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Angelo Tarantini e l’Esercito Meridionale

Terminata l’impresa dei Mille, lo studioso Germano Bevilacqua inserisce il nome di Angelo Tarantini nell’elenco degli ufficiali garibaldini che, nell’arco del 1861, vennero ammessi nei quadri del Regio Esercito sotto il Corpo dei Volontari italiani; istituito ufficialmente con decreto in data 11 aprile 1861, era destinato a mantenere insieme quello che rimaneva dell’esercito meridionale; dopo una lunga serie di vessazioni, al termine, ad entrare nel Regio Esercito furono circa duecentotrenta, dei quali ancora un’altra cinquantina si dimise a causa del clima di ostilità creatosi nei loro confronti.
Anche Angelo Tarantini, si dimise dall’esercito regolare, esattamente il 20 maggio 1862, con Giuseppe Missori, Francesco Nullo, Giovanni Froscianti, Luigi Miceli ed altri. Secondo le testimonianze di famiglia, in particolare secondo i ricordi trasmessi dal figlio Sebastiano, la decisione di Tarantini di abbandonare le file dell’esercito piemontese fu dovuta all’iniquo esame cui vennero sottoposti gli ufficiali garibaldini al momento del volontario passaggio nelle truppe regolari; la regia commissione esaminatrice non avrebbe riconosciuto a Tarantini il grado ricoperto nelle campagna meridionale, luogotenente o tenente che dir si voglia, negandogli probabilmente anche il grado iniziale degli ufficiali, quello di sottotenente; di fronte a tali prevaricazioni fu conseguente la scelta di dimettersi.
Sulla questione della più o meno parziale integrazione dell’esercito volontario con quello regolare piemontese, un interessante lavoro è stato pubblicato nel corso del 2002 sul periodico Rassegna storica del Risorgimento. Da un’estrapolazione dallo stesso emerge che Garibaldi già dal mese di giugno del 1860, alcune settimane dopo lo sbarco di Marsala, aveva iniziato ad organizzare quello che oramai stava divenendo, con il continuo afflusso di volontari nonché delle migliaia di picciotti siciliani, un vero e proprio esercito, al quale venne dato il nome di Esercito Meridionale; egli ne dispose l’organizzazione, subito dopo la vittoria di Milazzo del 20 luglio 1860, decisiva per la fase siciliana della spedizione, inquadrando i volontari in quattro divisioni, che nella loro numerazione dovevano collegarsi idealmente a quella piemontese, arrivando in seguito al passaggio dello stretto di Messina, a creare una quinta divisione.
Nell’ultima fase della campagna meridionale, dall’incontro di Teano fra Garibaldi e Vittorio Emanuele II, avvenuto il 26 ottobre, alla resa delle truppe borboniche, prima con l’occupazione dell’ultimo caposaldo di Capua il 2 novembre 1860, poi con la capitolazione dell’estremo baluardo, rappresentato dalla fortezza di Gaeta, nel febbraio del 1861, l’esercito garibaldino arrivò nel suo complesso alle cinquantamila unità, con l’afflusso sia di volontari del settentrione6 che di volontari napoletani, provenienti in particolare dalle zone urbane.
La contesa fra i due eserciti scoppiò subito dopo l’annessione del Regno delle due Sicilie, allorquando il governo fece capire con molta diplomazia che l’esercito garibaldino doveva smobilitare in quanto espressione, non solo di un esercito di irregolari, ma di un forte movimento armato che poteva essere rivolto come poderoso strumento di pressione nei confronti della politica governativa diretta dal primo ministro Cavour, sì da continuare l’azione di liberazione nazionale proseguendo la campagna di guerra per raggiungere e liberare Roma, se non addirittura Venezia; il rischio era quello di innescare uno scontro a carattere internazionale nei confronti della politica di Napoleone III, dichiaratamente filopapale e, contemporaneamente, far fallire quel tessuto di rapporti bilaterali costruito dal Cavour, i cui effetti si erano palesati con la cessione di Nizza e della Savoia, una cessione camuffata dalla votazione plebiscitaria del 15 aprile 1860.
Il Governo, subordinato alle posizioni del Cavour e delle gerarchie militari, subito dopo la partenza di Garibaldi, emanò due legiferazioni, con le quali si favoriva la smobilitazione dei garibaldini; ciò dopo aver rifiutato di accettare la proposta del Generale tesa a regolarizzare le cinque divisioni garibaldine, di cui nell’epilogo della campagna meridionale si era andato componendo l’Esercito dei volontari. In questa istanza si prospettava inoltre la clausola che, qualora il Governo avesse deciso per lo scioglimento di tale esercito, si concedesse la possibilità del passaggio dei volontari nell’esercito regolare, riconoscendo agli ufficiali dell’esercito meridionale il grado in possesso.
