Secondo sfollamento
Il prefetto faceva notare, con una punta polemica non troppo nascosta, che il Comando Militare Marittimo, impegnato nella preparazione delle operazioni belliche, “in difetto di istruzioni superiori, si asteneva da maggiori precisazioni”, lasciando a lui la gestione di quella che ormai egli definiva una “emergenza”: le autorità militari non volevano essere coinvolte in compiti di controllo del territorio e di mantenimento dell’ordine pubblico cose che, a loro parere, spettavano agli organi di Pubblica Sicurezza e ai Carabinieri coadiuvati, tutt’al più, dalla Guardia di Finanza. Ma dal telegramma di Gabetti, pur nell’asettica prosa burocratica, emergeva anche che “non risulta(va)no ancora pervenute istruzioni a riguardo del coordinamento fra podestà e altre autorità che avrebbero dovuto organizzare i servizi di vigilanza”.
A distanza di due giorni, il 31 maggio, Gabetti confermava le preoccupazioni già espresse, evidenziando la mancanza di mezzi di locomozione per attuare uno spostamento così massiccio. Egli si dichiarava in grado di assicurare solo la parziale disponibilità di alcuni convogli ferroviari che, assorbiti completamente dall’autorità militare per la mobilitazione delle truppe verso le aree costiere e solo parzialmente nel viaggio di ritorno verso l’interno, avrebbero potuto trasportare, andando verso Tempio, una parte degli abitanti. Sconosciute al prefetto le necessita militari, quindi le date e gli orari di arrivo dei convogli ancora più ignote agli abitanti che dovevano mettersi in viaggio con mezzi privati o aspettare alla stazione di Palau per ore, senza alcuna certezza. Nulla era veramente preordinato per assorbire tale massa di persone. Lecita diventa allora la domanda: se la dichiarazione di guerra era nell’aria e se il comando militare aveva chiesto lo sgombero totale della popolazione del nord Gallura, quali piani si dovevano approntare e chi doveva approntarli?
Il prefetto pareva completamente all’oscuro e gli studi accurati, che egli asseriva di avere preparato con congruo anticipo in previsione dello sgombero solo della popolazione maddalenina, erano stati resi, a suo dire, “in parte sterili” dalle sovrapposizioni di disposizioni e di competenze da parte del comando militare. Infatti, un ulteriore problema si era verificato in quei giorni, forse più serio di quelli organizzativi: si trattava dell’assunzione dei poteri civili da parte dell’amministrazione militare che esautorava cosi, totalmente, i funzionari governativi. Una tale sostituzione di competenze costituiva uno smacco inaccettabile e telegrammi e telefonate si rincorsero freneticamente fino a che, per ordine del Ministero della Marina, l’ammiraglio sospese, a partire dal 12 giugno, il provvedimento ripristinando la normale gestione.
In queste difficili condizioni, nell’impossibilità di recarsi alla Maddalena lasciando vacante il suo posto in un momento cosi importante, Gabetti aveva chiesto al ministero dell’interno, Sezione PS, l’invio di un “provetto funzionario” al quale affidare il “delicato complesso incarico”; contemporaneamente aveva sollecitato il sottosegretario di stato perché lo sgombero non fosse immediato, ma diluito in due settimane e, soprattutto, aveva insistito perché questo non riguardasse tutta la popolazione del nord Gallura, ma solo quella della Maddalena. Grazie all’intervento diretto dell’ispettore generale di PS Saverio Polito, arrivato nel frattempo e subito inviato alla Maddalena, si ottenne da parte delle autorità militari un ridimensionamento del piano di evacuazione; l’ammiraglio comandante militare marittimo accettò di fare sgomberare solo la popolazione civile della Maddalena, in quanto la più esposta agli attacchi nemici, mentre per gli abitanti di Santa Teresa, Palau, Arzachena e San Pasquale giudicava accettabile uno “sfollamento”, intendendo con ciò un diradamento volontario delle persone verso la campagna.
