Caprera AnticaGiuseppe GaribaldiRubriche

Caprera 1864 Garibaldi incontra Bakunin

Cheta è la notte e un placido
Blando chiaror di luna
Luneggia di Caprera
Sulla scogliera bruna.
Ed io fra sogni ruvidi
Calpesto il mio sentier
Parmi calcar solingo
Fra l’ombra e fra mister.
G. Salvi “Una notte a Caprera” 1891

Il cielo stellato e il mare calmo promettevano un viaggio tranquillo e senza pericoli. A bordo della nave passeggeri con destinazione Sardegna nessuno conosceva quell’uomo alto e grosso, che con la giovane moglie era diretto all’isola della Maddalena. Forse solo il comandante del traghetto aveva intuito la vera destinazione di quello straniero dalla folta barba nera e dall’abbigliamento alquanto trasandato. Da quando, quattro anni prima, erano partiti in mille da Quarto e in pochi mesi avevano fatto l’Italia, dal porto di Genova erano passati un po’ tutti: re, ministri, rivoluzionari, poeti e avventurieri d’ogni genere.

Tutti volevano andare a far visita all’Eroe dei Due Mondi. Questi, infatti, ancora convalescente dopo gli scontri dell’anno prima con il regio esercito sull’Aspromonte, si era ritirato sulla sua piccola e inospitale isola di Caprera.

Non sorprese dunque nessuno sentire quell’uomo parlare con la sua giovane donna ora in russo ora in inglese. Egli non poteva che essere uno dei tanti ammiratori del Generale. Nonostante i modi un po’ sbrigativi e il tono alto della voce, si capiva che era un uomo colto, deciso e probabilmente con un’importante missione segreta da compiere. Quella notte fu visto pensieroso scrutare il mare, scrivere in coperta e fumare enormi sigari fino a notte fonda, quando, vinto dalla stanchezza, si assopì per alcune ore.

La traversata fu, secondo le previsioni, senza sorprese. Le stesse forti correnti delle Bocche di Bonifacio non diedero problemi. In meno di dodici ore il vapore arrivò a Cala Gavetta, il piccolo porto della Maddalena. Era la mattina del 20 gennaio 1864. La temperatura dell’aria era particolarmente mite e certo non paragonabile a quella cui la coppia era abituata nella lontana Siberia.

L’uomo con la barba era, infatti, il pericoloso e irriducibile rivoluzionario Michail Bakunin, da poco tempo evaso dal domicilio coatto di Irkutsk, un gelido e povero paese siberiano di circa 25000 abitanti. La polizia zarista, dopo averlo inseguito per anni e averlo condannato a morte per ben due volte, era riuscita ad arrestarlo e ad imprigionarlo quale irriducibile terrorista, capace di sollevare le masse popolari con il suo entusiasmo e la sua forbita eloquenza.

Di nobile e ricca famiglia, il padre era stato addetto alle legazioni russe a Firenze, Napoli e Torino negli ultimi anni del Settecento, aveva abbandonato la carriera militare per dedicarsi con passione agli studi filosofici, abbracciando ben presto le idee politiche più radicali. Prima di essere catturato e condannato al domicilio coatto, aveva girato mezza Europa occidentale e stretto amicizia con molti rivoluzionari del vecchio continente. Ora tornava, dunque, in Inghilterra dopo quasi dieci anni di forzato esilio con una rinnovata volontà di accendere cospirazioni un po’ ovunque e fondare sette rivoluzionarie per sollevare il popolo contro ogni forma di tirannia.

Al momento le sue erano ancora idee di rivolta piuttosto generiche, lontane da quelle che in seguito avrebbe maturato e che sarebbero state alla base del nascente movimento anarchico internazionale.

