Alberto della Marmora e Voyage en Sardaigne
Alberto Ferrero della Marmora scrive probabilmente l’opera più famosa tra i resoconti di viaggio dell’Ottocento. Il suo ”Voyage en Sardaigne”, apparso in una prima edizione nel 1826 e poi successivamente nel 1840 con l’aggiunta di una seconda parte, sarà da subito non solo un modello ma anche uno stimolo per i viaggiatori successivi che raggiungeranno l’isola.
Nato nel 1879 a Torino, nel 1806 frequenta i corsi della Scuola Imperiale Militare di Fontainebleue si avvia a questa carriera, ma nel 1821 viene dispensato dal prestare ulteriore servizio e nel 1824 riceve l’ordine di recarsi in Sardegna in confino per simpatie liberali, e qui si trattiene a lungo. Anche quando è costretto ad assentarsi per pur brevi periodi, continua a raccogliere in appunti le sue impressioni sull’isola.
Il ”Voyage”, impreziosito da 19 tavole illustrate, è nel complesso una straordinaria descrizione paleontologica e geologica, fisica e politica della Sardegna, con accurate ricerche sulle sue produzioni naturali e le sue antichità, una piccola enciclopedia frutto di una passione che dura una vita intera.
Dai suoi viaggi, che egli stesso non esita a definire avventurosi perché privi di qualsiasi comodità e soggetti ai pericoli e delle strade e dei villaggi abitati da genti non sempre amiche, oltre che della malaria, scaturisce l”’Itinéraire de l’île de Sardaigne”, uscito a Torino nel 1860. Questa seconda opera è più specificatamente dedicata al viaggiatore, come una sorta di manuale nel quale sono indicate le cose più ”ragguardevoli” che non si può trascurare di vedere e conoscere.
Tra il 1823 e il 1824 il capitano William Henry Smyth per conto dell’Ammiragliato britannico redige una carta nautica, della quale Della Marmora si servì, in collaborazione con lo specialista De Candia, per realizzare con strumentazione scientifica una carta geografica, che venne fatta incidere a Parigi nel 1845 e per oltre cinquant’anni rimase la più perfetta rappresentazione dell’isola, chiudendo il tempo della cartografia empirica e aprendo quello della geodetica.
Nell’insieme il Conte dedicò alla Sardegna oltre cinquanta pubblicazioni di taglio scientifico che, se non ebbero grande diffusione nell’isola, la ebbero all’estero, focalizzando l’attenzione su una terra fino ad allora avvolta nel buio, dandole valore e attirando altri sguardi curiosi.
Ma le isole più importanti dei dintorni della Sardegna settentrionale sono incontestabilmente quelle che costituiscono l’arcipelago della Maddalena, a sud dello stretto di Bonifacio. La prima isola che si incontra venendo da capo Ferro verso nord è quella di Caprera; consiste in una grande massa granitica di ventidue miglia marine di circonferenza; non c’è villaggio e la popolazione si riduce a pochi pastori stanziali. Da una ventina d’anni vi si è stabilita una famiglia inglese che possiede una casa e un giardino. È inoltre l’isola dove abitò il generale Giuseppe Garibaldi che vi possedeva una casetta e dei terreni; risiedeva lì quando, come accadde a Cincinnato, questo celebre condottiero fu sottratto alla vita dei campi per prendere parte attiva alla guerra d’indipendenza del 1859.
