Scalpellini, tra ricordi e rimpianti
La prima Società organizzata nell’esportazione dei graniti sardi ha sede a Genova in via Caffaro 2 e la direzione delle cave a La Maddalena. Si chiama Società Esportazione Graniti Sardi e risale al 1870, quando ancora non era stata ultimata l’Unità d‘Italia (la presa di Porta Pia è appunto del 1870). La cava si trovava nella zona di Cala Francese nella località denominata Nido d’Aquila, che già dieci anni prima, nel 1860, era stata avviata da un gruppo di scalpellini locali, coadiuvati da altri provenienti dal continente.
Ma il rapporto dell’uomo col granito in Sardegna è molto più antico: risale alle origini della nostra civiltà. Il nuraghe Agnu, ad esempio, è fatto interamente in granito, pietra durissima, appena abbozzata dagli scalpellini nuragici. Le cave romane di Capo Testa sono un altro esempio di utilizzo di questa materia in epoca passata. Si può affermare che la storia della Sardegna (e non solo) e scritta con la pietra: dal nuraghe sino al grattacielo. Sono pochi i paesi del nord Sardegna, dove questa pietra abbonda e vi e una lunga tradizione circa il suo utilizzo, che non abbiamo case e palazzi in granito o non ne sia lastricata la via principale. E quante sono le chiese e i cimiteri dove lo scalpellino, persona-artista del quale si è persa la memoria, ha creato col solo uso della punta e del martello geometrie perfette che, ancora oggi, destano la meraviglia del visitatore? E le piazze? Non sono forse centinaia quelle dove lo scalpellino del luogo (perché bisogna anche dire che in ogni paese dove il granito era presente, c’era un uomo che si ingegnava ad utilizzarlo, più o meno bene) ha fatto cadere le gocce del sudore e, una volta finito il lavoro, il suo nome e stato dimenticato?
Sarebbe una gran bella cosa se oggi, un comune, poniamo La Maddalena, riflettesse su questo e dedicasse un monumento allo Scalpellino. Se ne sono fatti per uomini meno illustri o li si può fare per ricordare il lavoro di migliaia di scalpellini della nostra isola, nessuno dei quali, probabilmente si è mai arricchito pur lavorando tanto, ma ha lasciato a noi e a chi verrà dopo di noi, per anni e anni, il segno evidente del suo lavoro, della sua arte inimitabile, che si acquisiva dopo un lungo apprendistato sotto le direttive del “maestro” che, a sua volta, l’aveva appresa dal padre. Non è facile lavorare il granito, trasformarlo in ghirlande fiorite (palazzi di questo genere si possono notare nelle nostre città e a Tempio, in via Roma, ce ne uno di eccezionale fattura e raffinatezza). in figure geometriche perfette, che sembrano disegnate con la matita e con la riga e invece sono frutto di un lungo e preciso lavoro, di ore passate con la schiena piegata, tenendo in una mano la punta d’acciaio e nell’altra il martello la mazzetta e ritmando i colpi, perché bastava una pressione appena superiore (o anche inferiore) per mettere a rischio l’intero lavoro. E noi sappiamo che ogni pezzo che veniva fatto era unico, difficile da replicare anche se, la bontà e l’arte dello scalpellino, si vedeva anche in questo sapersi ripetere uguale preciso sino al millimetro. E il loro lavoro era apprezzato, e i più bravi erano chiamati anche in terre lontane, per insegnare la loro arte. Ma, nonostante la bontà delle cose fatte, molte delle quali ancora oggi si stupiscono lasciandoci a bocca aperta, nessuno si è preoccupato di tramandare i loro nomi. La gente non li ha mai elevati al rango dell’artista, dello scultore, anche se molti di loro ne avevano la qualità e sapevano addomesticare la pietra con la stessa bravura che altri usavano per materiali più malleabili. Tutto ciò che hanno appreso lo devono alla volontà loro e intelligenza. Non è esistita una scuola per gli scalpellini, sono esistiti scalpellini bravi. veri maestri nel lavorare la pietra, pazienti nell’insegnare al giovane apprendista (si incominciava generalmente a undici-dodici anni) tutti i segreti, ma sopratutto la pazienza e la precisione.
Non c’erano limiti d’orario al suo lavoro e, personalmente, ho visto scalpellini lavorare per otto ore consecutive, limitandosi ogni tanto a bere un sorso d’acqua. Dipendeva da quanto l’oggetto che stava creando era riuscito a catturare la sua attenzione, e spesso questa era totale. Molte volte lo scalpellino si limitava a realizzare ciò che l’architetto, l’ingegnere o il semplice padrone della casa chiedeva, magari presentando uno schizzo. Altre volte dava libero sfogo alla sua fantasia creando arcate e stipiti che sono vere e proprie opere d’arte, praticamente impossibili da riprodurre. Contrariamente all’artista lui non firmava il suo lavoro, era cosciente che la pietra gli sarebbe sopravvissuta e il suo nome sarebbe stato dimenticato. Ne amava parlare dei lavori fatti, erano i suoi allievi e ricordarli e i parenti a tramandarli nel tempo.
