Angelo TarantiniCaprera AnticaRubriche

L’Associazione Emancipatrice Italiana

L’esperienza patriottica di Tarantini non si concluse con la Spedizione dei Mille. Egli continuò con certezza sino al 1862 a prendere parte attivamente ai movimenti insurrezionali.
Conferma se ne ha dal Diario Politico del noto deputato sardo Giorgio Asproni; questi il giorno 26 agosto 1862 in Genova,vi annotava: «Garibaldi è già in Calabria. Pare sia sbarcato a Melito […] La Monarchia sarebbe perduta se il Comitato della Società Emancipatrice fosse composta d’uomini risoluti. Sono ambiziosi di fare […] e consumano giorni inestimabili in discussioni. Oggi sono stato in mezzo a loro. Là ho trovato Sulliotti, che consigliava a tentare una diversione in Sardegna. Non ne capiscono la grande importanza. Più tardi son venuti in casa Sulliotti e Trentino della Maddalena, unico Sardo dei Mille, abbiam parlato dell’isola nostra e dei suoi doveri ». Il giorno seguente l’Asproni annota: «27 Agosto 1862, Genova – Calma apparente e preparazione di agitazioni popolari. Hanno dato lire 800 a S. e T. per andare in Sardegna e dare spinta a movimenti in favore di Garibaldi. Ma mi han detto che vanno a gittare una forte colonna di volontari sugli Appennini colla speranza che ingrossi a misura che va giù».
Sul merito della nota riportata dall’Asproni e precisamente sulla possibilità di creare in Sardegna un movimento che fiancheggiasse la contemporanea iniziativa di Garibaldi finalizzata alla liberazione di Roma, se ne ha conferma nell’Epistolario del nizzardo, relativo a quel periodo.
Il Generale, infatti, che dalla fine di giugno era sbarcato con i suoi più stretti collaboratori a Palermo, preoccupato per il malcontento della popolazione meridionale, in particolare della Sicilia, e per le vessazioni dell’amministrazione piemontese, in seguito alle grandi acclamazioni e consensi ricevuti dal popolo siciliano nei giorni seguenti lo sbarco, cominciò gradualmente a pensare di poter realmente promuovere, a distanza di due anni, una “Seconda Spedizione dei Mille” con il chiaro intento stavolta di raggiungere Roma. Egli, tramite una lettera inviata il 14 luglio 1862 da Palermo, firmandosi Comandante delle Forze Nazionali in Sicilia, affidava all’avv. giornalista Giovanni Sulliotti il compito di recarsi in Sardegna per arruolarvi un battaglione di volontari sardi, con l’onore di comandarlo.
Il sardo Giovanni Sulliotti era un noto avvocato pubblicista, di origine greca da parte di padre, residente a Cagliari. Di sicura autorevolezza e fede patriottica, vista la fiducia più volte riposta in lui dallo stesso Garibaldi, nell’arco del 1860 durante la Spedizione dei Mille, dopo aver ottenuto l’incarico da Agostino Bertani, grande organizzatore e coordinatore degli aiuti in favore di Garibaldi, di costituire insieme ad altri un Comitato di Provvedimento in Cagliari (associazioni patriottiche filo garibaldine), raggiunse i volontari sbarcati in Sicilia, nelle file della terza spedizione, quella guidata dal generale Enrico Cosenz, giungendo a Palermo il 6 luglio, insieme ad altri ventotto volontari sardi imbarcatisi a Cagliari il giorno prima.
Dopo lo sbarco, nel mese di luglio, su ordine di Garibaldi venne incaricato di promuovere in Sardegna una raccolta di fondi tesa ad organizzare l’arruolamento di volontari costituenti il Battaglione scelto dei Cacciatori sardi, di cui, poi, ne assunse il comando.
Il Battaglione, probabilmente posizionato a Palermo, venne comandato nel mese di settembre di raggiungere Napoli ove doveva far parte, su disposizione di Garibaldi, della Brigata guidata dal Colonnello Clemente Corte, la quale Brigata, inquadrata nella 18a Divisione dell’esercito meridionale (Generale Nino Bixio), era schierata nell’area di Aversa. Il Battaglione, guidato da Giovanni Sulliotti, raggiunse quindi Maddaloni, su diretta istruzione di Garibaldi, in previsione dello scontro finale con le truppe borboniche nella Battaglia del Volturno (1 ottobre 1860).
