Sistema di coltivazione
Il Generale Garibaldi che nel dedicarsi all’Agricoltura nella solitudine di Caprera non ha inteso di seguire precetti empirici, bene spesso fallaci, non soddisfacenti che alle menti deboli, ma bensì di adottare metodi di coltivazione razionali, basati sull’osservazione,sulla scienza e sull’esperienza, consultando scritti agronomici, si è facilmente e ben presto persuaso che i paesi non devono adattarsi all’agricoltura, ma questa a quelli, e che l’industria umana può supplire in gran parte alla deficienza degli altri capitali riproduttori del coltivatore. Per conseguenza suo primo pensiero fu quello di studiare principii più utilmente applicabili all’agricoltura in genere, poi quelli specialmente adattabili a Caprera.
Per ciò non solo attribuisce una grande importanza alla formazione di letame, percipuo mezzo col quale possonsi migliorare i terreni granitici, e non solo richiede dai coloni le massime cure nel prepararlo: ma essendo convinto essere sempre proficuo concentrare concentrare il più che si può la coltivazione, si è proposto di seguire questo principio, anziché disseminare i letami sopra sproporzionate estensioni, che se ne annullano quasi interamente gli effetti. Ma la sua mente è andata anche più oltre. Il concime di stalla se può influire sull’abbondanza dei raccolti, non è però sufficiente a somministrare il terreno in dose sensibile quei principi nei quali difetta. Nel parlare della natura del terreno di Caprera si è accennato mancare in esso i carbonati di calce, di magnesia ecc. e questo è un difetto comune a tutti i terreni granitici formati sul posto, i quali scapitano rispetto alla produzione al confronto dei terreni calcari. Gli agronomi che fecero osservazioni in proposito, notarono la grande differenza che passa fra i suoli delle montagne granitiche e quelli delle montagne calcaree, e le differenti influenze che i medesimi esercitano sulla vegetazione.
Il suolo calcare non solamente ha prevalenza sul granitico per la varietà delle piante che alimenta, ma ancora per lo stato di vigore e di prosperità della stessa pianta in amendue allevata. <Allorché, scrive T. H. de Saussure, ho diretta la mia attenzione su le virtù nutritive dei vegetali calcari, e dei vegetali granitici, ho veduto che gli animali che si nutriscono nei terreni granitici erano più piccoli, più magri, e somministravano meno latte che quelli che si nutrivano sui terreni calcari, quantunque i vegetali cresciuti sui due suoli erano gli stessi; e che la quantità di questi vegetali somministrati agli animali che ne’ due casi fossero identiche. Ho veduto che il latte delle mandrie pasciute nelle montagne granitiche, era meno carico di parti butirrose e caseose che quello delle montagne calcari.> Riconosciuta da Garibaldi la mancanza dell’elemento calcare, ne’ suoi terreni, ha pensato di rimediarvi.
La calce a Caprera costa tropo per poterla spargere con proporzionato vantaggio sui campi: ha quindi pensato di raccogliere e compra ossa di animali, e frantumatele, servirsene d’acconciamento. Idea eccellente che per essere attuata non che di una macchina trituratrice, e il Generale può procurarsela facilmente dalla casa Croskill che ne costruisce di tre dimensioni. Tale macchina richiede la forza di quattro cavalli, che tanta ne ha appunto la locomotiva, e può somministrare da 2 a 3 tonnellate di ossa frante al giorno.
Colla polvere d’ossa il Generale potrà migliorare sensibilmente i suoi terreni di Caprera, ne’ quali, per aver buon effetto, se ne possono impiegare circa 20 ettolitri per ettaro. Siccome poi egli non solo vuol fare, ma vuol far bene, così imitando la costumanza degli Inglesi, presso i quali da gran lunga è in vigore tale pratica, si propone:
1) di mescolare le ossa con terra umida, e poi di farne un ammasso per rendere più sollecita la loro decomposizione:
2) di concimare abbondantemente il campo ove vuole spargere le ossa, perché il fosfato di calce delle medesime, insolubile nell’acqua, diviene solubile quando essa e sopraccarica d’acido carbonico, che solo può somministrarsi dai principi organici costituenti il concime.