E lo “sgombero” dalla Maddalena iniziò; i più abbienti potevano scegliere dove andane perché indipendenti economicamente: vecchie amicizie, parenti, compari furono mobilitati per procurare alloggi; gli altri dovevano essere avviati ai villaggi già identificati, assistiti dallo stato. Erano questi “altri” a preoccupare maggiormente perché per loro tutto doveva essere predisposto dal Ministero dell’Interno, ovvero dal suo funzionario provinciale, il prefetto, sul quale avrebbe pesato l’intera responsabilità: data per scontata la soluzione del problema trasporti attraverso treni e camion militari, bisognava garantire da subito l’accoglienza e cioè i pasti e l’alloggio. Alle prime sollecite richieste, a riprova del fatto che non esisteva un vero piano di accoglienza, Gabetti trovò solo porte chiuse e risposte negative anche da quegli apparati dello stato che avrebbero dovuto dare la piena collaborazione. Per i pasti la Croce Rossa, deputata per legge a tali interventi e interpellata attraverso il suo Comitato Provinciale, rispondeva telegraficamente di essere “completamente sprovvista qualsiasi materiale di soccorso et militi” per cui si trovava nell’impossibilità di agire: si giustificava adducendo le richieste precedentemente avanzate ai superiori e rimaste senza risposta.
Gabetti doveva ripartire da zero.
Egli chiedeva, quindi, l’invio di tende, come soluzione temporanea resa possibile dalla clemenza della stagione, per far fronte ai primi concentramenti: poco a poco, secondo lui, ci sarebbe stata una sistemazione graduale presso le famiglie dei centri ospitanti e una dispersione progressiva verso l’interno della Sardegna. Il 4 giugno arrivava la risposta negativa sulla disponibilità di tende. Ben consapevole della scarsa possibilità ricettiva dei centri interni della Gallura e dell’Anglona deputati ad accogliere i profughi, Gabetti cercava un’altra soluzione, quella degli edifici scolastici. Stavolta fu il ministero dell’educazione nazionale ad opporgli “un netto rifiuto”, costringendolo ad “invocare il diretto interessamento di S.E. Bottai il quale si compiacque aderire” alla richiesta. Febbrilmente, sempre con telegrammi, si stabilirono i contatti con i direttori scolastici e con i podestà dei comuni interessati e le scuole furono preparate: cucine economiche nei locali più ampi avrebbero garantito ranci collettivi, pagliericci e materassi avrebbero trasformato le aule in dormitori.
Il giorno 10 giugno Gabetti poteva relazionare al sottosegretario Buffarini che 3.500 persone “provviste di mezzi propri”, con l’aiuto di “facilitazioni e necessarie riduzioni” per il trasferimento con i mezzi dello stato, erano già partite dalla Maddalena e che da quel giorno iniziava lo “sgombero della popolazione meno abbiente” che doveva essere concentrata in scuole e asili dei comuni di Osilo, Tempio, Calangianus, Nulvi, Martis, Perfugas, Luras.
Si svolgeva così, in pochissimi giorni, quello che Gabetti, nella sua prosa resa fluente dall’ottenuta tranquillità del problema ormai risolto, definiva “uno sgombero affrettato e tumultuoso”, ordinato per quanto era possibile in quel clima di timore serpeggiante fra la gente che si assiepava nei punti di imbarco, scambiava voci e notizie, si faceva interprete di bisogni, ma che accettava, comunque, abbastanza disciplinatamente, attese e ritardi. Il panico poteva scoppiare improvviso, non necessariamente causata da un attacco aereo o da un bombardamento navale: la sola notizia di un evento del genere poteva farlo esplodere. Tutto, invece, si svolse senza incidenti.
Quale era l’atteggiamento degli interessati?
Secondo la relazione ufficiale di Gabetti (stilata a luglio quando i maddalenini erano già rientrati) le famiglie si erano mostrate riluttanti ad abbandonare le proprie case perché “perdurava in esse il ricordo dei precedenti sgombri del 1938 e del 1939 (svoltisi con qualche inconveniente) in modo che molti persistevano a sperare in una soluzione pacifica della crisi internazione che loro evitasse il disagio di allontanarsi nuovamente”. Gli sfollati erano prevalentemente donne e bambini di tutte le età che sciamarono portando sulla testa, a spalla o trascinandoli, i loro carichi poveri e preziosi al tempo stesso: c’erano le cose che potevano rivelarsi utili nei primi giorni e quelle che non si voleva lasciare nelle case vuote; alcuni avevano procurato un carro a buoi a Palau e su questo avevano caricato masserizie, pentole, stoviglie, materassi e valigie che ondeggiavano paurosamente sulle strade dissestate. I più fortunati erano quelli che si trasferivano in barca per le vicine coste di Cannigione, Barca Brusgiata o Santa Teresa. Il treno, partito da Palau, scaricava nelle stazioni persone e bagagli che lentamente si avviavano su strade sterrate per percorrere i pochi metri o i chilometri che li separavano dalla loro destinazione. Per qualche ammalato provvide la Croce Rossa, servendosi di ambulanze giunte dal continente perché in Sardegna, a riprova dell’impreparazione anche in questo campo, non ce n’erano.