L’esperienza nella Campagna meridionale di Sulliotti si concluse con le sue impreviste dimissioni dall’incarico, dovute a motivi che esulavano dalla sua volontà, probabilmente per contrasti avuti con il Generale Bixio da cui dipendeva. Dietro sua domanda, venne quindi inizialmente destinato presso l’Auditorato Generale dell’Esercito Meridionale Italiano, poi presso un suo Tribunale Militare, seguendo il trasferimento dello stesso nel febbraio del 1861 a Torino; rimasto patriota e fervente volontario, Sulliotti fu presente nel 1862 alle iniziative della Associazione Emancipatrice di Genova, come già detto nel citato Diario Politico di Asproni; per questo motivo fu soggetto a controllo da parte delle autorità di polizia, forse coinvolto nella serie di arresti operati dal governo nel capoluogo ligure, in seguito alle manifestazioni di protesta sorte in varie città del Regno scaturite dallo scontro di Aspromonte del 29 agosto. Vi è da dire al riguardo che in quel momento la linea repressiva del governo innescò, soprattutto nella componente militare-conservatrice del corpo sociale, un atteggiamento di ostilità e di prevaricazione nei confronti dei volontari e dei democratici in genere.
A tale riguardo citiamo l’episodio che coinvolse, sempre a Genova, il fratello di Giovanni Sulliotti, Anastasio, il quale, per difendere la propria libertà di pensiero, venne coinvolto in un duello con un regio ufficiale. Terminate le campagne risorgimentali Giovanni Sulliotti si impegnò in un programma di colonizzazione agricola della Sardegna; in particolare il progetto riguardava l’area della vallata del fiume Coghinas. Costituita sotto i migliori auspici la società con sede a Genova, all’avvio dei lavori iniziati nel 1868 e contraddistinti da ottimi risultati, subentrarono poi elementi di difficoltà collegati alla scarsa industrializzazione delle colture oggetto dell’iniziativa, fatto che determinò nel volgere di sei anni il dissesto finanziario ed il fallimento dell’impresa.
Tornando al tema principale, va detto che Genova era stata teatro, già alcuni mesi prima, di un importante fatto politico, maturato sul finire del 1861. Infatti, il 15 dicembre di quell’anno, nel capoluogo ligure si svolse, indetta dal Comitato centrale di provvedimento per Venezia e Roma, un’importante assemblea dei Comitati di Provvedimento, cui parteciparono rappresentanti di tutte le Associazioni democratiche della libera stampa, nonché dei deputati dell’opposizione. L’obiettivo prefissato, sostenuto fra l’altro dalla Società Unitaria (d’ispirazione mazziniana) di Genova era quello di convertire tali Comitati in Associazioni e quindi, con nuove elezioni, giungere ad un’unica organizzazione politica; altro scopo dell’assemblea era quello di adottare uno Statuto di riordinamento di tutte le società liberali d’Italia. L’Assemblea elesse nuovo Presidente del Comitato centrale di provvedimento il mazziniano Achille Sacchi.
La tanto agognata Assemblea generale venne indetta per il 9-10 marzo 1862 a Genova. Garibaldi, avuto sentore del nuovo clima che andava diffondendosi fra le associazioni, si faceva promotore nel mese di febbraio di una circolare con cui esortava e spronava i Comitati di Provvedimento e le Società liberali d’Italia a partecipare alla nuova generale adunanza per completare il processo di riunificazione.
La fusione dei Comitati di Provvedimento (garibaldini) e delle Associazioni Unitarie (mazziniane), nonché delle varie società liberali, realizzò il nuovo sodalizio che prese il nome di Società Emancipatrice Italiana o anche Associazione Unitaria Emancipatrice, rappresentata da un comitato esecutivo di ventiquattro membri di varie tendenze; presente Garibaldi, al quale si chiese come pegno della restaurata concordia, il richiamo a Mazzini, in quel momento esiliato a Londra. Fra gli intendimenti, suscitati da grandi attese, vi erano i propositi di fare di Roma la ca­pitale d’Italia, ottenere l’uguaglianza giuridica tra le classi sociali e promuovere il concorso dei volontari per assi­curare l’unità della patria.
Nel Consiglio dell’Associazione Unitaria Emancipatrice, Garibaldi in persona propose tre nominativi in rappresentanza della Sardegna: l’ammiraglio maddalenino Antonio Susini, il sassarese Giovanni Antonio Sanna e l’Asproni, dei quali nessuno venne poi eletto.