L’amico e compatriota Alessandro Herzen nelle sue memorie ci ha lasciato un ritratto alquanto colorito e del tutto corrispondente alla  personalità del personaggio:
Bakunin si riprese in mezzo a noi dopo nove anni di silenzio e di solitudine.
Egli discuteva, predicava, dava ordini, urlava, decideva, organizzava, esortava l’intero giorno, la notte intera, per le intere ventiquattro ore. Nei pochi momenti che gli rimanevano, si gettava sul tavolo, lo ripuliva del tabacco e delle cenere, e scriveva cinque, dieci, quindici lettere a Semipalatinsk e a Arad, a Belgrado e a Costantinopoli, in Bessarabia, Moldavia e Russia Bianca.
La sua attività, la sua pigrizia, il suo appetito, il suo disordine, come tutte le altre sue caratteristiche, compresa la gigantesca statura e il continuo trasudare, erano di proporzioni sovrumane. Era ancora, a cinquant’anni, uno studente vagabondo, un bohémien senza casa”.

Il socialista Filippo Turati, che ebbe modo di incontrarlo diverse volte e in seguito di polemizzare anche aspramente con lui, ha tracciato un ritratto dell’uomo non tanto diverso da quello precedente:
Alto, fronte vasta, grande testa leonina, biondo, occhi azzurri, zigomi pronunciati, negletto nell’abito oltre ogni dire, ogni suo lineamento così come ogni azione ispira la larghezza, la benevolenza e la forza.
La sua vita è irregolare, vive di the e di tabacco e veglia notti intere a tavolino scrivendo lettere, opuscoli, con vena indiavolata, tenendosi in rapporti con i rivoluzionari di tutto il mondo. Nulla gli sfugge, tutto assimila, tutto trasforma nel moto perpetuo del suo cervello, sempre aperto alla confidenza, sempre pronto all’azione…”.

Fuggito dal domicilio coatto grazie alla complicità di alcuni amici locali, dopo un lungo e rocambolesco viaggio che lo aveva portato dal Giappone all’America del Nord, Bakunin era finalmente giunto a Londra il 27 dicembre 1861. La notizia della sua fuga dalla lontana Siberia e l’arrivo in Europa si diffuse rapidamente anche in Italia, grazie soprattutto alle notizie riportate dal giornale milanese L’unità Italiana.

La permanenza in territorio inglese si era rivelato quanto mai produttivo e culturalmente stimolante. A Londra era stato aiutato e ospitato da alcuni amici della numerosa comunità russa in esilio. Furono loro a trovargli una decorosa sistemazione alla periferia della città e a fornirgli il sostentamento economico necessario per continuare l’attività politica. Fra i tanti incontri da lui avuti con intellettuali, filosofi e politici, non c’è dubbio che quello con Giuseppe Mazzini e Aurelio Saffi rivestì una particolare importanza.

Questi gli avevano illustrato la situazione italiana in continuo fermento e la necessità di proseguire la lotta per liberare Roma e cacciare i Savoia.

Ma, al momento, il suo desiderio più grande era di conoscere l’altro grande mito rivoluzionario italiano, l’uomo forse più conosciuto e popolare al mondo, quello il cui nome aveva sentito pronunciare molte volte perfino nella lontana Russia: il generale Garibaldov.

In un suo manoscritto del 7 gennaio 1872 il rivoluzionario russo aveva infatti annotato:
Mi trovavo nella capitale della Siberia orientale, a Irkutsk, al tempo della memorabile campagna di Garibaldi in Sicilia e a Napoli. Ebbene posso affermare che tutta la gente di Irkutsk, quasi senza eccezione, mercanti, artigiani, operai, perfino i funzionari, prendevano appassionatamente le parti del liberatore contro il re delle Due Sicilie, fedele alleato dello Zar!
La posta arrivava allora a Irkutsk due volte alla settimana, il telegrafo ancora non esisteva, e bisognava vedere con quale accanimento si arraffavano i giornali e con quale entusiasmo si festeggiava ogni nuova impresa del generale liberatore!
Negli anni 1860-63, quando il mondo rurale russo era in profonda agitazione, i contadini della Grande e della Piccola Russia attendevano l’arrivo di Garibaldov, e se si domandava loro chi fosse, rispondevano“E’ un grande capo, l’amico della povera gente, e verrà a liberarci”.

Per realizzare quel desiderio, che rappresentava anche una sua pressante necessità politica, in precedenza aveva inviato diverse lettere al Generale, che allora si trovava nella sua amata isola di Caprera.

