Squarciò – Capitolo IX
Squarciò, romanzo di Franco Solinas
Arrivò il rappresentante dell’Ansaldo con il motore nuovo e un fascio di cambiali. Squarciò gli fece mille domande, e alla fine ci rimase male perché il rappresentante ne sapeva di meno di quanto avrebbe dovuto.
Ma quando provarono il motore ogni dubbio scomparve, e Squarciò fu completamente soddisfatto. Pagò la metà in contanti, firmò le cambiali che per un anno intero sarebbero scadute mese per mese, poi offrì da bere al rappresentante e lo accompagnò al postalino.
Il giorno dopo, La Speranza prese di nuovo il mare. Il maresciallo Riva se la vide sfrecciare accanto mentre navigava sulla motobarca le acque dell’arcipelago.
In pochi attimi, Squarciò aveva guadagnato trecento metri. Riva intimò l’alt, e Squarciò diede ordine a Bore di spegnere il motore. La Speranza avanzò ancora un poco, poi si arrestò lentamente mentre la motobarca le si affiancava in tutta la sua lunghezza.
Era il primo incontro sul mare. Riva sembrava aver dimenticato la cordialità di quella sera in osteria. Saltò a bordo, controllò la licenza, frugò la barca da poppa a prua.
Squarciò lo guardava sorridendo. Ben ordinate sopra la cassa del motore c’erano le reti.
– Nuove – disse il maresciallo.
– Nuovissime, – disse Squarciò – comprate insieme al motore.
– Che bisogno avevi di cambiarlo?
– Era troppo vecchio, maresciallo. Non ce la faceva più.
– Ma per Treddenti va ancora.
– Si accontenta di poco, lui.
– Questo quante miglia fa?
– Me l’hanno dato per quindici. E il suo? Riva restituì la licenza. Per la prima volta, sorrise come quella sera. – Non preoccuparti, – disse – non dobbiamo fare le corse. Ci sono altri modi per arrivare primi.
Tornò sul suo battello e diede ordine di mettere in moto.
– Arrivederci, Squarciò – disse. – Ci vedremo spesso.
– Speriamo, – disse Squarciò – è sempre un piacere.
La motobarca della Finanza descrisse un largo arco puntando la prua verso l’isola.
Prima di rimettere in moto, Bore disse:
– È un tipo che ci sa fare!
– Non è come cacaspiagge – disse Antonino.
– Sono tutti uguali – disse Squarciò.
Ma forse aveva ragione Antonino. Il maresciallo Riva aveva altro stile e diverse abitudini. Non che trascurasse il proprio dovere, ma non era un martire e non gli dispiaceva vivere con tutti quei privilegi che, in un paese qualunque, comporta sempre il suo grado. Come scoccava l’orario ministeriale, abbandonava l’ufficio e se ne andava in giro a chiacchierare con i suoi nuovi amici e a corteggiare le ragazze.
«Figurati se combinerà qualcosa!» si diceva Gaspare vedendolo, tutto azzimato, bene in mostra al caffè. Eppure, il maresciallo Riva lavorava anche in quel modo, e senza faticare troppo otteneva di più proprio al caffè o in una bettola che dentro al suo ufficio.
In quei posti, se qualcuno parlava non era per far la spia, ma per rispondere amichevolmente a qualche domanda, per parlare del più e del meno senza che niente lo vincolasse o lo mettesse in sospetto. Nessuno disse mai a Riva che Squarciò pescava con le bombe. Nessuno gli suggerì un modo per sorprenderlo. Molti, anzi, tentarono di allontanarne i sospetti e di giustificare le ricche pesche del bombardiere dicendo come Squarciò navigasse per acque così lontane che gli altri non si erano mai arrischiati di raggiungere.
– Da che parte? – chiese allora il maresciallo. – Oltre l’ultimo stretto dell’arcipelago. Cinque ore di
mare con un buon motore.
– E dopo?
– Lo sa solo Squarciò. Siamo gelosi dei nostri pascoli, e quando ne troviamo uno buono ce lo conserviamo per noi.
Riva cambiò allora discorso.
– Come si va quest’anno? – disse.
– Peggio dell’anno passato. Si pesca poco, le reti costano troppo e il grossista fa il prezzo che vuole. È un’isola, questa, e lui soltanto ha un frigorifero.
– Se pescate di meno, la colpa è delle bombe.
– Anche di quelle, ma qui ce ne sono pochi di bombardieri e non si fanno mai incontrare.
– Io sono dalla vostra parte, perché non ci diamo una mano?
– Noi siamo soltanto pescatori, e lei fa il maresciallo.