L’iniziativa della fusione dell’associazionismo liberale, democratico e repubblicano, cadde, sicuramente non per caso, in un delicato momento politico; già da tempo l’imperatore francese Napoleone III, grande ostacolo dell’unità italiana, premeva sul governo piemontese al fine di sciogliere le associazioni democratiche e liberali. Di fronte a tali condizionamenti della vita politica italiana, il Primo Ministro Bettino Ricasoli si oppose, in nome della libertà di associazione garantita dallo Statuto Albertino, ma indignato da intrighi e complotti della corte sabauda, frutto della soggezione nei confronti della monarchia francese, diede le dimissioni il 28 febbraio 1862. Vittorio Emanuele II affidò quindi l’incarico del nuovo governo, il 3 marzo 1862, a Urbano Rattazzi, il quale, storico avversario del conte Cavour, nonché uomo di fiducia del re, impose all’azione politi­ca una decisa ripresa delle iniziative. Subito Garibaldi, partito da Caprera, si recò a Torino dove ebbe colloqui col Re e col Rattazzi, ulteriore riprova che il ministero e il Generale agissero ormai d’accordo e che l’Italia fosse alla vigilia di grandi avvenimenti.
I membri dell’Emancipatrice, dal canto loro, non intendevano star fermi ed approfittando di un viaggio in Lombardia di Garibaldi, programmato dalla fine di marzo e per tutto il mese di aprile, nel quadro dell’istituzione dei Tiri a Segno Nazionali, promossi dal governo e la cui Direzione venne affidata allo stesso, convennero il 5 maggio 1862 a Trescore nel bergamasco, ove Garibaldi si era soffermato per delle cure termali. Sulla spinta della maggioritaria componente mazziniana, i volontari forzarono i tempi, incettando armi, vestiti, scarpe e denaro pronti per l’invasione del Trentino. Il governo frenò ma la notizia superò i confini giungendo fino a Parigi e a Vienna; mettendo in difficoltà Rattazzi ed i funzionari delle prefetture, che dichiarandosi ignari del tutto, decisero, a questo punto, di reprimere il tentativo di invasione fermando ed arrestando fra il 14 e 15 maggio i volontari concentratisi fra Sarnico e Palazzolo.
Tutto ciò comportò un giro di vite, con il governo sabaudo che puntò il dito sulle associazione democratiche ed in particolare sulla Società Emancipatrice istruendo un processo nei confronti del Comitato dirigente, con la motivazione di aver violato l’art. 13 dell’allora Codice di Procedura Penale per « eccitamento alla ribellione e alla rivolta contro i poteri dello Stato a mezzo di carta stampata ». Nelle carte del procedimento giudiziario svoltosi nel giugno del 1862 presso il Tribunale di Torino non figura, comunque, il nome di Angelo Tarantini.
I collegamenti dell’Associazione Emancipatrice con i tentativi patriottici (spedizioni di Sarnico ed Aspromonte) furono innegabili; a tale proposito si riporta una nota della Prefettura di Genova, che richiama una raccolta di firme promossa dal Comitato della Emancipatrice ligure a sostegno della Spedizione su Roma, nonché un proclama di Mazzini per un prestito di 300 mila franchi da aggiungersi ai due milioni raccolti per lo stesso scopo dai Club democratici di Londra. Essa ebbe una vita assai breve; venne sciolta, poco dopo l’emanazione del proclama del re Vittorio Emanuele II, fortemente impensierito dal chiaro grido di Garibaldi in Sicilia « Roma o Morte! ».
Il Governo Rattazzi, con Regio Decreto del 10 agosto 1862, sopprimeva quindi le Società democratiche e liberali fra cui la Società Emancipatrice di Genova, il cui spirito unitario tante speranze e progetti aveva destato fra i patrioti italiani.
