Squarciò – Capitolo VI
Squarciò, romanzo di Franco Solinas
Ogni volta che gli accadeva di navigare nei pressi della cava, Squarciò rallentava sempre per scambiare due chiacchiere con Domenico, il giovane cavatore che aveva conosciuto ragazzo.
La cava, bianca splendente di granito, si apriva in un breve arco sul mare. Gli uomini lavoravano contro le pareti disegnate a picchi e a valichi come l’enorme grafico d’una catena di monti. Il ritmo ossessionante dei trapani s’arrestava soltanto per le esplosioni delle mine, e l’odore della polvere e le fiamme delle esplosioni servivano a rendere irrespirabile l’aria già arroventata dai riverberi del sole sul granito.
Se Squarciò vedeva Domenico alla parete che dava a picco sul mare, spegneva il motore e lo chiamava. Così scambiavano due chiacchiere.
Erano sempre contenti di vedersi anche se a un certo punto Squarciò parlava di esplosivi e Domenico non ne voleva sapere.
– Quanto ti danno al giorno? – gli chiedeva Squarciò.
– Ottocento lire.
– E hai moglie e due figli?
– Sì, – diceva Domenico – ottocento lire non bastano.
Ma questa non era una ragione per guadagnare di più vendendo polvere e miccia al bombardiere. Squarciò capiva che non c’era niente da fare, ma, se capitava da quelle parti, ci riprovava lo stesso.
Dopo un po’ che scherzavano, Squarciò si faceva improvvisamente serio.
– Ho pensato a te in questi giorni, Domenico.
– Sì? – diceva Domenico, anche lui improvvisamente serio e meravigliato per stare al gioco.
– Voglio farti diventare ricco.
Domenico mostrava un’espressione desolata e diceva:
– Allora io non c’entro. Devi passare in direzione, perché sono là quelli che mi amministrano. Si offenderebbero se mi arricchissi per conto mio!
– Ma io non conosco nessuno in direzione! – diceva Squarciò.
– Non importa, – diceva Domenico – poco fa c’è andato Gaspare, e penserà lui a presentarti…
Scherzavano sempre così. Finché un giorno Domenico, tornando in cava, trovò un cartello dove c’era scritto che fra una settimana sarebbero stati tutti licenziati.
Aveva moglie e due figli. Era incinta sua moglie, una donna giovane, e bionda come è difficile trovarne da quelle parti. Domenico aveva trent’anni e braccia forti, ma sapeva che nell’arcipelago era impossibile trovare lavoro.
Forse, tutte queste non erano buone ragioni per prendere cose che non gli appartenevano; ma Domenico pensò che se non c’era più bisogno di lui non servivano più neanche esplosivi in una cava morta.
Si vide con Squarciò, e a Squarciò quasi dispiacque che il suo amico onesto avesse preso quella decisione. Stabilirono il prezzo. Era tritolo, micce e detonatori, un detonatore per ogni saponetta di tritolo, e Domenico aveva tutto diviso in tanti nascondigli in prossimità della cava.
Neanche Squarciò avrebbe potuto scovarli. Domenico si impegnò a consegnargli gli esplosivi, volta per volta, quando Squarciò ne aveva bisogno.
La barca della Finanza avanzò verso una spiaggetta dell’isola di fronte.
Poco distante, illuminata dal tramonto, c’era la cava di granito. Al finanziere, che voleva attenderlo con l’imbarcazione, Gaspare diede appuntamento per l’indomani mattina. Bastava lui da solo.
La cassa era in una buca fra le rocce. C’era un grosso gomitolo di miccia, c’erano una ventina di saponette di tritolo con i detonatori innescati.
«Basta per qualche buon quintale di pesce» si sorprese a pensare Gaspare. Sorrise. Riabbassando il coperchio, citò a voce alta l’articolo del regolamento che prevedeva il sequestro della barca, il ritiro della licenza e la multa o la prigione per il bombardiere sorpreso in flagranza di reato.
Era oramai buio. Badando bene di cancellare le impronte sulla sabbia, Gaspare si scelse un rifugio a un centinaio di metri dal nascondiglio.
Se ne stette immobile, teso, rinunciando anche a fumare per paura che qualcuno potesse vedere la brace di lontano.
Non passava mai quella notte. Se ne stette così, come un cacciatore alla posta, che attende di riconoscere fra i mille rumori notturni il calpestio scontroso del cinghiale.
E la luna era salita lentamente, e lentamente aveva compiuto l’arco fino a sparire di nuovo. Gaspare pensava alla sua vita. Niente feste, niente gloria, un’esistenza inutile, neanche un figlio. Pensava, Gaspare, ma non era triste, e non sentiva rimorsi, perché là, su quella spiaggetta deserta, da un istante all’altro, l’intera questione poteva essere risolta.
E intanto nasceva il sole, e i suoi primi raggi orizzontali abbattevano ombre lunghissime e improvvise. Era l’ora giusta.
D’un sorso solo, Gaspare si bevve metà fiaschetta di grappa.
