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Garibaldi a casa

Racconta Clelia Garibaldi (1867-1959) che una volta capitarono all’ improvviso a Caprera sei “signori milanesi”, certamente molto facoltosi ed eleganti. Il Generale, con l’ abituale, bonaria semplicità insistette affinché si fermassero a colazione con i suoi familiari. Quel giorno, la pesca era stata fortunata e venne loro servita una lussuosa “bouillabesse” alla provenzale, profumata d’ aglio. Agli ospiti parve un piatto al tempo stesso “rustico” e “forte” e ne mangiarono con molta discrezione, un po’ imbarazzati. Garibaldi allora fece portare in tavola formaggio pecorino di produzione della propria fattoria (a Caprera allevava mucche, pecore e capre) e fave fresche, visto che si era in primavera. Gli ospiti, inorriditi, sbocconcellarono il formaggio e nascosero le fave nelle tasche e nelle falde delle “redingotes”. Il bozzetto è gustoso e offre un aspetto dei gusti semplici dell’ Eroe dei Due Mondi. La figlia, nelle sue memorie, ci racconta che era “quasi” astemio e beveva raramente il vino: qualche volta “colorava” l’ acqua che beveva. Era anche poco proclive a consumare la carne, pur essendo un buon cacciatore, dotato di ottima mira. Del lungo soggiorno nell’ America del Sud (14 anni) conservava però una curiosa abitudine, che lo portava a concedersi una cena carnivora, il “ciurasco”. Posava sulla brace del camino una fetta gagliarda di manzo e poi tagliava con il suo coltello la parte già cotta in una lunga fetta, riponendo la carne ancora cruda all’ interno ancora sul fuoco. Fetta dopo fetta, la mangiava tutta. La struttura della tenuta di Caprera era patriarcale. Oltre agli animali da cortile, c’ erano alveari di api per il miele e la cera. Si curavano orti per le verdure e i legumi freschi, giardini e campi con alberi da frutto. Garibaldi adorava anche i fichi d’ India che sbucciava con l’ inseparabile coltello con grande abilità e offriva ai suoi bambini. C’erano viti e olivi. Francesca Armosino (madre di Clelia e di Manlio, la fedele governante che lui poi aveva sposato) con le donne della fattoria mungeva ovini e bovini e produceva burro, ricotta e formaggi freschi tra i quali il prediletto pecorino da accompagnare alla fave, la sua colazione preferita in primavera. Garibaldi aveva costruito personalmente un forno a volta: vi si muoveva il pane (quello di lunga conservazione biscottato e i panini piccoli da consumare giornalmente). Da buon ligure aveva insegnato alla moglie a cucinare i “canestrelli”. Dalla sua giovinezza nizzarda s’ era infine portato dietro la “pissaladière”, la rustica focaccia salata con la cipolla, le olive e le acciughe salate. Clelia ci racconta inoltre che sulla mensa quotidiana comparivano le tagliatelle fatte in casa, il minestrone alla genovese con il pesto, le trenette al pesto, i ravioli (Clelia si era specializzata a confezionarli piccoli e tutti eguali). D’ inverno non disprezzava la “paciarina” una polenta un po’ lunga che condiva con olio di frantoio e formaggio. I piatti genovesi erano stati introdotti, nella versione più accurata, dal genero Stefano Canzio (che aveva sposato Teresita, figlia di Anita), raffinato buongustaio. Garibaldi parlava in genovese con Canzio e in dialetto nizzardo con Menotti (anche lui figlio di Anita) . Garibaldi amava il pesce: mangiava con le mani ricci e gamberetti (aveva insegnato a pescare a tutti i figli) e amava le fritture. Il pesce bianco di dimensioni ragguardevoli era invece lessato in “court bouillon” come si usava in Liguria nel secolo XIX. La “bouillabesse”, come s’ è visto era un retaggio provenzale e il grongo in buridda. Ma, grazie alle ricette di Canzio, Garibaldi da buon marinaio amava il baccalà in “brandade” alla provenzale e lo stoccafisso accomodato alla genovese. C’ è anche una curiosità per quell’ epoca: Garibaldi non disprezzava il pesce crudo, appena pescato, condito con olio e limone. Sovente d’ estate, il suo menu era vegetariano: adorava i carciofi, cotti, crudi e soprattutto in frittata; le insalate di erbe selvatiche e i ravanelli; si preparava personalmente una sorta di “condigion” di pomodori, acciughe e basilico e magari olive in salamoia. Non consumava quasi mai le prede di caccia (pernici, tordi e beccacce) cui provvedeva il figlio Menotti e aveva proibito di sparare agli uccellini. Visto che non beveva quasi mai il vino, che cosa beveva il Generale? Il caffè (con i cui fondi si scuriva la barba: debolezza d’ un vecchio rubacuori) era fisso dopo ogni pasto, gradiva il the e, alla maniera argentina, il “mate” succhiandolo con l’ apposita cannuccia dalla zucchetta. Combatteva la sete con l’ orzata preparata con le “sue” mandorle personalmente dalla moglie. Alla figlia Clelia quasi adolescente faceva mangiare la manna di cui aveva alcuni alberi. Era comunque, anche a tavola, di gusti spartani: mangiava un piatto solo, parcamente. Racconta la figlia che però godeva a tavola della felicità degli altri. gli appennini e le ande Il menu garibaldino: Pesto e canestrelli, carne alla brace alla moda argentina, bouillabesse provenzale fave e pecorino è il piatto che il generale nel racconto della figlia Clelia offrì ad alcuni ospiti a Caprera.

L’Organetto di Barberia è uno strumento molto particolare, ha la cassa di risonanza di forma quadrata e di colore scuro, adornata da quattro colonnine che sporgono alla base e fungono da piedini, in corsivo è incisa la marca “Ariston”. La musica viene letta dal braccetto o pettine, provvisto di 24 denti, ognuno per ogni nota musicale, mediante i fori praticati sul disco; il meccanismo viene azionato per mezzo di una manovella ed il suono viene prodotto quando ogni singolo ago fuoriesce dal corrispondente foro praticato su disco. Il ritmo musicale è scandito dalla lunghezza e dalla posizione dei fori, mediante i fori brevi si ottengono le parti ritmiche, da quelli più lunghi le melodie.