garibaldi, che avrebbe voluto prendervi parte sin da giovanissimo, fu invece imposta la prosecuzione degli studi, intervallata da qualche breve soggiorno a Caprera e da una sola apparizione pubblica: la presenza a fianco del padre durante il viaggio in Inghilterra dell’aprile 1864. Il Garibaldi accettò ma probabilmente non gradì questa condizione che, diversamente dal fratello maggiore, lo voleva dedito più ai libri che alle armi; nel frattempo, mentre sviluppava un carattere irruento fino alla litigiosità, prendeva interesse per le ideologie più radicali, per quella repubblicana in primo luogo, dai cui postulati rivoluzionari si aspettava l’occasione per emergere. Finalmente, allo scoppio della guerra del 1866 per la liberazione del Veneto, il padre lo accolse nel corpo dei volontari assegnandolo alle guide a cavallo; e il 21 luglio, a Bezzecca, Ricciotti, affrontando con coraggio il fuoco austriaco, dimostrò di non essere indegno della camicia rossa.
La sua ambizione era però anche quella di avere un ruolo importante nella cospirazione internazionale e di qualificarsi come l’autentico erede di una tradizione ultra trentennale di lotta per la libertà dei popoli. In collegamento con i tanti esuli che gravitavano attorno a Caprera studiò piani e progetti insurrezionali che poi, viaggiando instancabilmente da un paese all’altro, cercava di tradurre in atto, senza sfuggire però alla assidua sorveglianza dei governi della Destra che, sapendolo in contatto con G. Mazzini, lo ritenevano oltremodo pericoloso: nel marzo del 1867 era segnalato in Grecia, impegnato su incarico del padre a organizzare una banda armata da impiegare nell’insurrezione di Creta (ma allora furono gli stessi Greci, dietro pressione della diplomazia delle potenze, a imporre ai volontari italiani il rimpatrio); l’anno dopo lo si avvistava a Londra, interessato forse a trattare una partita di fucili e a incontrare il Mazzini; nel 1869 lo si vedeva cercare rifugio a Corfù in seguito al fallimento di una rivolta nel Catanzarese da lui capeggiata. Intanto, a chiusura dell’iniziativa con cui il padre aveva tentato di far cadere con la forza il potere temporale, si era già verificato lo sfortunato episodio di Mentana (3 nov. 1867), preceduto di pochi giorni dall’assalto a Monterotondo, dove il Garibaldi, al comando di un plotone di guide, aveva fatto il possibile per “distinguersi sotto gli occhi del padre”.
Che fosse in ascesa sul piano militare lo provarono gli eventi che accompagnarono la fine dell’Impero napoleonico in Francia. Accorso col padre e col fratello Menotti a difendere la neonata Repubblica dall’invasione dei Prussiani e posto alla testa della IV brigata – un corpo formato inizialmente di poche centinaia di franchi tiratori, in gran parte francesi -, il Garibaldi si rese protagonista, più del fratello, di alcuni bei colpi di mano, come quando il 20 nov. 1870, a Châtillon-sur-Seine, assalì di sorpresa il presidio nemico, fece qualche centinaio di prigionieri, requisì materiale bellico e si ritirò prima del contrattacco. Celebre divenne poi la conquista della bandiera del 61° reggimento di fanteria, sottratta ai Tedeschi – unico caso in tutta la guerra – nell’ultimo giorno della battaglia di Digione (23 gennaio 1871), dopo che il Garibaldi, asserragliato con i suoi uomini in una vecchia fabbrica, aveva avuto ragione degli attacchi nemici, bloccando così il pericolo di una controffensiva.
Su questo episodio e sugli altri momenti della campagna il Garibaldi sarebbe tornato molti anni dopo con una lunga narrazione che, su un piano più generale, attribuiva alla continuità tra Impero e Repubblica e dunque al mancato ricambio della burocrazia francese le molte incertezze, gli ostracismi e le difficoltà incontrate dai garibaldini nel corso della spedizione. Quanto alla conquista della bandiera prussiana, il Garibaldi ne attribuiva il merito a un soldato francese, ma la sua tesi non avrebbe chiuso la questione, che si sarebbe riaperta nel luglio-agosto 1907 con una serie di interventi sulla Tribuna e con due lettere dello stesso Ricciotti in polemica col cognato Stefano Canzio.
