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Speranza Von Schwartz

Maria Esperance von Schwartz, nota anche con lo pseudonimo di Elpis Melena o semplicemente Speranza come la chiamava il generale, fu probabilmente la donna più importante per Garibaldi dopo Anita; scrittrice colta e raffinata, ebbe un influsso positivo sul compagno soprattutto sotto l’aspetto intellettuale, ma si rifiutò di sposarlo per ben due volte, probabilmente irritata o solo frenata dal fatto che, nel frattempo, l’eroe italiano aveva avuto una figlia dalla cameriera Battistina Ravello; mostrando una generosità fuori dal comune, Speranza si prenderà cura della bambina, Anna Maria Imeni detta Anita, destinata a Menotti e Ricciotti Garibaldi Menotti e Ricciotti Garibaldi morire a soli sedici anni a causa di una meningite fulminante.

Quando Garibaldi ebbe creato condizioni di abitabilità nella sua isola vi trasferì i figli. Accompagnati dalla servetta Battistina Ravello, nizzarda, analfabeta. Assai modesta anche quanto ad intelligenza. Si era nel ’56 e la vita a Caprera era più che disagiata, addirittura primitiva, rude. Il lavoro spossante. Avvenne che la Battistina, tra tutti quei guerrieri contadini pieni di energie, istintivamente scelse il suo posto vicino al padrone e lo seguì senza porsi problemi. Anche nel letto. Dopo un anno, nell’ottobre del ’57, sbarcò a La Maddalena la scrittrice Speranza Von Schwartz col preciso intento di conoscere l’uomo di cui tutto il mondo parlava. Nata in Inghilterra, e naturalizzata cittadina inglese, Speranza era figlia di un ricco banchiere di Amburgo; sposata una prima volta rimase vedova a sedici anni; si risposò con il banchiere Schwartz, dal quale divorziò.
Attraente, ricca, elegante, intelligentissima, essa conosceva molte lingue europee, compreso il greco. Scriveva indifferentemente in ciascuna di esse; era molto colta, conosceva le letterature e la storia dei vari paesi, ed era una buona intenditrice di arte e di musica. Ma forse ciò che colpì maggiormente Garibaldi fu lo spirito indomito, inquieto e avventuroso di lei, che la spinse a viaggiare senza sosta per l’Europa, la dove più incandescenti si facevano le lotte di indipendenza, dove fervevano il pensiero e l’opera dei molti “profeti” degli ideali di redenzione.
Dotata di un coraggio virile, unito alla dolcezza e a una grande sensibilità, amazzone perfetta, signora della conversazione, diplomatica sottile: queste le qualità che forse più di ogni altra l’avvicinarono al Garibaldi dell’epoca.
A Caprera l’amore scoccò subito. Fin dal primo giorno e appena essa lasciò l’isola, in novembre, già partivano le appassionate lettere del Generale; ma Speranza fu tanto intelligente da saper indirizzare quel sentimento dirompente in un profondo legame di solidarietà, quasi come tra compagni d’armi, che piacque a Garibaldi in maggior misura di un rapporto fisico che non vi fu mai. L’amore fu tutto espresso da lui nelle lettere e nell’accettazione riconoscente dei mille servizi e doni che riceverà dall’amica negli anni seguenti; da lei, in una generosità senza limiti.
Tra l’altro, Speranza scriverà moltissimo sull’Uomo di Caprera, sia col suo nome sia con lo pseudonimo di Elpis Melena, traduzione in greco di Speranza (Elpis) e Schwartz (= nera = Melena): essa fu tra i massimi divulgatori contemporanei delle idee e delle gesta del Generale. Ma fece assai di più: rischiò alcune volte la vita per recapitare messaggi clandestini di lui.
Una volta fu anche catturata e chiusa in una squallida prigione da cui evase in modo romanzesco; riuscì ad introdursi con abilità al Varignano quando Garibaldi vi giaceva ferito e prigioniero, isolato da tutti, e lo curò come una sorella. Accorse, mandata da lui, a curare i garibaldini feriti, a tramarne la fuga, a soccorrerli con viveri e mezzi economici. Fu a conoscenza di tutte le debolezze e gli errori del grande amico. Seppe contenere le gelosie che egli assai spesso suscitò in lei con la sua disarmante ingenuità, dentro alla calda maturità di quel suo essere donna davvero eccezionale.
Tenne infine per lui una mole incredibile di rapporti con diplomatici esteri, col mondo internazionale dei cospiratori, con gli editori della pubblicazione delle Memorie e di altri scritti.