Il Ministro della Guerra, il Generale Manfredo Fanti, stabilì con il Regio Decreto pubblicato il 16 novembre, ma retrodatato al giorno 11 novembre 1860, di acconsentire che i volontari potessero venir inquadrati nella regia armata, soltanto in un corpo separato dall’esercito regolare, il sopra detto Corpo dei Volontari Italiani; d’istituire, inoltre, una Commissione mista di ufficiali dell’esercito regolare e di quello garibaldino, con l’incarico di determinare i gradi e l’anzianità degli ufficiali volontari, ma salvaguardando primariamente i diritti acquisiti dagli ufficiali dell’esercito regolare; la Commissione così costituita, presieduta dal generale piemontese Enrico Della Rocca, ridusse di parecchio il numero degli ufficiali da inserire nei quadri dell’esercito regolare: soltanto 1740 su 7343 richieste riuscirono a superare le forche caudine della commissione.
Per aggirare la chiara avversione della commissione, centosessanta ufficiali dell’esercito meridionale preferirono addirittura far valere le loro credenziali maturate nel servizio prestato sotto l’esercito borbonico, dal quale chiaramente avevano disertato durante la guerra.
Con la seconda legiferazione, sotto forma di Ordine Regio datato 12 novembre, veniva favorito il congedo dall’esercito garibaldino, accordando una gratificazione economica, consistente in ben sei mesi di stipendio, inizialmente prevista solo per gli ufficiali, quindi estesa ai sottufficiali e alla truppa, legittimandola con le spese di viaggio per il ritorno alle proprie famiglie; a tale proposta si collegava una ambigua scelta che concedeva alla bassa forza, decisa a permanere nell’istituendo Corpo dei volontari, l’alternativa di sottoporsi ad una ferma biennale.
Inutile sottolineare che, fatta eccezione per una minoranza motivata idealmente e politicamente, la maggior parte della truppa, e fra loro ben 3238 ufficiali, o dimissionaria o sottoposta al giudizio della Commissione scrutinatrice, operante all’interno della Speciale Direzione del Ministero della Guerra insediata a Napoli, preferì abbandonare l’esercito meridionale, riscuotendo i sei mesi di paga.
Ormai era chiara l’intenzione di voler mantenere ben distinti i due eserciti e la constatata impossibilità di entrare nelle file dei regolari, in particolar modo per gli oltre 7000 ufficiali volontari che avevano sperato in una siffatta sistemazione, scaturì nel giro di qualche settimana in una decisa richiesta di congedo di 30.000 volontari.
Certo la partita fondamentale si giocava sugli ufficiali garibaldini; se essi avessero mantenuto una unità interna, probabilmente il governo piemontese avrebbe dovuto accettare la tangibile e duratura costituzione del Corpo dei Volontari Italiani. Inoltre l’ufficialità garibaldina era politicamente divisa, e in particolare al suo interno la corrente democratica non riuscì ad organizzare un’unica strategia; molti si limitarono alle semplici dimissioni per protesta, trasmettendo in tal modo un segnale di debolezza e di sbandamento al resto della truppa. In definitiva si andò configurando un Corpo, costituto da quadri senza soldati; e per quei quadri il governo poteva tranquillamente convenire la liquidazione con disposizioni prettamente amministrative.
Dopo aver sciolto con Regio Decreto del 16 gennaio 1861, il Comando generale dei volontari dislocato a Napoli e, di concerto, aver trasferito da Napoli a Torino la sede della Commissione scrutinatrice dei volontari, il governo Cavour nel successivo mese ordinava il trasferimento, nelle sedi e nei depositi ubicati in Piemonte, dei vari servizi, degli ufficiali e della truppa garibaldina posizionati nel meridione, con la diffida che in caso di mancata presentazione alla sede stabilita sarebbero automaticamente scattate le dimissioni; nonostante ciò 2766 ufficiali volontari raggiunsero egualmente le nuove sedi, tra il febbraio ed il maggio del 1861.
Poco valse il citato Regio Decreto dell’11 aprile 1861 ad attenuare il contrasto fra Garibaldi ed il governo di Torino, un contrasto manifestatosi platealmente nelle sedute parlamentari dello stesso mese. Tale decreto istituiva ufficialmente i quadri di tre divisioni, delle quattro inizialmente previste, costituenti il Corpo dei Volontari italiani; in esso doveva confluire la rimanenza del disciolto esercito meridionale che, resistendo ai decreti emanati dal Ministro Fanti, non aveva dato le dimissioni dal servizio. In effetti tale decreto, fra le righe, liquidava definitivamente il Corpo, trasformandolo in un semplice organismo di quadri; gli ufficiali, infatti, scelti dai generali garibaldini fra quelli riconosciuti dalla predetta Commissione di scrutinio, venivano collocati in disponibilità o in aspettativa per « riduzione di corpo »; la truppa, dall’altro lato, veniva costituita dai volontari che avevano assolto agli obblighi di leva e il cui arruolamento veniva demandato a data da destinarsi.