Poi un tonfo cadenzato di remi ruppe l’attesa. Man mano che si avvicinava, Gaspare se lo sentiva di dentro, battergli contro il cuore, e troncargli il respiro, e scuotergli lo stomaco fino al vomito. Ma gli occhi no. Le pupille restavano ferme, accese, dritte verso il battello che avanzava controluce, verso la sagoma robusta che si chinava da poppa a prua a tempo con i remi.
«Furbo, – pensava Gaspare – la barca a motore la tiene al largo, ancorata…».
Il battello s’arenò sulla spiaggia. Ne discese l’uomo, che era basso e tarchiato.
«In flagranza di reato! In flagranza di reato!» si diceva Gaspare trattenendo il respiro. E lo guardò avvicinarsi al nascondiglio, lo vide chinarcisi davanti, attese che si sollevasse con qualcosa di pesante fra le mani.
Allora Gaspare si raschiò la paura dalla gola, e con voce quasi chiara gridò: – Alto là! Mani in alto!
L’uomo scattò di corsa verso la barca.
– Fermo Squarciò, t’ho riconosciuto!
Ma quello scappava via senza voltarsi. Allora Gaspare sparò tre colpi in aria.
L’uomo, terrorizzato, s’arrestò di colpo. Sollevò le mani.
La grande cassa scivolò via rovesciandosi sulla sabbia e sulle rocce.
L’esplosione durò un attimo. Poi tutto tornò quieto, com’era prima, come se niente mai avesse potuto interromperlo.
L’uomo era caduto di faccia. Non si mosse. Sangue non se ne vedeva, e sembrava un tronco tanto massiccio era e tanto fermo.
Quando Gaspare gli rivoltò la faccia, si accorse che non era Squarciò, ma uno che aveva visto tante volte alla cava.
Squarciò era con gli altri sulla piazza. Si avvicinò alla banchina quando vide il battello della Finanza. Il morto era a poppa, coperto da un telone che gli disegnava la sagoma.
I morti chiamano gente. In un attimo, sulla banchina, c’era mezzo paese.
– Un incidente? – chiese Squarciò.
Gaspare sentiva ora tutto il freddo sofferto nella notte, e la grappa gli ritornava in gola con un sapore spiacevole.
Gaspare teneva le mani aggrappate al bordo della barca, ma tremava lo stesso.
Allora la faccia di Gaspare sembrò il muso d’un pesce, che esprime l’ultimo guizzo prima di boccheggiare per sempre nella rete.
– Sono stato io! – disse. – L’ho sorpreso in flagranza di reato.
Ma faceva pena, non paura. Squarciò scosse la testa.
D’un salto si avvicinò al morto, lo scoprì. Il morto aveva la faccia e il petto rotti dalle schegge. Era Domenico il morto, e Squarciò lo aveva temuto subito.
«Per colpa mia» pensò. Poi lo ricoperse col telone, e, guardando Gaspare, mormorò ancora: – Un incidente. Un disgraziato incidente.
Andava via, quando vide la moglie di Domenico correre verso la banchina. Non ebbe il coraggio di fermarla, non osò dirle niente. Chiamò Treddenti e Santamaria, e insieme parlarono di quello che avrebbero dovuto fare l’indomani.
L’indomani, Gaspare era chiuso nel suo ufficio a scrivere il rapporto. Di fuori, l’aria era scossa d’esplosioni. I pescatori di frodo facevano saltare il mare anche a cinquecento metri dal paese. Ma Gaspare lo sapeva che pescavano per la moglie del morto, che era incinta e aveva in più altri due figli.
Gaspare piangeva, chiuso nel suo ufficio, che da una grande finestra dà sul mare. Il mare era in bonaccia, il cielo senza nuvole. Gaspare scriveva la storia dell’incidente e le sue dimissioni. Poi se ne stette così, a guardare, senza vedere niente, fuori della finestra.
La moglie gli portò da mangiare. Ma Gaspare non toccò cibo, non fumò, non fece niente fino a buio, quando il funerale era già passato per il corso, e si arrampicava folto di gente verso il cimitero.
La piazza era vuota. Solo Squarciò e gli altri erano seduti all’aperto con un bicchiere di vino. Avevano pagato tutto loro, e adesso non importava che andassero dietro il morto. Dovevano riposarsi.
– Ne bevi un goccio? – chiese Treddenti.
– Dai, un goccio – disse Squarciò.
Senza sapere come, Gaspare si sedette insieme a quelli.
– Ho dato le dimissioni – disse.
– Le spiagge saranno incustodite! – disse Treddenti. – E pulite… – aggiunse Santamaria.
– Non prendertela! – disse Squarciò. – Ciascuno fa il suo mestiere. Il nostro è pericoloso.
– E il tuo puzzava – aggiunse Treddenti.
Non gli importava più a Gaspare. Quasi non li sentiva.
Si alzò e andò via con il bicchiere colmo ancora in mano.
Dovette tornare per posarlo sul tavolo.
Squarciò gli disse: – Ricordati che c’è sempre un posto per te sulla mia barca. Te ne intendi di bombe?