Anche sul piano politico il suo peso era cresciuto. Alla firma dell’armistizio franco-prussiano e mentre il Municipio di Lione lo nominava generale comandante della guardia nazionale cittadina, il padre lo incaricava di portarsi a Parigi per osservare da vicino gli sviluppi della Comune, raccomandandogli altresì di tenersi in disparte in caso di guerra civile. In ragione di ciò gli venne accreditata qualche simpatia per l’Internazionale, confermata più tardi da una visita in casa di K. Marx a Londra e da un brindisi in suo onore pronunziato dal Ricciotti al termine di una manifestazione tenutasi a Roma il 10 settembre 1871; ma più che sullo sfondo di una penetrazione dell’Internazionale in Italia tutto ciò va visto nel contesto del clima di rottura con i mazziniani originato dalle polemiche sul dopo-Mentana. La rottura, peraltro, si prestava alle strumentalizzazioni, tanto che F. Engels, nel parlare del Garibaldi a un amico tedesco e nel definirlo “un giovanotto assai intelligente, molto tranquillo, ma un soldato più che un pensatore” (e come tale dotato più di “buona volontà” che di “chiarezza”), giudicava “di un valore infinito” le sue recenti prese di posizione pubbliche contro i mazziniani. Probabilmente, la chiave classista è anche quella con cui va interpretata la società dei Franchi cafoni, creata dal Ricciotti nel 1872 e presto sciolta, perché ritenuta pericolosa, dalla questura romana.
Invero le sue azioni non erano prive di ambiguità e spesso erano contraddistinte da una larvata commistione tra interessi politici e personali. Il padre, che si era reso conto di come egli possedesse “molto genio, nessuna volontà di lavorare”, dovette presto abituarsi alla disinvoltura con cui egli cercava di sfruttare il proprio cognome o ipotecava la metà dell’isola di Caprera a lui destinata; e forse fu per questi comportamenti e per altri screzi di tipo familiare (non aveva mai avuto simpatia per Francesca Armosino, che il padre avrebbe sposato nel 1880 ma che già gli aveva dato tre figli) che il Garibaldi decise di lasciare l’Italia e, dopo il matrimonio con l’inglese Constance Hopcraft (1874), si trasferì in Australia, dove rimase sette anni adattandosi a vari mestieri e dove nel 1879, a Melbourne, gli nacque Giuseppe (“Peppino”), primo dei suoi dieci figli. In Italia tornò nel 1881, ma qualcosa delle antiche ruggini era rimasta, e all’indomani del 2 giugno 1882 la stampa non mancò di sottolineare che, diversamente dal fratello Menotti, egli non era stato vicino al padre morente. Fu però il più pronto, malgrado la mancanza di linearità, a rivendicarne l’eredità morale o, quanto meno, a servirsi del nome che portava per farsi strada nel mondo romano degli affari e delle speculazioni, soprattutto edilizie, senza peraltro rinunziare a una chiassosa presenza nelle associazioni politiche cittadine e anzi ostentando atteggiamenti sovente intrisi di demagogia e comunque assai ostili alle altre formazioni democratiche.