“Gradualmente e ordinatamente” (e, soprattutto, celermente se dobbiamo credere alla data finale dell’evacuazione, l’11 giugno), la città fu sgomberata “con spese limitate” per lo stato, visto che i più abbienti provvedevano da soli e agli altri era garantito vitto e alloggio ma nessun sussidio in denaro, malgrado fosse perfettamente chiaro al prefetto che “quella popolazione prevalentemente femminile ed infantile fuori dal proprio comune, manca(va) di mezzi di sussistenza”, che il numero dei bisognosi sarebbe aumentato col passare del tempo, mano a mano che le povere scorte in danaro fossero finite, con conseguente ricorso all’aiuto dello stato e che la mietitura prossima, con la quale Gabetti sperava di impiegare per qualche giorno almeno una parte delle donne sfollate, avrebbe costituito solo un temporaneo alleggerimento della situazione.
Credo che vadano attribuite all’abituale retorica del tempo le considerazioni finali della relazione che Gabetti scrisse a cose ultimate, quando un sospiro di sollievo dovette siglare la fine delle operazioni:” Segnalo con particolare compiacimento che i profughi, malgrado il notevole disagio, hanno serbato un forte e nobile contegno manifestando la più calda riconoscenza per sentirsi amorevolmente assistiti da Autorità e Gerarchie di ogni ordine e grado. Ciò ho potuto personalmente appurare in accurate ispezioni da me eseguite, anche nell’intento di recare l’attestazione della paterna sollecitudine del Duce, verso il popolo che con unanime dedizione offre alla Patria il braccio e la fede …. (i non abbienti vivevano) assistiti a spese dello Stato, a mezzo di Enti comunali di assistenza, con l’amorevole intervento dei fasci Femminili e delle Suore di carità, anch’esse profughe dalla Maddalena”.
Fortunatamente l’armistizio chiesto dalla Francia (e firmato il 22 giugno) eliminava il pericolo di possibili attacchi dalla Corsica ponendo, cosi, le premesse per un possibile rientro degli sfollati; il prefetto approfittava subito della mutata situazione per chiedere il ritorno degli esuli con una sollecitudine alla quale non era estranea la difficoltà di mantenerli in una situazione economica generale che si presentava molto difficile: “… tale ritorno sarebbe desiderabile anche per ragioni d’indole sociale, posto che i raggruppamenti di centinaia di persone danno luogo ad inevitabili inconvenienti di natura igienica, mentre il mantenimento dei profughi, particolarmente costoso per lo stato, li abitua a ricevere il soccorso”. Non ricevendo adeguata risposta, scriveva ancora l’11 luglio prospettando una situazione meno edulcorata; la popolazione sgomberata assommava a 5.000 persone di cui 1.300 mantenute a spese dello Stato in vari posti di concentramento; le condizioni igieniche potevano dirsi sotto controllo ma, con l’avanzare dell’estate, si presentava la paura di qualche epidemia provocata dalla scarsa pulizia personale e dei locali, alla quale non era estranea. la insufficienza di acqua, di mezzi per lavare e lavarsi, e dal fatto che gli sfollati “vivevano accantonati con paglia a terra”. Per di più essi avevano ormai esaurito i normali mezzi di sussistenza per cui si presentava “urgente necessità integrale sostentamento carico bilancio Stato con evidente disagio e rilevante spesa”.
Era quindi indifferibile la richiesta da porgere allo Stato Maggiore della Marina perché si assumesse la responsabilità di approvare il ritorno a casa dei maddalenini. E finalmente, il 15 luglio, il ministro Buffarini comunicava che si poteva rientrane assicurando il viaggio gratuito e raccomandando l’assistenza a quella parte di popolazione che manifestasse maggiore bisogno. In 3 giorni la maggior parte degli sfollati era rientrata senza inconvenienti e, assicurava l’ispettore Polito, “i rimpatriati non si stancano manifestare commossa gratitudine DUCE per larga benefica assistenza”.