Non possiamo darci una mano. Ci starebbe a venire con noi per salpare le reti?
Riva sorrise.
– Giusto, – disse – ognuno fa il suo mestiere. Ma se avete bisogno di qualche cosa… Tu come ti chiami?
– Vincenzo Spagnolo – disse il vecchio pescatore che aveva parlato.
Riva andò a cena. Poi andò in caserma, dove c’era il suo alloggio, si fece la barba e si mise una camicia pulita.
Prima di uscire, spiegò sul tavolo la carta dell’arcipelago e segnò con una croce lo stretto di cui aveva parlato il pescatore. Alle dieci era già in casa del sindaco e discorreva con sua figlia, che aveva ormai passati i venti anni senza trovare ancora un marito.
Ma se Santamaria venne scoperto, non fu per merito del maresciallo Riva. Accadde per caso, o almeno sembrò proprio così. Ogni martedì e ogni sabato, il maresciallo compiva un giro di ispezione per l’arcipelago seguendo sempre la stessa rotta. Tutti ormai ne conoscevano l’ora e il percorso: ma lui era certo che quei giri servissero ugualmente, se non altro per far pesare la sua presenza.
Un giovedì, la motobarca staccò alla solita ora. Dopo neanche un miglio, Riva scorse un battello che andava alla deriva. Diede ordine di raggiungerlo. Steso a traverso sulla panca c’era il corpo d’un uomo. Il maresciallo gli voltò il viso, ed era Santamaria. Il suo braccio destro era troncato di netto all’altezza del gomito. Una miccia di mine, stretta intorno al moncherino, impediva la perdita di sangue. Sul fondo della barca, c’erano bombe già pronte, c’erano pesci e c’era dell’altra miccia. Santamaria non si accorse di nulla perché era ormai svenuto.
Lo trasportarono sulla motobarca, e rimorchiando il suo battello tornarono all’isola. Dopo due ore che era stato ricoverato in ospedale, Santamaria riprese i sensi. Non era un ospedale attrezzato, e occorreva subito una trasfusione di sangue. Appena lo seppero, Squarciò e Treddenti andarono ad offrirsi.
Per strada, Treddenti disse: – Non ti sembra strano?
– Perché? – chiese Squarciò, che era appena tornato da pesca.
– Ha lasciato pesci, bombe e miccia nella barca, così cacaspiagge ha la flagranza.
– Se è svenuto non avrà fatto a tempo.
– Non è svenuto subito, perché si è prima legato il braccio e lo ha legato con mezzo metro di miccia.
– Perché ha fatto così, allora?
– Non lo so, ma ci deve essere una ragione.
Il sangue di Squarciò era del gruppo giusto, e Squarciò aveva più sangue di Treddenti.
Santamaria era pallidissimo, ma ragionava bene e parlava.
Aveva la barba di due giorni completamente bianca.
Il suo braccio buono era secco e legnoso, e non ci fu bisogno di stringerlo perché le vene erano molto grosse e in rilievo. Squarciò gli diede mezzo litro di sangue. Intanto, Santamaria parlava con voce bassissima.
– Hai visto che disgrazia? – disse.
– Sì, ma non parlare che è peggio.
– Lo sanno tutti al paese?
– Tutti, credo di sì.
Si avvicinò l’infermiere per controllare la trasfusione, poi si allontanò di nuovo. Il viso di Santamaria divenne improvvisamente rosso, e Squarciò non capì se era il nuovo sangue che gli scorreva nelle vene, o l’impaccio per la domanda che fece subito dopo.
– Hai visto i miei figli? – chiese Santamaria, parlando ora a fatica.
– No, ero appena tornato da pesca.
– Lo devono sapere per forza. Anche cacaspiagge glielo avrà detto.
– Sta’ zitto, Santamaria. Vedrai che ti verranno a trovare.
Allora Squarciò credette di capire perché era successo così. Ma non lo disse mai né a Santamaria, né a Treddenti.
Erano cose troppo private.
Santamaria stette dieci giorni in ospedale. Uscì che i suoi figli non erano ancora andati a trovarlo. Se tutto era successo per la ragione che immaginava Squarciò, Santamaria aveva perso un braccio inutilmente.
Quando fu luna buona e mare calmo, Riva era partito con la motobarca.
Partì di notte, e nessuno sapeva dove era diretto. Santamaria era ancora all’ospedale. Passarono due o tre giorni senza che Riva tornasse all’isola, e Squarciò e Treddenti si domandavano dove poteva mai essere andato a finire.
Riva aveva raggiunto l’ultimo stretto dell’arcipelago.