Il primo messaggio del 31 gennaio 1862, affidato al fratello Aleksandr in partenza per l’Italia, conteneva l’invito a lottare ad oltranza contro l’Austria, a sconfiggere la Russia e a favorire la Federazione dei popoli slavi. Si trattava in sostanza del suo credo politico, che si concludeva con l’accorato invito all’eroe dei Due Mondi perchè continuasse la lotta per la libertà di tutti i popoli oppressi.

Poi seguirono almeno altre due lettere datate 10 maggio 1862 (sequestrata dalla polizia austriaca a Peschiera, in seguito all’arresto del suo latore, il russo Andrej Niciporenko) e 9 gennaio 1863.

Esattamente un anno dopo, il 10 gennaio, dopo una breve sosta a Torino, giunse dunque in Italia attraverso il passo del Cenisio con credenziali di Mazzini e Saffi per conoscere Garibaldi e, tramite lui, prendere contatto con gli altri patrioti italiani.

A Genova, grazie ad una lettera di presentazione di Mazzini e Saffi, incontrò Agostino Bertani, il patriota che, grazie alle sue frequentazioni nel mondo democratico socialista e la sua personale conoscenza di Garibaldi, facilitò la realizzazione del suo progetto. Tutto l’ambiente repubblicano genovese lo accolse con calore, e lo protesse dalle spie della polizia, messe in allarme dalle autorità inglesi. D’altra parte, stando a diverse testimonianze di amici, Bakunin condusse gran parte della sua esistenza “sprovvisto di mezzi di sussistenza, sopravvivendo grazie alle risorse che gli fornivano i suoi amici più prossimi; vivendo più che modestamente, utilizzando la maggior parte della sua magra disponibilità in denaro per pagare l’affrancatura della sua voluminosa corrispondenza”.

Dai compagni genovesi apprese della critica e complessa situazione economicopolitica italiana, ricavandone la convinzione che il popolo, specie quello di Roma, non aspettasse altro che un segnale per riprendere la strada della libertà.

Dopo essere sbarcato alla Maddalena, raggiunse finalmente Caprera, grazie a una piccola imbarcazione presa a noleggio da un pescatore locale. Ad attenderlo sulla banchina, se così possiamo chiamare quella del piccolo attracco all’isola, c’era il Generale in persona con la classica camicia rossa. Lo accompagnava il suo inseparabile segretario particolare Giovanni Basso. Un caloroso e commosso abbraccio segnò il loro primo incontro quella mattina del 20 gennaio 1864.

I due erano quasi coetanei: Bakunin aveva cinquant’anni, Garibaldi cinquantasette.

Il Generale aveva scelto di stabilirsi a Caprera circa dieci anni prima.

Grazie all’eredità di suo fratello Felice e su consiglio dell’amico sardo Pietro Susini, nel 1855 aveva acquistato metà di quell’arido scoglio.

L’altra metà l’acquistò qualche anno dopo grazie alla colletta promossa dalla sua “fidanzata” inglese Emma Roberts, dal Duca di Sutherland e dagli amici Julei Salis Schwabe e Clarence Paget. Gli inglesi, dunque, si dimostrarono ancora una volta affascinati dall’uomo e pronti, per ragioni politiche evidenti, ad assecondare le sue imprese antiaustriache e antifrancesi. Una volta perfezionato l’atto d’acquisto, iniziò subito i lavori per rendere il posto vivibile per sé e la piccola corte che lo seguiva ovunque.

Il suo impegno personale nella realizzazione dell’opera fu totale e, con l’aiuto del figlio maggiore Menotti e di pochi altri amici garibaldini, restaurò una casa diroccata e abbandonata, già di proprietà di un pastore locale, iniziando contemporaneamente a coltivare l’arida terra circostante.

Nel corso degli anni, ne trascorsero almeno cinque, nacquero la Casa Bianca, la dimora principale, la Casa di Ferro, in realtà di legno e adibita ad alloggio per gli ospiti, la stalla, i magazzini e un piccolo mulino a vento.

La Casa Bianca fu costruita in blocchi di granito locale rivestiti dentro e fuori con intonaco e calce. Essa era composta da quattro stanze, poste tutte a piano terra, sormontate da un tetto bianco. In attesa che la costruzione fosse terminata, Garibaldi aveva vissuto, senza mai lamentarsi, sotto una tenda militare da campo con il figlio Menotti e altri pochi volontari.