Ma Gaspare non li sentiva, e non li sentì ridere.
Le sue dimissioni furono accettate, e non gli rimase che attendere l’arrivo di chi doveva sostituirlo.
Fu Squarciò ad incontrarlo per primo. Non ne sapeva ancora niente, ma, tornando da pesca, si vide superare da una veloce motobarca che portava a poppa la bandiera della Finanza di mare.
Poi la vide Gaspare, dalla banchina di fronte alla caserma dove attendeva il suo sostituto. Era un giovane alto, biondo, con il viso magro un po’ a punta e gli occhi lucidi e svelti, che pareva frugassero con ingordigia qualunque cosa su cui capitasse loro posarsi.
Sbarcò dalla motobarca, e andò verso Gaspare sorridendo.
Gaspare fece suonare i tacchi e portò la mano alla visiera, anche se neanche il regolamento prevede tanta deferenza verso un pari grado. Ma subito dopo, prima ancora delle presentazioni, Gaspare non poté fare a meno di chiedere: – Hanno assegnata anche questa al reparto?
– Certo – disse il giovane biondo. – Non ce n’era bisogno?
Gaspare sorrise. L’aveva attesa per vent’anni, una barca con il motore veloce, ed ora proprio arrivava: quando per lui personalmente non significava più nulla.
Entrarono in ufficio. Gaspare diede le consegne, che comprendevano fra l’altro un accurato rapporto sulle attività illegali svolte nell’arcipelago. Un carteggio a parte era intestato a Salvatore Balzano, pescatore di frodo, soprannominato Squarciò.
Il nuovo maresciallo disse le parole d’uso con un tono amichevolmente cordiale, e più d’una volta lo chiamò collega.
Gaspare consegnò al furiere la Beretta 7,65, ne ritirò la ricevuta, e andò via a misurarsi un abito borghese.
Ma la gente per bene continuò a chiamarlo maresciallo.
Gli altri gli dicevano sempre cacaspiagge.
In osteria non si parlava d’altro, quella sera.
– Farà otto miglia – diceva Treddenti. Squarciò scosse la testa.
– Di più, – disse – ne fa cinque il mio, ma quello in due minuti mi aveva già preso cento metri.
– Dieci, allora.
– Io dico dodici. Dodici miglia buone.
– Cambiamo mestiere – disse Santamaria. – Ci prende come vuole.
Squarciò tirò fuori un bollettino dell’Ansaldo. – Ne esistono anche di più veloci – disse.
– Ma costano! – disse Treddenti.
– Neanche tanto.
– Beato te. Per noi costano – disse Santamaria.
Squarciò chiese a Treddenti:
– Vuoi comprarti il mio?
– Che ci faccio adesso?
– Sempre meglio dei remi.
– Quanto ne vuoi?
– Pochi, ma subito e tutti insieme.
– Pochi quanti?
– Quanti ce ne hai.
– Lo prendiamo insieme? – chiese Santamaria.
– No – disse Treddenti. – Non è un mestiere da fare società.
Allora entrò il maresciallo Riva, e nell’osteria tutti annusarono un profumo che poteva essere di colonia, o di brillantina, o di sapone per barba di quello buono che si compra in tubetti.
Treddenti disse subito:
– Hai visto le spiagge? Un giorno solo sono rimaste pulite.
– Si che le ho viste, – disse Santamaria – tutte piene di cacate come prima.
– Ma puzzano un po’ di meno – disse Squarciò. – Anzi non puzzano, – e si mise a tirare su col naso – no, non è puzza, è profumo!
– Sempre cacate sono – disse Treddenti.
– Ha ragione Squarciò. Deve essere uno pulito, uno che mangia bene, questo che caca tanto.
Come Riva sentì dire Squarciò, sorrise verso di lui e gli chiese:
– È lei Squarciò?
– Lei è il nuovo maresciallo? – chiese Squarciò.
– Proprio – disse Riva sorridendo.
Allora Squarciò disse:
– Sì, sono io Squarciò. Almeno così mi chiamano, perché
il mio nome è Salvatore Balzano.
– Un bicchiere? – offrì Santamaria. Poi disse:
– Io Santamaria, e deve essere il mio nome vero, perché
non ne ricordo altri.
– Permette? – chiese Treddenti. – Sono Treddenti. Sa,
per via di questi… –. E gli mostrò i suoi tre denti anneriti,
che gli spuntavano, uno sotto e due sopra, dalle gengive
per il resto vuote.
Riva prese il bicchiere e lo sollevò.
– Piacere! – disse.
– Al suo piacere! – disse Squarciò, e gli altri due mormorarono
lo stesso. Tutti vuotarono i bicchieri. Riva tirò
fuori il portafoglio, e chiese al proprietario quant’era.
– No, – disse Squarciò – offriamo noi.
– No, tocca a me stasera. Pagherete anche voi, ci sarà
tempo.
– Vuol dire che pagheremo da bere? – chiese Squarciò.
– Certo, e che altro?
Si misero a ridere.
In fondo, non sarebbe stato antipatico senza quella divisa.