Significativo – in questi anni tra il 1882 e il 1883 in cui si pose alla testa dei “programmi di trasformazione edilizia” della capitale – è il vincolo che lo legò a un avventuriero privo di scrupoli come F. Coccapieller, di cui finanziò due giornali, l’Eco dell’operaio e l’Ezio II, pensati essenzialmente per attaccare la democrazia romana, diffamarne i maggiori esponenti e aprire la strada a una propria candidatura al Parlamento. In un dilagare di calunnie e insinuazioni e con i giornali avversari che lo accusavano esplicitamente di essere un truffatore (tanto che il fratello cercò invano di convincerlo a cambiare aria), si giunse finalmente alle elezioni dell’ottobre 1882 e alle suppletive del giugno e luglio 1883: furono tre cocenti delusioni da cui il Garibaldi poté riprendersi solo nel maggio del 1887, quando il collegio di Roma I lo elesse deputato con 4.000 preferenze. Negli stessi giorni cominciavano a venire al pettine i nodi della sua disastrosa situazione finanziaria: in pochi mesi fu tutto un succedersi di sequestri, pignoramenti, ingiunzioni di pagamento, il tutto culminato nel fallimento dei Cantieri Garibaldi, una delle sue tante speculazioni in quel settore edile che come deputato aveva cercato di sostenere in Parlamento. Nel luglio del 1890 il Garibaldi si dimise irrevocabilmente; nel 1893 lo raggiunse la “deplorazione” della commissione d’inchiesta sullo scandalo della Banca romana.
Quasi avesse avvertito la necessità di defilarsi, il Garibaldi si ritirò con la famiglia a Riofreddo (presso Roma), in una casa comprata – scriverà una sua discendente – “perché questa era l’ultima, in ordine di tempo, delle forme che il Governo gli aveva imposto come decoroso confino dopo una serie di disavventure finanziarie”. Se confino effettivamente fu, per uscirne, per dimostrare che era sempre un Garibaldi, si ricollegò al proprio passato – si fregiava ormai del grado di generale -, riscoprì la camicia rossa, simbolo glorioso dell’aiuto da prestare ai popoli oppressi, e nell’aprile del 1897, previo accordo col governo d’Atene, salpò per la Grecia dove raccolse qualche migliaio di volontari armati, italiani e stranieri, che guidò allo scontro con i Turchi: uno scontro non fortunato, quello di Domokos, che costò la vita ad alcuni garibaldini e non modificò le sorti sfavorevoli della guerra. Il racconto che Ricciotti avrebbe poi fatto di questa impresa nel libro La camicia rossa nella guerra greco-turca (1897) (Roma 1897), sarebbe stato ristampato nel 1937 a cura della Federazione nazionale volontari garibaldini.
Nel suo ormai evidente sforzo di ricalcare l’esperienza paterna il Garibaldi non poteva trascurare il Sudamerica, dove lo portò nel luglio 1899 non un evento bellico ma l’idea di avviare, d’intesa con il principe B. Odescalchi e con alcuni ambienti cattolici romani, un esperimento di colonizzazione in Patagonia che, prevedendo in cambio della fondazione di colonie “militari” la concessione da parte del governo argentino di un’area vastissima (85 milioni di ettari), se attuato si sarebbe risolto in un investimento assai lucroso, presentato peraltro come strumento per difendere il territorio argentino al confine con il Cile, combattere l’emigrazione selvaggia e razionalizzare lo sfruttamento delle risorse. Per quanto avesse ricevuto l’appoggio di un ex presidente dell’Argentina, il disegno, illustrato dalla stesso Garibaldi in una pubblicazione intitolata Progetto di colonizzazione della Patagonia presentato all’eccellentissimo governo della Repubblica argentina… (Roma 1899), contenente anche la bozza del contratto di concessione, non andò in porto.
Fedele all’immagine di continuatore della tradizione garibaldina e quasi venerato da chi la considerava ancora operante, il Garibaldi guardava sempre allo scacchiere balcanico, dove lo scorcio finale della dominazione turca e le varie lotte nazionali parevano giustificare la sopravvivenza del volontariato militare. Con questo profilo di liberatore, offerto ancora all’opinione pubblica nel 1902 quando, come presidente del Consiglio albanese d’Italia, si disse disponibile a un intervento nell’Albania in lotta con i Turchi, recuperava il prestigio compromesso da talune uscite estemporanee (quale quella che nel 1889 gli faceva auspicare un accordo tra repubblicani e cattolici avente come obiettivo la creazione di una repubblica federale) e guastato dalle liti familiari che, soprattutto dopo la morte dei fratelli Menotti e Teresita, lo avevano messo in rotta totale per questioni ereditarie con i figli che il padre aveva avuto dalla Armosino e che egli si ostinava a non riconoscere come legittimi discendenti.