Fra i particolari che da soli danno l’idea del clima di avversione creato dal governo nei confronti dei garibaldini, si possono citare il divieto imposto sin dal febbraio del 1861 di indossare pubblicamente l’uniforme, la camicia rossa, nonché la negazione per gli ufficiali garibaldini, del diritto al saluto da parte dei membri dell’esercito regolare.
A tutto ciò, si cercò di porre rimedio con il Regio Decreto del 27 marzo 1862, con cui si operò la fusione, ossia lo scioglimento del boicottato Corpo dei Volontari Italiani all’interno dell’esercito regolare; tutti gli ufficiali volontari vennero immessi con il grado rivestito, ma posposti, con l’anzianità decorrente dalla data del decreto, a tutti gli ufficiali regolari.
Esattamente dei 7343 ufficiali garibaldini presenti nel novembre 1860 nelle file dell’Esercito Meridionale, solo 1740 entrarono fra i regolari nel marzo del 1862, come già detto per lo più in posizione di aspettativa o disponibilità, ma già alla fine di quell’anno si erano ridotti a 1584 per effetto di ulteriori dimissioni o di provvedimenti amministrativi, fermo restando l’attività in seguito dei Consigli di disciplina che gravarono rigidamente sui volontari stessi.
Come sopra esposto, è questo il momento in cui Tarantini apre e chiude la sua parentesi nelle regie file, un paio di mesi circa dalla data del citato decreto di scioglimento alla consegna delle sue dimissioni. Vi è da dire che la decisione del governo Rattazzi, nominato da poche settimane, di deliberare la “fusione” di quel che era sopravvissuto dell’esercito meridionale al piano di liquidazione dello stesso preordinato in particolare dalle gerarchie militari piemontesi che non volevano, forse a ragione, essere equiparate nella carriera ai volontari che avrebbero potuto ledere le loro posizioni acquisite negli anni, rappresentò agli occhi della componente democratica un tardivo ravvedimento di una infelice decisione che aveva artificiosamente prodotto un deleterio dualismo fra esercito e volontari. Forse fu per questo che garibaldini militanti quali Francesco Nullo e Giuseppe Missori decisero di accettare questa gesto di conciliazione fra le parti offerta dal nuovo ministero. Buoni propositi che, come visto, ebbero breve durata e franarono definitivamente nel successivo mese di maggio con l’ambigua condotta del governo sui fatti di Sarnico.
Il provvedimento della fusione nell’esercito regio nacque anche in risposta all’iniziativa di tutti i raggruppamenti democratici che, nello stesso mese di marzo del 1862, diedero vita a Genova al congresso che scaturì la nascita della Società Emancipatrice Italiana, destinata a riprendere la guida del movimento patriottico e le iniziative del partito d’azione, della quale si parlerà più ampiamente in seguito. Intenzione del governo era quella di inquadrare nell’esercito l’area del consenso garibaldino allontanandola, quanto più possibile, dalle correnti di azione e di pensiero democratiche, costante minaccia per la diplomazia piemontese.
Lo scioglimento per vie di fatto dell’esercito meridionale rappresentò una lacerazione nel tessuto politico e sociale del paese; il progetto della nazione armata tanto caro a Garibaldi, con il quale si sarebbe dovuta risolvere la questione di Roma e Venezia, era ben diverso dal Corpo dei Volontari italiani, creato dal governo giusto per tacitare gli animi della parte democratica e popolare dell’opinione pubblica e del movimento unitario. Ma soprattutto l’insensata decisione dello scioglimento dell’esercito meridionale dimostrerà tutta la sua illogicità allorquando la evidente insufficienza delle forze regie regolari rivolte al mantenimento dell’ordine pubblico nelle province meridionali, favorirà il dilagare del brigantaggio di bande di irregolari e di schiere di sbandati del disciolto esercito borbonico, facendo rimpiangere la presenza dei corpi volontari garibaldini che in varie occasioni già sul finire del 1860 si erano impegnate spontaneamente nel meridione in azioni di mantenimento della sicurezza pubblica.
Il governo di Torino, per recuperare in ogni modo il comune intento dell’unità nazionale, pose in parte rimedio a tale situazione, perlomeno economicamente, dapprima con un decreto in data 12 giugno 1861, che estendeva anche ai partecipanti all’esercito meridionale di Garibaldi i benefici della Legge 31 dicembre 1848 n. 863 (tale normativa applicata quindi su tutto il territorio nazionale disponeva il raddoppio del precedente emolumento relativo al soprassoldo per i decorati al valor militare); quindi, dal 1° luglio del 1862, con l’assegnamento di 40 lire mensili a favore dei “superstiti dei Mille volontari che fecero parte della prima Spedizione di Marsala”; infine con l’emissione del provvedimento pensionistico a favore dei Mille di Marsala.