La storica Fernanda Poli, nel suo prezioso lavoro di presentazione del Museo Garibaldino di Caprera, così la descrive:

Presenta tutte le caratteristiche di una dimora ottocentesca, planimetricamente articolata in una successione di vani intercomunicanti disposti intorno ad un piccolo ambiente privo di finestre che accoglie la scala d’ingresso alla terrazza…le stanze della casa possono assumere elasticamente funzioni diverse in relazione alla variabilità dei componenti della famiglia, nucleo tanto dilatato da accogliere nel suo interno amici e collaboratori”.

Anche l’arredamento, coerentemente con il carattere del Generale, era spartano.

La stanza da letto di Garibaldi serviva anche da studio. C’era un letto di ferro, uno scrittoio, due librerie, un cantaràno e un camino costantemente acceso per ridurre l’umidità.

Alle pareti erano appesi i suoi ricordi più cari: una treccia dei capelli di Anita, il ritratto della piccola Rosita, morta a Montevideo e altre fotografie di amici.

Uomo umilissimo e poliedrico, Garibaldi si era immediatamente trasformato da marinaio a muratore, da generale ad agricoltore, dimostrando sempre grande entusiasmo e disponibilità per ogni tipo di lavoro. Quest’ultima sua esperienza, quella d’agricoltore, trovò compimento negli appunti e nelle annotazioni dei suoi Quaderni agricoli, che ancora oggi rappresentano una fonte importante per conoscere meglio l’uomo Garibaldi, quello lontano dai campi di battaglia.

Il novello Cincinnato tentò anche di trasformarsi, non senza qualche soddisfazione, in un apicoltore e in un botanico. Come ci ricordano i suoi tanti biografi, Garibaldi vestiva sempre uguale: portava calzoni grigi legati in vita con una cinghia, indossava una camicia rossa, il poncho o una giacca da caccia, portava un cappello a larghe tese o la tipica papalina, calzando sempre stivali ferrati.

Nel corso degli anni aveva fatto amicizia con diversi pastori sardi, con i quali andava spesso a caccia o a pesca, partecipava a feste popolari, a matrimoni e a battesimi in molti villaggi. In tutte quelle occasioni era Lui l’invitato d’onore, la celebrità che dava lustro alla festa.

Uno dei suoi più cari amici era il pastore Ignazio Sanna di Li Muri, piccola località presso Arzachena. Ogni volta che il Generale arrivava, la moglie di Ignazio, Maria Prunedda, gli faceva gran festa e preparava per l’occasione una ricca cena a base di cacciagione.

A Caprera era circondato da diverse persone: il segretario Giovanni Basso, i garibaldini Giovanni Froscianti, Luigi Gusmaroli (ex prete), Giuseppe Nuvolari, Francesco Bideschini, Jacopo Sgarallino, Felice Orrigoni, i figli Menotti Ricciotti e il genero Stefano Canzio, il marito della figlia Teresita. Vi era poi Francesca Armosino, giunta per seguire i figli e i nipoti, che in seguito divenne
sua moglie.

L’isola era diventata il centro morale d’Europa. Si assisteva a un pellegrinaggio continuo di emissari del re, di Cavour, di Mazzini.

Arrivavano rivoluzionari di ogni paese d’Europa, delle associazioni operaie e di mutuo soccorso, intellettuali, giornalisti, pittori, poeti, ministri e perfino nobili.

Lo stesso ufficio postale della Maddalena dovette essere rafforzato per accogliere e smistare tutta la posta che giungeva da tutto il mondo.

Dal piroscafo una volta al mese, venivano scaricati alla Casa Bianca quintali di pacchi e di lettere. Di queste ultime molte non erano affrancate perché gliele mandavano poveri emigranti, contadini e operai. Lui o il suo segretario rispondevano a tutti con grande dispendio di denaro e di energie.

Grazie a quelle lettere e ai giornali che quotidianamente era solito leggere, era al corrente di tutto ciò che accadeva in Italia e nel mondo. Un visitatore, Candido Augusto Vecchi raccontò che il generale cenava verso le sei per poi ritirarsi nella sua camera da letto e, dopo aver letto i giornali, dormire non più tardi delle dieci.