Io credo poi che oltre alle ossa, potrebbero essere di gran giovamento ai terreni di Caprera le conchiglie, che non è difficile ne dispendioso raccattare nelle coste. Con questi acconciamenti calcari,, accoppiati ad abbondanti concimazioni, e sussidiati dai profondi lavori che il Generale costuma di dare alle sue terre è sicuro di ridurle sempre più produttive, e tali da non invidiare i migliori terreni del continente. Dopo il pensiero dei concimi doveva venire quello della scelta delle coltivazioni e della rotazione agraria. Rapporto a quest’ultima egli riconobbe che nello stato attuale delle sue terre un avvicendamento di lungo periodo non poteva essere che imbarazzante; e perciò fissata la posizione dei prati e delle vigne nei luoghi più opportuni, cioè più fresche pei primi, nella più adatta esposizione per le seconde, ha stabilito una rotazione biennale nei campi lavorativi, alternando il frumento con piante leguminose, cucurbitacee ed ortive, con formentone e patate, concimando i campi nell’anno a quest’ultime destinato.
Per le piante cucurbitacee preferisce il campo Tola per la comodità d’innaffiamento del pozzo. Per lavorare queste terre il Generale ha tre aratri comuni, due dei quali col carretto, ed un quarto, tutto di ferro, venutogli di recente dall’Inghilterra. Ha bisogno di quattro aratri, non per la molta estensione delle terre lavorative, ma per la diversità delle medesime, e perché non essendovi il modo di accomodare a Caprera una rottura od uno sconcerto di un arnese non fosse per ciò obbligato a sospendere le arature. Dopo il debbio la semina del grano si fa in ragione di ettolitri tre ogni dieci ettari di terreno: qualche cosa di più si mette nei campi a stabile coltivazione. La misura locale del grano è la coppa, la quale corrisponde a circa 20 chilogrammi.
A Caprera si vedono ora dei campi a grano in uno stato di vegetazione floridissima, e paragonabili a quelle delle fertili pianure bolognesi. Il prodotto del frumento viene calcolato in ragione di 12 a 15 ettolitri per uno di semenza. Il grano si batte con una trebbiatrice del sistema Barret e che viene messa in movimento dalla locomobile a vapore. Non dimenticando il cardine del miglioramento di Caprera, che è il letame, Garibaldi mette molta attenzione nella formazione de’ suoi prati artificiali. E siccome la medica ha fatto buona prova, e per soprappiù non s’è per anco manifestato in Caprera il flagell dei medicari, la cuscuta (cuscuta europoea), cisì egli si propone di ampliarne la coltivazione, servendosi del seme raccolto ne’ suoi prati, e non di quello acquistato, nel quale di frequente riscontrasi la mala pianta.
Tale assenza della cuscuta da Caprera è tanto più notevole in quanto che dessa s’incontra non di rado sui cisti, sulla ginestra, e sulla scopa: piante che si è visto essere spontanee, ed abbondare nell’isola. Per avere foraggi con sollecitudine, e scarseggiando i concimi, dovette il Generale contentarsi di fare i suoi primi medicari senza quelle lavorazioni e quel governo necessario a tal pianta per dare i sorprendenti prodotti che a ragione le acquistarono il nome di regina delle piante da foraggio. Ma ora che la coltivazione di Caprera ha cominciato a prendere un rilevante sviluppo, ora che il Generale ha fatto conoscenza co’ suoi terreni, ed ha avuto campo di confermare colla pratica molte teorie riscontrate nei libri, ha riconosciuto la necessità di mettere la più gran cura nella formazione dei prati di erba medica.
E Perciò i campi, che destina a tal uso, egli vuole che siano profondamente lavorati e concimati in abbondanza per due anni consecutivi, facendo nel primo un raccolto di fave, e nell’autunno del secondo anno seminandovi la medica coll’orzo. Nell’autunno del 1864, venne seminata la medica, l’orzo che a questa fu mescolato diede un raccolto di trenta semenze per una. L’orzo e la segale, e in generale tutte le piante che giungono a maturità prima dei forti calori di estate meritano la preferenza sulle altre che maturano più tardi; e se i prodotti di quelle non sono molto rilevanti, sono almeno più sicuri.
Per rendere meno sensibile il difetto di secchezza inerente ai terreni granitici, il quale produce i suoi tristi effetti, specialmente sui prati artificiali, il Generale ha voluto coltivare di preferenza i terreni rivolti all’ovest, ed al nord, essendo noto che il sole riscalda un piano in ragione del numero dei raggi che lo percuotono, e proporzionalmente al seno dell’angolo di incidenza che fanno col medesimo. Ed avendo poi letto, che fra i pregi attribuiti al Bromo di Schrader, che comincia a prender voga e che viene tanto decantato dai giornali nostrali ed esteri, avvi quello di resistere agli alidori estivi, e di dare un taglio precoce assai, ha pensato alla coltivazione del medesimo, e ne ha seminato, per saggio qualche grammo, da me portatogli unitamente ad altri semi che inviava al Generale il chiarissimo Prof. Botter, Direttore del Giornale d’Agricoltura del Regno d’Italia. Le vigne hanno un posto importante nella coltivazione di Caprera. Furono desse piantate, come avvertii, nei luoghi che più si prestavano per esposizione, vale a dire nei luoghi inclinati a levante, e siccome scelte sono le qualità di vitigni piantati, così il vino riesce di eccellente qualità, come si può giudicare da quel poco che il Generale ha potuto già ricavare.