Laggiù aveva nascosta la motobarca e si era preparato ad aspettare. Dall’alba fino al tramonto, a turno, un finanziere dell’equipaggio restava appostato con il binocolo. Riva passava il tempo scrivendo lettere e leggendo. La radio di bordo trovava sempre una stazione che trasmettesse canzoni.
Era un bel posto, quello, ma il maresciallo non era i tipo d’uomo che apprezzasse certi paesaggi. Dormiva scomodo, sulla brandina da campo; e poiché l’acqua del serbatoio doveva bastare chissà per quanto, dovette anche rinunciare a radersi ogni giorno.
All’alba del quarto giorno, Riva venne svegliato dal finanziere di guardia.
Era apparsa La Speranza, bassa di bordo e con la prua alta sull’acqua.
Riva la vide superare lo stretto, e poi tagliare a destra verso ponente. Il vento era nato da poco e increspava il mare di pieghe sottili.
Un vento teso, ma non forte, e non sembrava aumentare.
Riva vide La Speranza avanzare per un altro paio di miglia, poi infilarsi in una lunga insenatura a ridosso. Subito dopo, cessò l’eco del motore.
Il maresciallo ordinò di mettere in moto. Prese lui il timone.
Invece di dirigersi nella direzione seguita da Squarciò, descrisse un giro almeno tanto largo quanta era la distanza che lo separava da quella insenatura. Fece in mare come Squarciò faceva in terra con i conigli, e si portò in modo di navigare sotto vento rispetto all’insenatura. Così riuscì a impedire che il rombo del suo motore giungesse fino al bombardiere.
Navigando contro vento, la motobarca della Finanza si dirigeva verso l’insenatura.
Laggiù, Squarciò stava per fare esplodere una bomba. Il mare, protetto com’era dagli alti massi di granito, era calmo.
La costa scendeva subito a picco su di un fondale d’una ventina di metri. Non si vedeva il fondo, ma Squarciò sapeva che a quell’ora e di quella stagione era ricco di pesce.
Misurò la lunghezza giusta di miccia, l’innescò, la sfiorò appena con la brace della sigaretta. La bomba scese, ed esplose quando giunse sul fondo. Le pance bianche cominciarono a salire in superficie. Un grosso dentice, fuori del raggio della fiocina, salì a galla col dorso. Era soltanto tramortito, e tentò di nuotare verso il largo senza riuscire ad inabissarsi.
Antonino si gettò in acqua e prese a inseguirlo. Ma il pesce si stava riprendendo e nuotava sempre più veloce. Così, nuotando, Antonino superò l’ingresso dell’insenatura fino al mare aperto. Fu di là che vide la motobarca della Finanza avvicinarsi rapidamente. Antonino tornò indietro, gridando a Squarciò che arrivavano i cacaspiagge.
Non c’era niente da fare. Per fuggire era troppo tardi.
Solo che fosse uscito dall’insenatura, Squarciò avrebbe subito inteso l’alt.
Se fosse fuggito, era lo stesso. A cinquecento metri si riconosce una barca, si vede il numero segnato sulla poppa, e bastava quello oltre quel mare coperto di pesci ammazzati con la bomba. Significava perdere la barca, la multa o il carcere e il ritiro della licenza.
Non c’era più niente da pensare.
Squarciò spinse La Speranza proprio all’imbocco dell’insenatura dove era maggiore il fondale. Disse a Bore e a Antonino di raggiungere a nuoto la costa. Lui allentò i bulloni del motore, e staccò dal motore l’albero dell’elica.
Poi si chinò sul fondo del battello e lo percosse con l’accetta corta e pesante che teneva sempre a bordo.
L’acqua fiottò con forza dentro lo scafo, si allargò in mille rivi, si compose con la soddisfatta consapevolezza di essere ormai la più forte. La Speranza scese lentamente verso il fondo. Ancora per un poco se ne vide la sagoma in trasparenza, poi più niente. Il mare tornò vuoto in quel punto, e sembrava che ogni cosa fosse al suo posto.
Quando la motobarca entrò nell’insenatura, era già tutto avvenuto. Il maresciallo Riva si guardò intorno, incredulo come chi abbia udito voci e rumori dietro una porta, ma, quando giunge ad aprirla, non trova più nessuno nella stanza che pure non aveva altre uscite.
Una leggera maretta sbatteva contro i bordi della motobarca i pesci morti.
Sulla costa, nascosto dietro un alto cespuglio di lentischio, Squarciò sorrise. Gli venne istintivo un gesto di scherno, anche se la sua vecchia barca era ormai perduta per sempre. Gli occhi di Bore e di Antonino erano pieni di lacrime.