La figlia Teresita spesso allietava le serate suonando il piano e cantando arie di opere popolari. Agli ospiti venivano offerti ricchi pranzi a base di pesce mentre le cene terminavano con l’immancabile sigaro.

L’eroe dei Due Mondi stava, dunque, a Caprera circondato dall’affetto della sua famiglia e dei suoi fedelissimi ed era oggetto delle speranze dei democratici di mezza Europa e dei timori dei governi che, stando alle mille voci in circolazione, lo davano presente o pronto a partire ora per Balcani, ora per la Polonia o magari per Venezia, ancora in mano gli austriaci.

Le ferite subite sull’Aspromonte, che l’avevano costretto per tutto il 1863 ad usare una carrozzina per i suoi spostamenti, ora, seppur lentamente, stavano guarendo e il desiderio di lasciare l’isola per un nuovo campo di battaglia, in effetti, cresceva giorno dopo giorno.

Bakunin oltre alla curiosità di conoscere l’eroe, che aveva infiammato i cuori anche dei suoi connazionali, sentiva di avere una missione politica da compiere.

Aveva bisogno di lui e doveva convincerlo a prendere posizione a favore dei polacchi nella loro lotta contro i russi, magari organizzando una spedizione di volontari.

Il 23 gennaio 1863, infatti, i polacchi erano insorti contro i russi, suscitando l’entusiasmo di tutti gli altri popoli oppressi e in cerca di libertà. Garibaldi, in realtà, si era già espresso molto chiaramente in proposito in un appello Ai popoli d’Europa il 15 gennaio. Ma di questo Bakunin forse non era ancora a conoscenza. Nel suo appello-manifesto aveva gridato alto e forte “Non abbandonate la Polonia”.

Non pago di ciò, Garibaldi aveva anche incaricato Benedetto Cairoli e Antonio Mordini di trattare con i patrioti polacchi e ungheresi per organizzare un movimento rivoluzionario in grado di mettere in difficoltà gli austriaci. Infine pensò d’organizzare una spedizione che, partendo da Costantinopoli, fosse in grado di provocare la rivoluzione in Romania e nella Russia meridionale.

Nonostante i suoi appelli però erano partiti per la Polonia solo pochi volontari, guidati da Francesco Nullo, che là, purtroppo, perse la vita.

L’invito di Bakunin trovò dunque in Garibaldi un interlocutore attento e convinto, tanto che il russo annotò nelle sue memorie:
E’ chiaro che egli, con tutto il partito del movimento si prepara all’azione in primavera: in che cosa consista nell’azione è ancora difficile dire, gli ostacoli sono immensi. La guerra, o ciò che sarebbe meglio, la rivoluzione in Germania, potrebbero influire enormemente su tutto ciò”.

I due parlarono a lungo di politica, si scambiarono opinioni e speranze circa le sorti dell’Europa e del popolo italiano oppresso dalla miseria e dall’ignoranza.

Per tre giorni i due amici immaginarono sollevazioni delle popolazioni in tutta Europa, ponendo, nello stesso tempo, le basi per imminenti azioni rivoluzionarie volte a liberare Roma dal potere temporale del papa e farne la capitale d’Italia.

I due uomini si somigliavano molto: entrambi erano intolleranti d’ogni dogma, visceralmente anticlericali e sempre pronti a gettarsi in ogni avventura che prefigurasse un mutamento morale e sociale del popolo. Come Garibaldi anche Bakunin, stando alle parole del naturalista tedesco Carl Vogt, “era incapace di una vigliaccata, fremente d’indignazione di fronte a delle ignominie sociali, che adora, allo stesso modo, la rivoluzione e le donne, che ama poco gli uomini di spada e disprezza gli uomini avidi di denaro”.

Quel che divideva i due rivoluzionari non era dunque il carattere quanto le letture e gli studi filosofici, che certo Garibaldi non poteva vantare come il suo interlocutore.

Bakunin, durante la sua permanenza in Europa e prima di essere arrestato, aveva infatti arricchito la sua cultura letteraria leggendo e studiando le opere di molti filosofi tra i quali in particolare Hegel, Fichte, Proudhon. A Londra aveva poi avuto la possibilità di conoscere e discutere con lo stesso Marx, verso il quale però non nutrì mai eccessiva simpatia né umana né politica.