Ma il ruolo di unico depositario degli ideali paterni gli si addiceva sempre meno, anzitutto perché in molti di coloro che gli chiedevano di arruolarsi ai suoi ordini la passione libertaria del garibaldinismo delle origini era stata sostituita da uno spirito mercenario non dissimile da quello di una legione straniera, e poi perché lui stesso era venuto innestando sulla causa della autodeterminazione dei popoli oppressi contenuti di stampo nazionalistico, quali l’opportunità di estendere l’influenza italiana alle aree sottratte alle potenze turca e austro-ungarica, il che, unitamente alle sue periodiche professioni di fede repubblicana, avrebbe finito per suscitare qualche comprensibile imbarazzo nei governanti italiani: lo si vide non tanto nell’ultima sua campagna (quella del 1912 in Grecia, quando su richiesta di quel governo e d’accordo con gli Inglesi organizzò una spedizione internazionale di 12.000 volontari che si schierarono in Macedonia e il 14 dicembre affrontarono i Turchi a Drisko, senza però poter resistere alla successiva controffensiva), quanto nell’appoggio da lui dato all’impresa libica e, soprattutto, nella posizione interventista assunta al momento dello scoppio della prima guerra mondiale.
Già nel 1914 Ricciotti avrebbe voluto che l’Italia, entrando in guerra, allentasse la morsa sulla Francia e sul Belgio invasi; in attesa che ciò si verificasse, spinse il figlio Peppino a raccogliere una legione che fu impiegata nelle Argonne dove altri due suoi figli, Bruno e Costante, persero la vita, rispettivamente il 26 dic. 1914 e il 5 gennaio 1915. Questi gravissimi lutti ebbero l’effetto di legittimare ulteriormente il Garibaldi, che intraprese un viaggio nelle capitali europee durante il quale incontrò alcuni tra i maggiori statisti del tempo (tra gli altri i francesi R. Poincaré e A. Millerand e gli inglesi E. Grey e D. Lloyd George), prospettando loro la possibilità di formare un corpo di 30.000 volontari ma parlando anche di una nuova sistemazione nel Mediterraneo assai vantaggiosa per l’Italia. Non se ne fece nulla, e anche i passi successivi (ipotesi di formazione di una legione garibaldina, progetto di una spedizione nei Balcani) furono lasciati cadere, la prima per l’ostilità dello stato maggiore, il secondo per il veto di S. Sonnino. Ormai impossibilitato dall’età avanzata a combattere, all’entrata in guerra dell’Italia il Garibaldi fu uno degli animatori del fronte interno, cui offriva la memoria di una tradizione di patriottismo che si perpetuava attraverso la sua famiglia (il figlio Peppino si comportò valorosamente sul Col di Lana). Poi, nell’immediato dopoguerra, appoggiò l’impresa dannunziana e si candidò per sostenere coi suoi volontari l’estensione al Montenegro delle mire espansionistiche dei legionari fiumani: stavolta fu il presidente F.S. Nitti a bloccarlo. In precedenza aveva provocato molte reazioni negative un suo intervento a un comizio romano (marzo 1918) con cui aveva chiesto la convocazione di una Costituente per rinnovare su basi repubblicane il paese.
Gli ultimi anni del Garibaldi trascorsero tra la residenza di Riofreddo e il luogo di culto di Caprera, dove il 2 giugno 1923 accolse B. Mussolini – che quand’era socialista aveva visto in lui una caricatura del garibaldinismo – con un discorso che affermava “la storica connessione fra le camicie rosse e le camicie nere” (ma va anche ricordato il consiglio da lui dato allo stesso Mussolini di restituire il Dodecaneso alla Grecia).
Ricciotti Garibaldi morì a Riofreddo il 17 luglio 1924 e, dopo solenni funerali di Stato che videro una larga partecipazione di folla, fu sepolto nel cimitero romano del Verano.