Ecco perché la storia dello scalpellino è legata alla memoria, e gli ultimi, ormai anziani hanno da tempo abbandonato la professione senza lasciare degni successori. Qualcuno sostiene che le macchine, sempre più perfezionate, possano sostituirli. lo sono convinto invece che gli scalpellini ci mancheranno. Sono nati per abbellire la pietra, per ingentilirla, per renderla più preziosa e utile. Chissà se tra i loro maestri c’è stato anche il vento e la pioggia che hanno modellato le nostre pietre, se è da queste forze della natura che lo scalpellino ha attinto l’ispirazione e la precisione, documentata nelle pietre rifinite dei pozzi sacri, nei pulpiti delle chiese paleocristiana, negli architravi dei palazzi.
Nei nostri paesi, nelle chiese e nei cimiteri, nei palazzi, nei monumenti, nella stessa pavimentazione delle vie, la pietra lavorata conferisce il senso dell’eternità dell’opera duratura: una eleganza austera, essenziale, sicuramente un segno di distinzione.
Gli scalpellini sono riusciti a ampliare il discorso con la pietra, a renderne l’uso multiforme, trasformandola a seconda degli usi e dell’utilizzo. Intere aree della Sardegna vivono sul granito, la pietra è presente come l’aria che si respira, è un materiale che quasi infastidisce perché abbondante e di conseguenza “povero”. Si sa di gente che ereditava, per punizione, proprio i terreni dove il granito emergeva impedendo qualsiasi coltivazione e possibilità di sviluppo. Era una maledizione per chi li riceveva perché, dicevano, “sulla pietra non cresce niente”, o anche, “dalla pietra non viene fuori sangue”, che equivale poi alla stessa cosa. E forse, proprio la povertà di questo materiale, ha condizionato il giudizio, e creato non pochi pregiudizi, sul lavoro dello scalpellino. Oggi lo scalpellino è ricordato in qualche paese se ne sente la mancanza, ma trenta quarant’anni fa era evitato da tutti. Ha dovuto andare in Africa o in Svizzera per continuare ad usare la mazzetta e la punta. E lo ha fatto da emigrato, senza alcuna qualifica, pronto a ricominciare dal gradino più basso della scala.
Nei paesi non c’era più bisogno del suo lavoro; il cemento aveva sostituito il granito cosi come il costruttore di blocchetti impastati con la pietra pomice aveva sostituito lo scalpellino e il tagliapietre. E loro, che erano persone taciturne, che sapevano stabilire un rapporto solo con la pietra, che vivevano solamente in funzione della pietra, che se ne sentivano da essa attratti. si sono fatti da parte, qualcuno cambiando mestiere, altri cambiando posto, altri ancora cullando la speranza che prima o poi il loro turno sarebbe ritornato.
Gli scalpellini hanno costituito vere e proprie dinastie, come una casta. I primi che vennero dalla Toscana. dall’Emilia, dal Piemonte e dalla Lombardia sul finire dell’Ottocento. oltre alle bestemmie portarono il sogno di una società uguale, senza sfruttati ne sfruttatori. Erano anarchici, repubblicani, e si affacciava l’ideale socialista. L’allievo veniva cosi addestrato non solo sull’uso della mazzetta e della punta, ma anche sul senso della politica, e non e certamente un caso che quasi tutti gli scalpellini fossero anche degli antifascisti.
A Cava Francese avevano dato vita ad una vera e propria comunità che piano piano si organizzò dotandosi di alcuni servizi essenziali fino ad essere quasi autosufficiente, e questo non si sarebbe potuto fare se non ci fossero state anche idee comuni, modi di intendere la vita ma anche amore per il lavoro dove ci si applicava col massimo impegno cercando ognuno di emulare l’altro. Ed e in queste situazioni che sono nate le leggende, le storie che abbiamo tante volte sentite anche da piccoli. E a pensarci bene oggi, sembrano strane dal momento che lo scalpellino è una figura che può definirsi statica, che, solo quando aveva raggiunto una discreta fama, lasciava il suo orizzonte chiamato nelle città per abbellire l’ingresso di una chiesa, per costituire la tomba di un proprietario terriero, per inghirlandare gli stipiti e gli architravi dei palazzi, delle scuole, dei municipi, o per costruire fontane, spesso enormi, come quella di Calangianus e Buddusò, o monumenti che ricordavano il sacrificio dei caduti nelle guerre. o, come è avvenuto a La Maddalena la colonna commemorativa che ricorda il centenario della nascita di Giuseppe Garibaldi fatta con il granito di Cava Francese cui contribuirono con offerte quasi tutti i comuni della Gallura.