Mentre Bakunin discuteva di politica passeggiando per l’isola con Garibaldi, sua moglie, la polacca Antonia Kwiatkowski, non potendo fare altrettanto con Francesca, donna semplice e priva di alcun interesse culturale, si interessava della cucina, dei prodotti tipici sardi e chiacchierava amichevolmente con gli altri ospiti della casa. Dal loro matrimonio, celebrato nel 1858, Antonia aveva venticinque anni meno di Michail, nacquero tre figli: Carlo, Sofia e Marussia.

Il 1864 segnò una svolta decisiva nel pensiero politico di Bakunin. A partire da quell’anno, infatti, il rivoluzionario russo si dedicò completamente alla causa del socialismo rivoluzionario.

Da quel momento la questione sociale costituì la sua principale preoccupazione, più ancora dei singoli problemi nazionali.

Da Londra Giuseppe Mazzini intanto vigilava su quell’incontro, s’informava presso gli amici genovesi e, pur conoscendo le loro diverse posizioni circa i tempi, i modi e gli interlocutori da scegliere per liberare Roma e sollevare il popolo contro la monarchia, era consapevole che avrebbe dovuto, almeno per il momento, contare sul loro aiuto.

Egli sapeva che la loro separazione ideale e politica sarebbe stata presto inevitabile, ma capiva anche che nell’immediato occorreva riunire le forze di tutti e non disperdere nessuna energia rivoluzionaria, qualunque espressione assumesse.

Mazzini si mostrava anche interessato alla sorte che avrebbe avuto l’associazione tra mazziniani e garibaldini che il Generale aveva tentato di fondare, senza troppa fortuna, proprio in quei giorni.

Pur essendo consapevole della enorme popolarità di Garibaldi e della forza intellettuale di Bakunin, Mazzini, sempre più fermo nelle sue convinzioni, era però certo che alla fine sarebbero state le sue idee a trionfare e che la storia gli avrebbe dato ragione.

Di quei tre giorni di visita e dell’ambiente di Casa Garibaldi a Caprera abbiamo un’altra importante e diretta fonte d’informazione. Si tratta della testimonianza diretta di Bakunin.

In una lettera alla contessa Elisabeth Salhias de Tournemire il russo, infatti, descrisse dettagliatamente la sua permanenza sull’isola e tratteggiò la figura politica e umana del mitico Garibaldov. Si tratta di un documento storico di grande importanza e una ricca fonte di informazioni sulla prima tappa italiana di Bakunin, sul volontario esilio di Garibaldi e sulla sua vita a Caprera.