Quando Speranza visitò Caprera la prima volta, le bastarono pochi giorni non solo per infiammare l’animo del Generale, ma per conoscere a fondo l’ambiente che lo circondava e la comunità maddalenina: visitò i Roberts, i Collins, Webber, esplorò La Maddalena, il Parau (Palau), parlò con la gente. A Caprera, Speranza aveva compreso benissimo dalle occhiatacce della Battistina il rapporto intercorrente tra questa e il Generale; e ne ebbe conferma quando nell’agosto successivo tornò nell’isola. Garibaldi le propose di sposarlo ad essa, con molto tatto e buona grazia, declinò l’offerta pur lasciando in lui la certezza del profondo sentimento che li univa.
Seguirono poi le molte lettere d’amore dell’Uomo di Caprera alla bella inglese: esse iniziavano invariabilmente con: “Speranza amatissima”, oppure “Preziosa amica mia” con espressioni come: “Voi dovete considerarmi per l’avvenire come cosa vostra… Mi sento l’uomo più felice della terra dacchè vi ho avvicinata…”, ecc. le risposte di Speranza iniziavano sempre con “Amico mio, amico amatissimo” o al massimo, con ” amicounico e amatissimo” e si occupavano degli scritti autobiografici di lui, e della sua salute, degli incarichi che egli le affidava, i quali andavano dalla liberazione di un prigioniero, alla ricerca di una donna di servizio.
Venne la campagna di Lombardia e, mentre Speranza cercava di aiutarlo in ogni modo, Garibaldi si innamorò follemente della diciottenne marchesina Raimondi. La sposò affrettatamente a Fino Mornasco e la lasciò il giorno stesso delle nozze perché avvertito da una lettera anonima, sulla porta della chiesa, che la moglie era incinta d’un altro. Speranza verrà a sapere ciò dai giornali. Si aggiunga che, sette mesi prima a Caprera, la servetta Battistina Ravello aveva partorito una bambina, Anita, frutto del suo rapporto col Generale. Il 10 febbraio del ’60, un mese dopo lo sconsiderato matrimonio, Garibaldi riprese la corrispondenza con la donna amata come se nulla fosse avvenuto, solo chiedendole “… se posso con sicurezza mandarvi lettere e manoscritti. Vostro sempre”.
Speranza superò questi colpi con grande dignità, comprendendo che essi erano conseguenti alla stessa natura di tale uomo: fu da questo periodo che il loro rapporto prese l’impronta di una amicizia tra compagni d’armi.. Essa tornò a Caprera nel ’61 e poi ancora nel ’63 e nel ’64 e ogni volta ne ripartì con la certezza che il vero Garibaldi era l’uomo che passava dalle epiche battaglie alla vita dei campi, rozza ed elementare, circondato dagli amici, dai figli e dalle donne che il destino gli mandava; chiedergli una qualsiasi adesione a sentimenti più esclusivi e sottili, sarebbe stato come pretendere da lui che si uniformasse ad etichette e consuetudini formali: impossibile!
Battistina Ravello, dopo la nascita di Anita, aveva lasciato Caprera e se n’era tornata al suo paese con la bambina, mettendo il Generale nelle angustie per la sorte di questa; egli ne parlò a Speranza ed essa subito gli offrì di assumerne l’affidamento. Passarono alcuni anni in cui la servetta si oppose a consegnare la piccola al padre ed egli dovette rivolgersi anche al tribunale per poter esercitare la patria potestà. Ecco un altro aspetto peculiare dell’animo di Garibaldi: nutriva per i figli un amore di tipo patriarcale; che fossero legittimi o meno, egli li voleva per se, come un dono del cielo e gli amava con identico calore.
La Schwartz lo comprese fino in fondo e seppe essergli vicina anche in ciò. Quando Anita ebbe nove anni, finalmente egli poté riaverla per intervento del tribunale e dopo un mese, nel luglio 1868, la affidò all’amica perché provvedesse alla sua educazione.
La dama inglese si trovò di fronte ad una piccola selvaggia, violenta e vendicativa. Impossibile tenerla con se: era indispensabile metterla in un ottimo collegio ed essa ne scelse uno svizzero costoso e famoso, dove la piccola rimase alcuni anni, sempre a sue spese e seguita nel migliore dei modi. Ma nella sua visita a Caprera Speranza si avvide anche che la famiglia Garibaldi si era accresciuta di un’altra donna e di un’altra figlia: fin dal 1865 infatti vi era giunta Francesca Armosino in qualità di nutrice dei figli di Teresita e di Stefano Canzio.