La Commissione esecutiva della Emancipatrice di Genova, con una circolare indirizzata alle Associazioni Democratiche Italiane denunciò « la flagrante violazione dello Statuto [Albertino], giacché veniva leso il diritto d’associazione, per il quale il Ministro Rattazzi, allo scopo di limitarne l’esercizio, aveva presentato alla Camera un progetto di legge mai sottoposto alla discussione »; la lettera si concludeva: «[…] in ogni caso noi delegati da cinquecento associazioni a rappresentare il patto d’unione sapremo mantenere l’incarico affidatoci, sapremo difendere il diritto di cui ci fa forti lo Statuto e staremo al nostro posto ». Il giorno seguente il Ministero degli Interni telegrafava alla Prefettura di Genova l’ordine di procedere al Sequestro delle sedi. Il 23 agosto a Genova, « in esecuzione degli ordini ministeriali contenuti in Decreto in data 20 corrente mese, di procedere allo scioglimento della Società Emancipatrice Italiana e di tutte le affiliate qualunque sia la loro denominazione », l’Ispettore di Questura Francesco Ansaldo e l’Ispettore di Sezione Gonfalonieri Oreste, effettuavano il sequestro di tutto il materiale cartaceo esistente nella sede. I soci dell’Associazione presenti, all’atto di firmare il verbale, sottoscrivevano la seguente nota: «Noi sottoscritti membri del Comitato Dirigente della Associazione Unitaria di Genova protestiamo con tutta quanta la nostra energia in nome di tutta l’Associazione contro l’atto arbitrario, illegale di scioglimento dell’Associazione medesima, siccome flagrante violazione delle vigenti leggi, affermiamo più altamente che mai il nostro diritto di associarsi garantito dallo Statuto, e dichiariamo che non cederemo che alla forza brutale».
Sulla certezza della partecipazione di Tarantini alla Costituzione ed ai lavori della Associazione Emancipatrice di Genova, le ricerche condotte non hanno dato riscontri sulla sua presenza. La mancanza del suo nome, ad esempio, nei verbali delle assemblee, ci porta ad affermare che non svolse un ruolo di primo piano negli accadimenti della stessa.
Sulle idee di Tarantini, circa le vicende risorgimentali di quel momento, si può affermare che verosimilmente fu un moderato, patriota certo ma con equilibrio, sicuramente non acceso mazziniano; lo si deduce dal fatto che, a differenza del giornalista sardo repubblicano Brusco Onnis, non si separò dagli altri volontari durante la sosta di Talamone, come fecero invece alcuni repubblicani indignati dal proclama di Garibaldi, “Italia e Vittorio Emanuele”, con il quale l’Eroe volle contrassegnare la Spedizione dei Mille.
D’altro canto la sua attività all’interno dell’Emancipatrice di Genova, quando con Giovanni Sulliotti si impegnò a sostenere in Sardegna movimenti in favore di Garibaldi e dell’attivismo garibaldino, maturando in tal senso una coscienza sul ruolo, non più di “spettatore”, ma di “attore” del movimento sardo all’interno del processo unitario nazionale, denota la sua sintonia con la figura del nizzardo che, secondo la ricostruzione fatta all’inizio della sua vita, rappresentò con la sua presenza a Caprera l’unico ed esclusivo punto di riferimento per l’allora ventenne maddalenino. La scelta, poi, dopo i fatti dell’Aspromonte, di dedicarsi alla propria vita privata racchiude, forse, la sua consapevolezza che il progetto di unire l’Italia sarebbe inevitabilmente naufragato senza, o ancora peggio contro, la monarchia sabauda.
Ed infatti l’unità del paese, consacrata due anni prima, fu messa a dura prova nello scontro civile e politico dell’Aspromonte, quando il governo Rattazzi fece arrestare Garibaldi ed i garibaldini partecipanti ad un’impresa che aveva come suo obiettivo la conquista di Roma; in seguito alla breve contesa i volontari furono reclusi in varie fortezze. Sulla possibile presenza di Tarantini allo scontro calabrese, la documentazione presente nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma, attesta la sua presenza in quei giorni a Torino ed in un momento nel quale Tarantini come visto si era già dimesso dall’esercito regolare.
In particolare un documento, datato Torino 2 settembre 1862 e rilasciato dal Ministero della Guerra – Divisione Provvisoria Volontari Italiani, testimonia che in quel frangente Tarantini consegnò alla commissione ivi preposta il brevetto originale per la Medaglia della 1a Spedizione in Sicilia dell’anno 1860, al fine di ottenere l’autorizzazione ministeriale a fregiarsene. Dietro questa prova scritta, si evince che Tarantini non prese parte al tentativo garibaldino di marciare su Roma; per i partecipanti infatti tratti tutti in arresto si pose rimedio all’incresciosa situazione, solo un mese dopo, allorché Vittorio Emanuele II firmando il decreto di amnistia, recante la data del 5 ottobre 1862, ne permise la scarcerazione.