….Garibaldi ci ha accolto molto amichevolmente ed ha prodotto su di noi due un’impressione profonda. E’ guarito del tutto, e benché zoppichi un poco è forte come un leone e sta in piedi dalla mattina alla sera.
Lavora nel suo giardino, il quale anche se non è bellissimo è straordinariamente interessante, perché è tutto seminato dalle sue mani sulla roccia e tra la roccia.
La vista è triste e bellissima.
Non c’è che una casa in pietra, bianca, pomposamente chiamata “Palazzo di Garibaldi”, un’altra piccola di ferro ed una terza, ancor più piccola, di legno.
Nel giardino ha giovani alberi e piante, aranci, limoni, mandorli, viti, fichi….. A Caprera c’era quella che in Russia chiamano estate. Siamo rimasti tre giorni e tutti e tre furono sereni. Anche le sere e le notti erano calde.
Da Garibaldi abbiamo trovato un giovane segretario politico, Guerzoni, che funge ora da anello nella nuova unione tra Mazzini e Garibaldi, Basso, militare e marinaio, compagno americano di Garibaldi e i due figli di questi, Menotti e Ricciotti, oltre ad alcuni soldati e marinai garibaldini, in tutto una dozzina di persone. E’ una repubblica democratica e sociale.
Non conoscono la proprietà: tutto appartiene a tutti. Non conoscono neppure gli abiti da toilette, tutti portano delle giacche di grossa tela con i colletti aperti, le camicie rosse e le braccia nude, tutti sono neri dal sole, tutti lavorano fraternamente e tutti cantano….
In genere questa piccola adunata a Caprera di ragazzi sani, forti e gloriosi, di cui ognuno s’è già reso famoso per qualche gesta di coraggio, mi ha rammentato le prime pagine del “Corsaro” di Byron. Ma tra loro sta Garibaldi, grandioso, calmo, appena sorridente, l’unico lavato e l’unico bianco in questa folla di uomini neri e magari alquanto trasandati. Egli è infinitamente buono e la sua bontà s’allarga non soltanto agli uomini ma a tutte le creature….
In mezzo ad una lunga conversazione Garibaldi mi ha detto: “In questi ultimi tempi la vita mi è venuta a noia, io mi separerei volentieri da lei, ma vorrei morire in modo utile alla patria e alla libertà di tutti i popoli. Intendevo partire per la Polonia, ma i polacchi mi fecero dire io sarei stato inutile là e che il mio arrivo avrebbe causato più danno che giovamento. Perciò ho rinunciato.
Del resto io stesso ammetto che sarò più utile a loro qui che non là. Se faremo qualcosa in Italia, ciò sarà proficuo anche per la Polonia, che ora, come sempre, ha tutta la mia simpatia”….
E’ stato straordinariamente caro e gentile con mia moglie e con un’inglese che beveva non poco e aveva il naso rosso. Accompagnandoci la fece sedere su una sua barca ed essa pescò con un lungo bastone dei ricci di mare, e delle specie di frutti di mare. Il 23 siamo tornati a Genova, il 26 passando per Livorno sono giunto a Firenze e – ve lo dirò in segreto – sono già innamorato dell’Italia e ho dato la mia parola a mia moglie che in un mese parlerò italiano”.

La sera del giorno 23 gennaio 1864 Bakunin e sua moglie Antonia presero congedo da Garibaldi, per iniziare un’altro lungo viaggio nel resto dell’Italia, che, oggi sappiamo, avrebbe cambiato profondamente il corso delle storia e degli uomini. Il viaggio a Caprera, pur non avendo prodotto nulla di politicamente importante, almeno dal punto di vista pratico e immediato, non deluse il rivoluzionario russo, che conservò a lungo il ricordo di quel loro primo incontro come uno dei più emozionanti della sua vita.

L’uomo gli era piaciuto e tra i due era subito nata una istintiva simpatia.

Per tre giorni i due rivoluzionari avevano passeggiato, discusso, pranzato e cenato insieme.

Durante le loro lunghe passeggiate alla scoperta dell’isola avevano scambiato opinioni politiche, auspicando il determinarsi di nuovi scenari rivoluzionari in Italia e in Europa. Ogni tanto, quasi per prendere fiato, si sedevano sopra un sasso a contemplare il mare, immaginando la liberazione di terre e di popoli lontani.

Contrariamente alle sue abitudini, Garibaldi si era intrattenuto a conversare con il suo ospite fino a notte tarda, sempre in compagnia di un buon sigaro e di un bicchiere di vino. Il clima particolarmente mite di quei giorni, le giornate assolate e il cielo straordinariamente stellato di quelle notti, impressionarono molto i coniugi Bakunin, facendo da cornice alle loro conversazioni.

“L’Orso siberiano” e il “Leone di Caprera”, così i due erano comunemente chiamati, si lasciarono nella convinzione d’aver posto le basi di future gloriose battaglie per la liberazione dei popoli e l’emancipazione del proletariato.

La prima tappa di Bakunin, una volta lasciata Caprera, fu Firenze. I patrioti del Granducato, alcuni dei quali legati alla massoneria, lo accolsero con tutta la considerazione che si deve all’uomo nuovo della causa democratica, a colui che può imprimere una svolta radicale alla situazione.

In Toscana si fermarono circa sei mesi e conobbero molti esponenti dell’ambiente democratico massonico come Alberto Mario, Lodovico Frapolli, Giuseppe Mazzoni, Ettore Socci e Luigi Castellazzo. Fra una riunione e un’altra, ebbero la possibilità di visitare la città e di conoscere le sue opere d’arte.