Ho piazzato un segnale trigonometrico nel punto culminante di Caprera, chiamato “Monte Tejalone”, perché da questo luogo si vede benissimo gran parte della costa orientale del nord Sardegna e tutti gli isolotti che ne emergono e di cui mi interessava rilevare esattamente la posizione; inoltre è visibile tutta la costa est e sud della Corsica; ho anche potuto scorgere l’isola di Montecristo che avevo già avvistato dalla cima del Limbara. Caprera è molto frastagliata, soprattutto verso sud, dove si trova porto Palmas, una cala naturale con un buon ancoraggio. L’isola della Maddalena, a ponente di Caprera, ne è separata solo da un canale strettissimo, detto “passo della Moneta”; questo passaggio si allarga verso nord, dove affiora il piccolo isolotto dei Giardinelli. L’isola è grande pressappoco come Caprera ed è anche esclusivamente granitica, come tutte quelle che le sono vicine dalla parte della Sardegna a sud dello stretto; non erano mai state considerate dipendenti dal Regno sardo prima dell’anno 1767; solo allora il viceré Des Hayes vi inviò una forza navale, composta di piccoli bastimenti del re, per prenderne possesso in suo nome. Queste isole erano abitate appena da qualche famiglia di pastori originari della Corsica, e di costumi pacifici. Esse passarono senza difficoltà sotto la nuova dominazione e alla vita sociale; si costruirono anzitutto un piccolo forte, per premunirsi contro gli assalti dei Barbareschi, e una chiesa, col titolo della Trinità. Stabilirono legami matrimoniali con le famiglie dei pastori della Sardegna settentrionale e in pochissimo tempo crebbe una popolazione di persone robuste, formate dal sangue delle due nazioni. Questi insulari mantennero il loro vecchio idioma, che è una specie di italiano corrotto. Le abitudini della vita pastorale fecero dapprima posto a quelle di un popolo di agricoltori, ma ben presto ci fu un ritorno alla vocazione marittima, perché la pesca e il contrabbando per mare procurarono loro molte più risorse che la coltivazione di un suolo granitico ingrato e scarso d’acqua. Così, in pochissimo tempo, questa popolazione divenne essenzialmente marittima, tanto che da una cinquantina d’anni e soprattutto oggi non ci sono più uomini validi nel borgo, dove non si vedono, per così dire, che donne, bambini e vecchi; tutti gli altri abitanti sono in servizio nella Marina reale, oppure sono imbarcati su navi commerciali; alcuni navigano per proprio conto, facendo il piccolo cabotaggio su imbarcazioni che si costruiscono da sé. Lo sviluppo di questa popolazione e la sua capacità di fornire dell’ottima gente di mare sono dovuti principalmente all’ammiraglio Giorgio De Geneys che visse in quel luogo per tutto il tempo che i sovrani di Sardegna dimorarono fuori del Piemonte e cioè per circa quindici anni. Allora la Maddalena divenne la residenza delle autorità marittime dell’Isola; questo piccolo paese ha fornito alla Marina reale non soltanto dei buoni marinai e degli ottimi e numerosi sottufficiali, ma anche dei valenti ufficiali, alcuni dei quali raggiunsero i gradi superiori compreso quello di contrammiraglio: tra costoro citerò gli Ornano, i Ziccavo, i Millelire e altri, quasi tutti di origine corsa. Un’altra causa del rapido sviluppo della Maddalena, e della marcata preferenza dei suoi abitanti per il mestiere di marinai, fu il lungo soggiorno in quei paraggi dell’ammiraglio Nelson e dalla sua flotta. «Questo punto – dice Valery – divenne, durante il blocco continentale, un vasto e ricco deposito di merci inglesi. Il punto preferito dal futuro vincitore di Trafalgar era il tratto di mare che separa la Maddalena dalla Sardegna, detto il Parau o “rada d’Agincourt”. Da lì quest’infaticabile uomo di mare spiava il passaggio delle squadre francesi, nel caso di una seconda spedizione d’Egitto. Si racconta a questo proposito che, durante tutto il tempo passato nelle acque della Maddalena, Nelson non sia mai sceso a terra, perché aveva giurato di lasciare la nave solamente dopo aver battuto i nemici. La permanenza continua a bordo del vascello non gli impedì di elargire doni agli abitanti del luogo i quali si affrettano a mostrare con orgoglio agli stranieri i candelieri e una croce d’argento, con un Cristo d’oro, offerti alla loro parrocchia dall’ammiraglio protestante.
Il borgo è ben costruito, tutto appare pulito, e ciò crea con gli altri villaggi della Sardegna un contrasto che colpisce; tutti i muri vengono imbiancati con calce almeno una volta all’anno. Le strade non sono lastricate, ma i carri sono rarissimi e senza ruote ferrate; il suolo sul quale sono costruite le case è abbastanza duro, per cui non è necessario il selciato. La chiesa parrocchiale è passabilmente bella; fu costruita grazie alle offerte e soprattutto con il contributo materiale degli abitanti, che vi lavoravano a turno, mentre le donne e i bambini si incaricavano del trasporto delle pietre e della calce. Il porto della Maddalena, detto “cala Gavetta”, non è vastissimo, ma sufficiente per i bisogni della popolazione; all’ingresso, sott’acqua c’era uno scoglio granitico pericolosissimo, sul quale avevano cozzato molti bastimenti, tra gli altri una nave a vapore francese con un ricco carico per il Levante, che il cattivo tempo nel canale aveva costretto a fare sosta in quel luogo; si fracassò su questo scoglio avendone gravi avarie. Attualmente lo scoglio è stato rimosso e l’entrata del porticciolo, di conseguenza, è sicura. Si sono praticate delle specie di banchine, che permettono oggi alle navi piccole di accostare per l’imbarco e lo sbarco delle merci. Su una banchina c’è una piramide di pietra che sostiene una bomba lanciata nel 1793 dal giovane Bonaparte.