Fra brevi anni gli abitanti di Caprera non avranno più bisogno di provvedere il vino fuori dell’isola, e potranno anche farlo gustare a quelli di terraferma. Tutti li suddetti campi, prati, orti, vigneti, ecc. furono fino all’anno scorso fatti lavorare dal Generale a opera, servendosi di uomini venuti di Sardegna o di terraferma; ma a cominciare dall’ottobre 1865 furono affidati alle cure di un mezzaiuolo venuto colla famiglia da Traversetolo, come s’è detto, eccettuati gli orti adiacenti ai fabbricati (che servono per uso esclusivo del colono e dei pastori), e dell’orto, non che dell’aranceto, il prodotto dei quali per intero s’è riserbato il Generale.
I patti di colonia sono vantaggiosi pel contadino, il quale nei medesimi, e nell’onore di essere mezzadro di un Garibaldi, trova un largo corrispettivo d’avere abbandonato la terraferma per isolarsi in uno scoglio del Mediterraneo. Il Generale somministra l’abitazione, i bovi per la lavorazione, tutti gli arnesi ed attrezzi inerenti alla coltivazione e le sementi: il colono mette l’opera sua e della propria famiglia, e i prodotti sono divisi a perfetta metà, compreso anche il frumento seminato dopo il debbio. Pel bestiame, come avvertii, ha col padrone un contratto di soccida a capo salvo. Se viengli ordinato di lavorare gli appezzamenti che per uso proprio s’è serbato Garibaldi, gli viene pagata l’opera. Come si farebbe ad un estraneo.
Gli ulivi che si dissero piantati qua e là dal generale fanno già vedere i loro frutti per cavarne l’olio, ed è già pronto un frangitoio, tutto in ghisa, compresa la ruota girante. Al frutto degli ulivi domestici devesi poi aggiungere quello degli oleastri, che trovansi sparsi nei burroni e nei greti. Garibaldi che trar profitto di tutto e da tutto, passeggiando li nota, ed in primavera si munisce della sega da innesto, e di un vaso contenente unguento si San Fiacre, e va a recidere la chioma della pianta selvatica per inserirvi una marza d’ulivo domestico. Verso sera del 12 marzo scorso il vid’io tornare a casa dopo aver innestato un ulivo posto in un’altura a levante dei fabbricati; e nell’osservare quell’uomo vincitore di tante battaglie, conquistatore di un regno, ritirarsi a passo lento, con fronte serena, con aria giuliva alla modesta abitazione per ricevere (quasi a premio di sua fatica) una sobria cena, composta da un’abbondante ma unica portata, la mia mente smarrivasi in un pelago di riflessioni e di confronti, che riuscivano tutti ineguali alla grandezza del soggetto.
Gli è pur vero che Garibaldi veduto cogli occhi del corpo riesce incomparabilmente superiore a tutti gli eroi antichi che pur hanno avuto l’immensa fortuna di esserci presentati da poeti a storiografi della forza di Omero, di Plutarco e di Tito Livio. Garibaldi mi si presentava da sè la sera del 12 marzo, e dicevami: vengo dall’avere innestato un ulivo a spacco. Nella mano destra aveva un vaso contenente unguento di San Fiacre, e la spatola di legno per distenderlo: dal lato sinistro gli pendevano un martello ed una sega. Era ammirabile; era sublime in quell’arnese! M’occorse ala mente Cincinnato, ma riflettei subito che il grande Romano di 2300 anni fa scapitava al confronto del grande Italiano d’oggi: l’antico fu semplice agricoltore: il moderno è agronomo. Nondimeno si capisce senza dirlo che io, per quanto ami l’agronomia, sono impaziente di vedere ancora al posto di quella sega la sua terribile spada di Montevideo e di Palermo: voto che per gran ventura, e più vicino che mai ad essere appagato. Dio proteggerà l’Italia, dacchè essa con tali uomini sa proteggersi così bene da sè. Aggiustati i conti finali, l’agronomia riprenderà più largamente i suoi diritti. Intanto l’Italia sappia che, da oggi, dee registrare ne’ suoi annali un altro illustre benemerito delle agricole industrie.