I tempi stavano però rapidamente cambiando e Bakunin si proponeva come l’uomo più adatto ad interpretare i nuovi bisogni e le nuove aspettative del popolo italiano. Da lì a poco tempo sarebbe nata, infatti, la Prima Internazionale dei lavoratori nella sua versione marxista e anarchica. Mazzini e Garibaldi continuarono ad essere considerati i due padri della Patria, ma il loro pensiero, pur rappresentando sempre il punto di riferimento di ogni nuova idea di progresso, diventò con il passare degli anni sempre più ininfluente e marginale. Garibaldi e Bakunin si rividero e si abbracciarono, sempre in assenza di Mazzini, ancora una volta al Congresso Internazionale della Lega per la pace e la libertà dei popoli di Ginevra nel 1867, per poi seguire le rispettive gesta solo da lontano.

Ciò che accadde al congresso stupì tutti. Bakunin, ormai ai ferri corti con quelli dell’Internazionale (marxista), entrò nell’aula fra l’imbarazzo generale. A quel punto Garibaldi, che era il presidente dell’assemblea, non esitò a scendere dal palco per abbracciarlo fra gli applausi generali. Bakunin poté così svolgere tranquillamente il suo intervento e, nonostante le premesse, riscuotere non pochi apprezzamenti.

Nel 1870, dopo la proclamazione della Repubblica, Garibaldi corse in Francia e, alla testa di circa 20000 volontari mal equipaggiati e nonostante le sue precarie condizioni di salute, si batté ancora una volta con coraggio contro i prussiani fino al giorno della proclamazione della pace.

Alla notizia delle sue valorose gesta Bakunin annotò nelle sue memorie un’altra importante affermazione di stima nei confronti di Garibaldi:
Nessuno ammira più sinceramente, più profondamente di me l’eroe popolare Garibaldi. La sua campagna di Francia, tutta la sua condotta in Francia è stata veramente sublime di grandezza, di rassegnazione, di semplicità, di perseveranza, d’eroismo. Mai mi era sembrato così grande”.
Intanto, mentre Bakunin, nel marzo 1864, si trovava a Firenze ed era intento ad organizzare le prime associazioni di libertari, Garibaldi iniziava un trionfale viaggio a Londra in cerca di nuovi fondi per le sue future imprese.

Nella capitale inglese fu accolto come un eroe e fu circondato dall’affetto del popolo e dall’ammirazione di molti nobili. Mazzini, Cavour e il Re, seppur con occhi e interessi diversi, sorvegliavano entrambi da lontano. Il futuro avrebbe riservato loro strade diverse, grandi illusioni e molte amarezze.

Il 1864, contrariamente alle aspettative dei democratici, si chiuse, infatti, con l’Enciclica di Pio IX “Quanta cura” con un’appendice il “Sillabo”, che conteneva la condanna del liberalismo, del laicismo e del cattolicesimo liberale e che confermava la supremazia della Chiesa sullo Stato.

Per Pio IX era condannabile il principio democratico della volontà del popolo in quanto sovvertitore dei diritti divini di sovranità da parte delle legittime monarchie. Nonostante quella posizione oscurantista del papato, nel 1870 Roma divenne finalmente capitale d’Italia, ma fu il Re ad entrarvi da vincitore, mentre Mazzini era prigioniero a Gaeta e Garibaldi restava sorvegliato dal regio esercito a Caprera.

Il socialismo anarchico nell’‘800 e nei primi decenni del ‘900 conobbe una felice stagione, per essere poi fu superato da quello marxista, che proprio nel 1864, sotto la guida di Carlo Marx, aveva dato vita a Londra alla “Associazione internazionale dei lavoratori”. Mazzini poi non fece in tempo a vedere trionfare le istituzioni repubblicane, che, come è noto, si affermarono solo ottanta anni dopo la sua scomparsa.

La raccolta di dischi rinvenuti a casa Garibaldi è composta per lo più da motivi ballabili molto conosciuti che rallegravano le serate e gli incontri conviviali che si tenevano a Caprera. Ciascun disco riporta il titolo del brano, in tre lingue diverse, il nome dell’autore e un numero di catalogo riferito alla produzione editoriale della Elrich di Lipsia. La collezione presente a Caprera consta di 53 dischi, 25 di questi producono un suono apprezzabile, mentre per gli altri 28 non è stato possibile riprodurre il relativo suono.