Angelo Tarantini fu tra quelli che beneficiarono di tale vitalizio, notizia confermata dalla documentazione conservata presso l’Archivio Centrale dello Stato.
La pensione annua di lire 1000 venne assegnata a ciascuno dei garibaldini di Marsala a condizione che fosse dichiarato degno di fregiarsi con la medaglia d’onore istituita per iniziativa del Municipio di Palermo, a ricordo della gloriosa Spedizione del Generale Garibaldi. Nel novembre del 1862 una prima commissione nominata dal Ministero della Guerra e presieduta dal generale Stefano Türr, stabilì in 1084 gli aventi diritto alla decorazione istituita dal Municipio di Palermo.
Un giurì d’onore, presieduto dal generale Nino Bixio, riesaminò due anni dopo i titoli dei componenti la spedizione e il ministero pubblicò i risultati in un relativo bollettino, sopra citato, accertando l’elenco degli individui in numero di 1072, giacché dodici erano stati riconosciuti indegni di portare la medaglia; in particolare il bollettino recita «…avendo in essi riconosciuto il concorso delle condizioni per ciò richieste, hanno facoltà di fregiarsi della medaglia commemorativa conferita loro dal senato di Palermo».
In seguito, in relazione all’esigenza di completare quell’elenco con un ruolo definitivo, si procedette durante il 1877 e 1878, ad una generale inchiesta informativa che determinò in maniera conclusiva il numero dei partecipanti alla spedizione in 1089 compreso Garibaldi, si addivenne ad una suddivisione degli stessi su base provinciale, e si determinò un prospetto, datato 1° ottobre 1878, delle quote di pensione percepite dai partecipanti alla spedizione, determinando il numero di 627 pensionati esistenti. La lista finale di tutti i componenti la Spedizione, sulla scorta delle precedenti indagini, venne pubblicata, corredata del prospetto dei pensionati fra i Mille di Marsala, come Supplemento nella Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia n. 266 del 12 novembre 1878.
L’articolo 2 della legge chiariva che l’ottenimento di una somma di denaro dal pubblico erario, sia come compenso a carattere nazionale che provinciale o municipale, qualora avesse superato le 200 lire, senza però raggiungere le 1200, diminuiva la pensione della somma necessaria al raggiungimento del tetto di 1200 lire; nel caso che l’eventuale indennità dal pubblico erario non avesse superato le 200 lire, la pensione vitalizia veniva corrisposta per intero.
Angelo Tarantini riscosse la quota di pensione nella misura intera di lire 1000 annue, come risulta dal suo Decreto concessivo della Pensione vitalizia, non avendo lui altri assegni oltre a quello dei Mille.
Egli, in effetti, percepì anche il soprassoldo conseguente alla medaglia d’argento al valor militare di cui era stato insignito nella campagna meridionale 1860/61; tale importo venne convenuto, in base alla legge del 1848, in 100 lire annue e successivi adeguamenti.
Con una legge del 26 dicembre 1886, seppur tardivamente, il governo accordò alle vedove ed agli orfani dei Mille, che fecero parte della Spedizione di Marsala, una pensione annua di 500 lire, almeno sino a che i figli avessero compiuto i ventun’anni; una volta questi compiuta la maggiore età oppure nel caso di assenza di prole, alla vedova la pensione veniva ridotta a trecento lire, fermo restando che il matrimonio doveva essere stato contratto prima della pubblicazione di detta legge.
Negli anni successivi venne fatta giustizia su un ultimo aspetto della Spedizione dei Mille: fu esteso il diritto alla pensione anche ai garibaldini che, partiti da Genova e da Quarto sulle navi Lombardo e Piemonte nonché quelli partiti da Livorno sopra la tartana Adelina comandati da Andrea Sgarallino, che doveva unirsi nelle acque del canale di Piombino con le citate navi, erano sbarcati a Talamone il 7 maggio 1860 su ordine del Generale Garibaldi, per effettuare la nota diversione nel territorio dello Stato Pontificio, sotto il comando del colonnello Callimaco Zambianchi e che posteriormente avevano raggiunto la spedizione in Sicilia facendo parte del Corpo dei Volontari. La pensione vitalizia venne elevata prima a lire 2000 annue, poi a lire 4000 annue; i superstiti, che nel 1910 (in occasione del cinquantenario della spedizione) erano 160, nel luglio del 1920 erano scesi a 73 e nel gennaio del 1922 a 49; presumibilmente alla data dell’ultimo aumento, decretato nel 1927, ne erano rimasti forse una decina.

Antonello Tedde e Gianluca Moro