Il giorno seguente la richiesta sopraccitata, il nostro inoltrò, sempre a Torino, una domanda48 al Ministro dell’Interno per essere ammesso all’assegnamento a favore dei superstiti dei Mille volontari che fecero parte della prima Spedizione di Marsala, come previsto da un apposito decreto del governo che, in attesa dei futuri adempimenti legislativi di carattere pensionistico, gli accordava 40 lire mensili, a decorrere dal 1° luglio 1862, per sopperire alle necessità dei prodi trovatisi in stato di necessità per il relativo abbandono della famiglia; nel prosieguo della domanda egli chiede “allo stesso tempo volerglielo trasmettere alla sua dimora all’Isola della Maddalena”, avvalorando la tesi che il suo domicilio, alla Maddalena, durò verosimilmente per tutto il periodo “patriottico”.
L’ufficio ministeriale, il medesimo giorno della richiesta, fatto che la dice lunga sulla preoccupazione della monarchia circa i movimenti insurrezionali di quel momento, gli concede tramite il Questore di Torino, la cifra di lire 20 « sui fondi dell’emigrazione », « al fine del suo rimpatrio », per poi fargli corrispondere la « rimanente somma spettantegli all’isola della Maddalena sua patria e domicilio ». Con eguale celerità il giorno successivo il Ministro degli Interni accolse ufficialmente la suddetta istanza, concedendo a Tarantini l’assegno provvisorio mensile di lire 40, incaricando il Sottoprefetto di Tempio, competente per l’isola della Maddalena, a corrispondergli, a partire da tutto il secondo semestre dell’anno, l’importo di mese in mese “mediante di lui presentazione personale al funzionario che sarà delegato di fargli tale pagamento con esibizione del certificato di vita”.
Gli atti compiuti da Tarantini in quei giorni, non furono casuali; unanimi furono i sentimenti di cordoglio e di smarrimento che seguirono ai fatti dell’Aspromonte, su cui comunque pesava la posizione attendista, se non del governo, perlomeno della monarchia; nello specifico va rilevata la posizione del Presidente del Consiglio Rattazzi, a cui va riconosciuto un più coerente atteggiamento nei confronti dell’impresa di Garibaldi. A sostegno ci provengono i lavori della seduta parlamentare del Senato del 20 agosto 1862, tali eventi provocarono all’interno del movimento patriottico un clima di timore per la possibile reazione; si creò un clima di rappresaglia governativa nei confronti dei circoli democratici, politica evidenziatasi nel mese di agosto del 1862 con lo scioglimento delle associazioni emancipatrici e delle società democratiche in genere, con l’ordine dello stato di assedio in Sicilia e quindi nelle province napoletane. Il clima di repressione si evidenziò con l’arresto dei deputati di fede garibaldina Mordini, Fabrizi e Calvino a Napoli, e con l’episodio dell’uccisione di sette volontari garibaldini, della colonna Trasselli, da parte dalle truppe regolari nel villaggio di Fantina nei pressi di Messina.
Del clima di repressione messo in atto, illuminanti sono le lettere del patriota Francesco Crispi, nel carteggio compreso fra il 29 agosto ed il 3 settembre. Da Torino Crispi scrive a Sebastiano Tecchio, allora presidente della Camera: « Corre voce di arresto per me e Bertani. Fate che non sia violato l’art. 45 dello Statuto »; da Torino Crispi e Bertani scrivono al Ministro Britannico Hudson: « Chiediamo asilo politico perché minacciati di arresto »; da Torino Tecchio a Crispi: « Non correte pericolo perché non siete in flagrante reato come il generale La Marmora rispose al primo ministro Rattazzi per giustificare l’arresto di Mordini, Calvino e Fabrizj a Napoli »; da Genova Bertani informa Crispi: « Mi negarono di poter visitare Garibaldi »; da Genova Asproni a Crispi: « Qui arrestano quotidianamente in vasta scala. I giovani imbarcano per ignota destinazione. Gli sbirri percuotono ed insultano i manettati. M’assicurano che ieri in via Carlo Alberto davan pugni e calci crudelmente a giovani politi mentre li conducevano in prigione, aggiungendovi lo scherno: Andate sotto le mura di Roma ».
In questo contesto si può ben comprendere la scelta compiuta dal Tarantini e da tanti altri giovani; in un tale clima di repressione la scelta, fra un iniquo processo seguito da una certa prigionia e l’opportunità di defilarsi seguendo una strada che permettesse di superare il difficile momento, era comprensibilmente logica.

Antonello Tedde e Gianluca Moro