Lo sfollamento del 1940 aveva evidenziato problemi difficili da risolvere, inadeguatezza delle strutture ricettive, insufficienza delle risorse economiche per sopperire alle necessità degli sfollati nel caso di un lungo periodo di lontananza, l’inevitabile affollamento in locali troppo angusti e i conseguenti rischi di epidemie legate alla stagione calda. Tutto ciò avrebbe dovuto quanto meno far pensare ad un programma più accurato da predisporre nei mesi successivi per affrontare il ripetersi della situazione: possibile che l`i1lusione di un conflitto rapido avesse fatto dimenticare tale necessità? Possibile che, al contrario di quanto era successo nel 1939, quando la popolazione era stata invitata a sfollare sulla base del pericolo rappresentato da una guerra nella quale l’Italia non aveva ancora un ruolo diretto, ora che la nazione era davvero coinvolta si preferisse mantenere gli abitanti al loro posto? Si pub dire che tale scelta fosse determinata dalla certezza che le operazioni di guerra continuassero a svolgersi lontane e non toccassero direttamente l’isola? Ciò potrebbe, forse, valere fino alla fine del 1942, quando la situazione di netta prevalenza tedesca in Europa e in Africa cominciò ad incrinarsi determinando un capovolgimento di situazioni. Le notizie sul peggioramento dei risultati sui vari fronti arrivavano; le sconfitte italiane evidenziavano strutture e armamenti insufficienti dei quali molti alla Maddalena prendevano coscienza mano a mano che filtravano brandelli di dettagli sugli affondamenti di navi della nostra marina, dettagli che arrivavano più direttamente grazie ai numerosi imbarcati maddalenini, malgrado lo schermo apposto dalla propaganda di regime che tentava di occultare le perdite e di ingigantire i risultati positivi.
Anche alla Maddalena i problemi pratici si acuivano: i trasporti e gli approvvigionamenti diventavano sempre più difficili, l’apparato difensivo pareva reggere solo perché non veniva provocato che da ricognitori aerei che volavano alti e non avevano interesse, momentaneamente, ad attaccare. La convinzione dell’inespugnabilità della base rimaneva, ma avanzava la sfiducia: sintomatico il fatto che anche alcuni ufficiali della Milmart addetti alle batterie contraeree si scambiassero fra loro le impressioni sulla inadeguatezza delle loro armi che non sarebbero state in grado di raggiungere le quote di sorvolo di eventuali aerei attaccanti.
In questa situazione la popolazione dei punti potenzialmente più caldi della Sardegna, e La Maddalena e Cagliari erano fra questi, continuava a rimanere al suo posto, nell’impreparazione più assoluta ad un suo spostamento.
Quanta fosse l’impreparazione lo si può ricavare da una particolare corrispondenza, del mese di settembre del 1942, intercorsa fra il comandante generale delle forze armate in Sardegna, generale Antonio Basso, e i prefetti dell’isola. Si ha l’impressione che gli interessati fossero preoccupati più di salvare le apparenze, lasciando traccia scritta dei loro interventi, che di risolvere veramente problemi che apparivano a tutti insolubili: sia il comandante militare che i prefetti conoscevano le difficoltà degli approvvigionamenti, degli spostamenti della popolazione urbana nelle campagne esauste la cui produzione era requisita, della ricerca di alloggi nei villaggi inadeguati ad accogliere di persone ed ad assorbirne l’impatto sugli scarsi servizi disponibili.
Il generale Basso chiedeva ai prefetti delle province sarde se erano state predisposte azioni in ordine a:
-sgombero della popolazione in caso di operazioni
-servizio di ordine pubblico nelle città negli stessi casi
-alimentazione della popolazione civile in caso di mancato rifornimento da parte del continente.
Nel caso in cui niente fosse stato approntato Basso chiedeva ai prefetti di “esaminare e risolvere il problema affidandolo ad apposito comitato formato da rappresentanti dell’autorità militare e di codesta prefettura”. Non abbiamo la risposta del prefetto di Sassari, ma quello di Cagliari evidenziava, credo, gli stessi problemi che riguardavano tutta la Sardegna. Quanto poco fosse stato predisposto é chiaro nella sua risposta del 26 settembre 1942: tutti i problemi relativi allo sgombero di ospedali, carceri, uffici pubblici e abitanti civili era stato abbondantemente esaminato prima della dichiarazione di guerra per addivenire alla sconsolata conclusione che “difficoltà insormontabili” si opponevano per “mancanza di posti dove trasferirli”. Dopo i primi bombardamenti successivi alla dichiarazione di guerra, molti cittadini, fra quelli considerati abbienti si erano trasferiti nelle campagne da dove erano stati “ricacciati” verso la città dalle enormi difficoltà incontrate nel procacciarsi il cibo e dalla malaria. Il prefetto quindi, esaminando le precise richieste di Basso rispondeva in tono secco che:
1- lo sgombero della popolazione civile era praticamente inattuabile;
2- nel caso di interruzione dei rapporti con il continente l’unica soluzione prospettabile era il razionamento delle risorse (scarse) presenti in quel momento,
3- era inutile nominare commissioni ad hoc perché non c’era molto da organizzare.
Giovanna Sotgiu – Co.Ri.S.Ma