Tre volontari sardi coi Mille
«Il vento infuriava e il mare erasi fatto grosso; una barca di pescatori, con a bordo il patrono Antonio Tarantini, un figlioletto di questo (Domenico, che vive ed è in Maddalena pensionato) e altri due uomini, non potendo reggere il fortunale, si capovolse. E fu tutt’uno vedere Garibaldi, mezzo vestito, tuffarsi in mare e condurre alla spiaggia i tre uomini; ma avendogli detto che il ragazzo, avvolto nella vela, era calato in fondo, si rituffò, stette alcuni secondi sott’acqua, e ricomparve con in braccia il piccolo Tarantini quasi svenuto». Un gigante gocciolante, così apparve per la prima volta – almeno secondo il racconto di Angelo Falconi cinquant’anni dopo – Giuseppe Garibaldi agli occhi di Angelo Tarantini. Era il 12 ottobre 1849 e Angelo aveva tredici anni. Si trovava sulla spiaggia de La Maddalena – isola dove era nato – per una battuta di pesca. L’Eroe dei due Mondi, dopo il fallimento della Repubblica romana era approdato nell’arcipelago in attesa di conoscere la meta del suo esilio. Si sarebbero ritrovati undici anni dopo, a bordo della stessa nave diretta a Marsala insieme ad altri Mille uomini per l’avventura più bella e più intensa della loro gioventù. L’11 maggio 1860 si compì l’atto più temerario di un gruppo ristretto guidato dall’uomo delle battaglie impossibili: Giuseppe Garibaldi.
I primi 1089 volontari provenivano soprattutto dal Nord: ben 160 solo da Bergamo; 156 da Genova; 72 da Milano; 59 dalla provincia di Brescia e 58 da quella di Pavia. Il fenomeno del volontariato, non nuovo in epoca risorgimentale tanto da aver coinvolto almeno tre gene-razioni, era inevitabilmente legato all’idea di giovinezza. I primi a raccogliere il messaggio patriottico, come è ovvio, furono i giovani. I Garibaldini imbarcatisi a Quarto la notte del 5 maggio avevano un’età media di 25-40 anni, con la presenza anche di giovanissimi. Ci fu perfino un bambino di 11 anni, Giuseppe Marchetti, che partì col padre. Tra loro c’erano studenti universitari, ma anche artigiani, operai, liberi professionisti e esponenti della borghesia produttiva che Garibaldi, grazie alle sue doti umane seppe condurre al successo, tenendo insieme potere e responsabilità, parole e azioni dirette.
Anche la Sardegna diede il suo contributo alla lotta garibaldina. Già in passato, durante le sue numerose campagne militari in Sud e Centro America e in Italia, Garibaldi si giovò dell’appoggio di isolani come: il cagliaritano Angelo Portoghese (che mutò il cognome in Pigurina), anch’egli condannato dopo i moti insurrezionali della Savoia e di Genova del 1833-34 e compagno d’esilio e di lotta in Brasile e in Uruguay, Salvatore Calvia, i maddalenini Giovanni Battista Culiolo – che adottò, pare per la sua agilità, il nome di Leggero – Antonio e Nicolò Susini Millelire, appartenenti alla “Legione Italiana” di Montevideo e Giacomo Fiorentino, il primo caduto del primo scontro avuto da Giuseppe Garibaldi in America Latina.
Anche durante la campagna siciliana del 1860 un modesto nucleo di sardi volle partecipare a quel progetto che molti in Europa avevano, forse prematuramente, giudicato una “nobile follia”. Certo, tra “i Mille che fecero l’Impresa”, i sardi erano solo quattro: oltre a Angelo Tarantini, i cagliaritani Efisio Gramignano e Vincenzo Brusco Onnis e Francesco Grandi di Tempio. Anzi tre. Perché Vincenzo Brusco Onnis a Marsala non sbarcò mai. Scelse di abbandonare la spedizione a Talamone in aperto dissenso con Garibaldi. Fedelissimo alle idee mazziniane egli rimproverava al Generale di aver sacrificato la causa repubblicana dando alla spedizione un’inequivocabile connotazione filosabauda, sintetizzata nello slogan “l’Italia e Vittorio Emanuele”.