Si trattava di un’astigiana, cercata accuratamente dagli amici del Generale perché non potesse con le sue grazie insidiare tutti quegli uomini; e infatti non era affatto bella e neppure graziosa. Ma, a differenza della Battistina, Francesca era intelligente e di piglio energico, sapeva ispirare fiducia o per lo meno la seppe ispirare al capofamiglia, che a poco a poco la lasciò prendere possesso del ménage domestico. In breve tempo la donna divenne la serva – padrona e di lì il passo fu breve perché conquistasse il ruolo di incontrastata compagna del Generale.
Il 16 febbraio 1867 nacque Clelia. Il fatto che un anno dopo egli affidasse Anita a Speranza lascia intendere che allontanasse volentieri dalla Casa Bianca un motivo di risentimento della sua donna, risolvendo nel contempo il problema dell’educazione della bambina; e la Schwartz era troppo esperta delle cose della vita per non rendersi conto che in questo momento Garibaldi stava strumentalizzandola in nome di quel gagliardo egoismo che è uno dei tratti caratteristici dei grandi uomini d’azione. Non disse nulla perché in realtà non sarebbe stata intesa dalla perfetta buona fede dell’amico; ma d’ora in poi la sua devozione si espresse soltanto nell’educazione di Anita, dalla quale per altro non ebbe alcuna soddisfazione e compenso morale.
Si diradarono anche le visite a Caprera, dove tornò nel 1870 e poi nel ’74, quando ormai i figli di Francesca Armosino erano tre. La scrittrice rivolse il suo ardore ideale alla causa della libertà del popolo cretese e si stabilì a Creta per parecchi anni, dedicando tutte le sue energie intellettuali, fisiche ed economiche a quegli infelici patrioti, fino ad ammalarsi e quasi a morirne. G
aribaldi la seguiva da lontano sempre con affetto, ma nelle lettere la sua partecipazione pare attenuata per l’età e per i guasti che l’artrite andava producendo nel suo forte fisico. Nel ’75 Speranza, che si trovava ad Atene per riprendersi dalla malattia, si fece raggiungere da Anita: non si è mai saputo esattamente cosa sia intervenuto tra Garibaldi e lei in quella circostanza. Io propendo a credere che Anita, ora quindicenne, si sia incapricciata di voler raggiungere a quel punto il famoso genitore – che aveva visto soltanto nell’infanzia – e abbia fatto ricorso a una menzognera messinscena scrivendogli che la Schwartz la maltrattava: la cosa non è incompatibile col carattere sempre dimostrato dalla ragazza. Ma credo anche che la Armosino e i figli maggiori del Generale, che non avevano mai celato la gelosa antipatia per la scrittrice, abbiano dato particolare credito ed enfasi alla lettera di Anita.
Menotti fu incaricato di andare ad Atene a prendere la giovane e di accompagnarla a Frascati, dove allora si trovava Garibaldi con la famiglia. Quindi tutti insieme tornarono a Caprera. Qui Anita poté scatenarsi in tutta la sua naturalità, ma dopo pochi giorni fu assalita da una fortissima febbre e morì, non si sa se per un’infezione intestinale o per un’insolazione.
Ben 73 anni dopo, Clelia Garibaldi nel suo libro Mio padre diede una versione iniqua e priva di fondamento sulla intera vicenda di Anita, presentando la Schwartz come “la tedesca innamorata e feroce”, colpevole della “pietosa avventura della bimba Anita”. Poiché Clelia, all’epoca dei fatti, aveva appena 8 anni, è evidente che il suo racconto è frutto della versione accreditata da Francesca Armosino e poi tramandata nella memoria familiare.
Dal canto suo Speranza Von Schwartz, chiuse dentro di sé come in un forziere la conoscenza che ella ebbe fino in fondo delle uniche debolezze del grande Giuseppe Garibaldi: nella sua dignità di donna interruppe ogni rapporto anche epistolare con lui e soltanto finì un suo libro di memorie con una frase emblematica in cui diceva che egli era come un astro nel cielo e che, come il sole, aveva alcune macchie.
A proposito di Francesca Armosino, alcuni autori ne parlano come una sorta di virago, malevola, avida, possessiva e volgare; altri dietro l’onda della più scoperta vena retorica, ne fanno l’ideale compagna dell’eroe, quasi una mitica figura di donna italica.