C’è poi dietro ogni opera, più o meno importante, una storia, dietro ogni scalpellino un personaggio. Chissà cosa pensava la gente maddalenina di quei tre-quattrocento cavatori che vivevano come in una comunità a Cava Francese. isolati dal resto della città, senza mai farsi integrare dalle abitudini del luogo. Ricordava Pasqualino Serra (titolare della cava di Villamarina a Santo Stefano), che nell’arcipelago gli scalpellini erano gli unici clienti abituali dei macellai, erano in pratica quelli che avevano i soldi per comprare la carne che, all’epoca, deve essere stato un grosso privilegio.
Anche per questo erano forse visti con un misto di ammirazione e di invidia. Ma anche con sospetto, perché in una epoca dove era illusorio parlare dei diritti degli operai, nominare la parola sciopero, o prendersela con i padroni, gli scalpellini furono gli unici a sollevare la testa. E questo si deve ai contatti, ai legami sempre più stretti con alcune regioni come l’Emilia Romagna e la Toscana dove la politica faceva pane integrante della vita della gente. Non è un caso che gli scalpellini, nella quasi totalità, compresi quelli dei piccoli paesi isolati dal resto del mondo (e, a questo proposito, si può citare un episodio che riguarda uno scalpellino di Bortigiadas il quale nel 1948, riuscì a riunire attorno a se un gruppo di persone disposte a votare per il partito Comunista “purché non si venisse a sapere”, per paura del prete e dei dirigenti della Democrazia Cristiana. Ebbene questo scalpellino andava la notte, con una Lambretta al bivio della Fumosa, a tre chilometri dal paese, dove alcuni dirigenti della federazione comunista di Tempio lo aspettavano per consegnargli la propaganda del partito che il giorno dopo, con mille precauzioni distributiva alle persone fidate), non è un caso, dicevo, che gli scalpellini furono tra i primi ad abbracciare le idee socialiste e comuniste che erano già patrimonio delle aree più industrializzate dell’Italia. Del loro lavoro c’era enorme necessità, e volente o dolente, essi rappresentavano una casta, se cosi si può dire, unita da un forte spirito di gruppo e di solidarietà.
In epoca fascista, quando il potere, anche nelle piccole realtà divenne arroganza. molti scalpellini preferirono lasciare l’isola; fu una scelta politica, sicuramente dolorosa ma giocata tutta sulla voglia di libertà e il rispetto di ideali che il regime fascista aveva bandito. Chi e rimasto era guardato a vista. E il caso di Giovanni Maria Balata, tempiese (erano cinque fratelli tutti scalpellini) considerato a ragione per la sua abilità nell’uso della punta e della mazzetta, il migliore e a tutti gli effetti il maestro, il quale per le sue idee antifasciste ogni qualvolta avveniva in città la visita di qualche gerarca era iniziato ad allontanarsi o rinchiudersi in casa per tutta la durata della visita.
Nonostante la sua avversione al fascismo, gli vennero affidati numerosi lavori, in molti dei quali fu obbligato a riprodurre lo stemma fascista, che gli veniva fornito in un calco di gesso che, furioso, una volta che si erano portati via il lavoro. riduceva in polvere a colpi di mazzetta.
Quando avvertì l’opprimenza del vivere in una società dove ogni suo gesto era controllato, spiato e catalogato, dove gli era impedito di parlare in pubblico, scelse la via dell’emigrazione evitandosi cosi un probabile arresto per propaganda contro il regime, dal momento che il suo laboratorio era diventato un luogo d’incontro di chi non era sintonizzato sulla politica del regime. Non solo artisti quindi, ma anche persone che rischiavano la libertà (e di conseguenza il lavoro e l’inevitabile strappo con la famiglia). E per non perdere l’una e l’altra. molti sono emigrati nella vicina Corsica o nel nord Africa.
Gli ultimi scalpellini si sono formati negli anni Quaranta, subito dopo la guerra. E gente ormai vecchia, che vive di ricordi pronta ad accalorarsi solo per il granito. La pietra umile e dura che ha scritto le pagine della nostra storia. Loro avevano imparato a leggerla e, quando non ci saranno più, avremmo perso qualcosa di irripetibile, forse anche, senza saperlo, una parte di noi. Questo libro vuole toglierli per quanto e possibile dall’oblio cui la nostra memoria, in questo caso corta, li ha da tempo consegnati. Sappiamo che non potremo parlare di tutti anche se questo e il nostro desiderio. Ma ricordando quelli che si affacciano alla nostra memoria e come se li avessimo ricordati tutti, dal più grande al più piccolo fino al più umile tagliapietre.