In compenso, però, durante la navigazione, i 1088 divennero 1089. Efisio Gramignano, fuochista del Lombardo – l’imbarcazione della compagnia di Raffaele Rubattino di cui i Garibaldini si impadronirono per dirigersi in Sicilia-volle assecondare la sorte seguendo, come egli stesso racconta, quella “voce” interiore che lo esortava a seguire i Garibaldini una volta sbarcati a Marsala.
Motivata, invece, fu la partecipazione di Francesco Grandi. Dopo aver fatto parte attiva alla leggendaria Impresa che consegnò un regno alla dinastia sabauda, egli si stabilì dapprima a Cagliari, riprendendo la sua professione di intarsiatore e collaborando a diversi giornali come caricaturista, per trasferirsi definitivamente a Salerno per dirigere un istituto professionale per l’arte dell’intarsio. Nei mesi successivi altri contingenti di volontari si aggiunsero all’esercito garibaldino che lottava per la liberazione del meridione. Tra loro furono numerosi i sardi – di origine e di adozione – compagni di Garibaldi nelle imprese o seguaci nelle idee e suoi estimatori, poco noti alle cronache, ma meritevoli di essere menzionati come: Vittorio e Raffaele Dessì, Francesco Tosiri, Giuseppe Cardoni, Salvatore Floris, Luigi Piras, Efisio Melis-Tedeschi, Giovanni Rossi; questi e altri valorosi costituirono una seconda spedizione – poco più di 900 uomini – capitanata da Giacomo Medici che, una volta partita da Genova il 9 giugno, dovette affrontare numerose vicissitudini prima di poter giunge-re un mese più tardi in Sicilia. Anche nel terzo contingente, imbarcatosi a Genova il 2 luglio, non mancò una componente sarda. All’avvocato e pubblicista Giovanni Sulliotti, di origine greca, ma da anni politicamente impegnato in Sardegna, Garibaldi aveva ordinato di arruolare un battaglione di volontari sardi per la Sicilia.
Risposero all’appello personaggi in gran parte sconosciuti, ma di chiara matrice isolana: Stefano Schivo, Giovanni Secchi, Salvatore Serra, Vincenzo Capra, Ilario Milia, Pasquale Porrà, Giovanni Cossu, Pietro Fiori, Antonio Saiu, Battista Porcu; tra loro anche giovanissimi come il cagliaritano Antonio Ponsiglioni, futuro parlamentare nonché rettore dell’Università di Genova, che nelle sue memorie poté vantarsi di aver indossato la camicia rossa appena diciottenne.
A chiudere le storie di quanti aderirono alle imprese garibaldine e furono legati alla Sardegna, quella raccontata dalla lapide posta al cimitero monumentale di Bonaria, a Cagliari, in cui si può leggere “Nato il 22 dicembre 1833. Morto il 6 gennaio 1911. Fu soldato valoroso nelle file garibaldine”. La fotografia ritrae Evangelista Antinori, che concluse la sua esperienza di vita in Sardegna. L’isola non offrì però solo uomini all’impresa garibaldina, ma anche e soprattutto la sua strategica posizione geografica. La Sardegna fu allora un fondamentale centro di raccolta per i patrioti provenienti da varie parti d’Italia e coordinati dal medico genovese Agostino Bertani. Attorno a lui si era costituito a Golfo Aranci un esercito di 5 mila uomini. Caprera, in particolare, isola di Utopia, contribuì a determinare la mitizzazione di Garibaldi. Accanto all’idea dei Due Mondi, dei due continenti sconfinati, nei quali l’Eroe era vissuto, aveva combattuto e sofferto, vi è la casa bianca di Caprera, dove Garibaldi, concluse le operazioni militari e consegnati i territori conquistati a Vittorio Emanuele, visse rifiutando gli onori e gli allori del governo e delle istituzioni.