Vicino alla Maddalena, su un’altura c’è un fortino con una caserma per la piccola guarnigione dell’isola costituita di solito da soldati di marina inviati da Genova; si contano diversi altri forti vicino alla costa, ma sono ormai in disarmo. C’è inoltre una vecchia fortezza al centro dell’isola, sul punto culminante e che all’occasione serve ancora per la vigilanza; lì ho stabilito la mia stazione trigonometrica, perché vi si domina non solo l’isola della Maddalena, ma anche molte delle isole circostanti.
A ovest di quest’isola si trova quella di Spargi, che ne è separata da un canale di larghezza inferiore a un miglio. Ha forma quasi circolare, con circonferenza valutabile in circa sei miglia marine, ed è abitata solo da qualche famiglia di pastori. Tra la Maddalena e il capo dell’Orso si trova un altro isolotto granitico della stessa grandezza di Spargi, chiamato “di Santo Stefano”, che ha acquisito una certa celebrità dopo l’anno 1793. È lì che Napoleone Bonaparte giovane e alle prime armi, lanciando qualche bomba e qualche bolide sulla Maddalena, preannunciò quell’immenso consumo di polvere da guerra il cui boato doveva poi esplodere su tanti campi di battaglia in tutta Europa.
Nel 1792 la repubblica francese, avendo dichiarato guerra al Piemonte e invaso la Savoia e la contea di Nizza, decise di impadronirsi anche dell’isola di Sardegna; sin dalla fine di dicembre dello stesso anno aveva inviato a Cagliari l’ammiraglio Truguet con una considerevole flotta e truppe da trasporto, per attaccare la capitale dell’Isola. La spedizione fallì, come già detto. Allo stesso tempo preparò un attacco nella parte settentrionale dell’Isola, al comando del generale corso Colonna Cesari. Le truppe erano costituite in gran parte da volontari corsi agli ordini del giovane Bonaparte che al grado di capitano d’artiglieria univa quello di luogotenente colonnello, capo dei volontari del Liamone. Il rapporto ufficiale da parte degli ufficiali sardi Riccio, comandante della Maddalena, e Costantino, ufficiale di marina, al comando delle navi sarde di stanza sul posto, fu inviato al ministero della guerra a Torino dal cavaliere di Balbiano, viceré di Sardegna, con una lettera datata 8 marzo 1793, della quale ho trovato copia negli archivi di Cagliari e di Torino. Non esiste più il rapporto ufficiale, poiché durante l’occupazione del Piemonte da parte dei Francesi, dal 1798 al 1814, i documenti più importanti degli archivi di Torino furono portati a Parigi; quando nel 1814 ne fu fatta la restituzione, il rapporto in questione, a quanto pare, non fu restituito. Volendo dare una breve informazione sui fatti, mi limiterò in gran parte a riportare quanto il barone Manno ne ha scritto, dato che si è basato sulle migliori fonti e su documenti che si è procurato in Francia. L’illustre storico, dopo aver detto della spedizione dei Francesi contro Cagliari e contro le isole di San Pietro e Sant’Antioco, comincia così: “L’attacco dei Francesi contro l’isola della Maddalena, che si trova tra la Corsica e la Sardegna, fu un glorioso successo per i Sardi, ma fu per loro di secondaria importanza, perché tutte le grandi forze erano rivolte verso la capitale; tuttavia quest’affare acquistò in seguito un’importanza storica, molto più grande del fatto in sé, perché il giovane ufficiale che comandava l’artiglieria della spedizione era Napoleone Bonaparte, allora luogotenente-colonnello, comandante di un battaglione di volontari corsi. Egli era destinato a cominciare con un disastro nella piccola isola della Maddalena quella carriera gigantesca che doveva finire così infelicemente sullo scoglio di Sant’Elena. La spedizione era agli ordini di Colonna Cesari, comandante in seconda della Guardia nazionale corsa, e discendente di Paoli; le truppe erano composte da quattro distaccamenti di duecento uomini, presi tra i volontari nazionali289. Fin dal 1° gennaio 1793 Bonaparte era partito da Ajaccio con una piccola flotta destinata all’attacco, e si diresse su Bonifacio per accelerare gli armamenti e attrezzarsi di tutto il materiale d’artiglieria messo a sua disposizione. Il convoglio partì il 20 febbraio sotto il comando del luogotenente di fregata Goyetche; era composto di diciassette navi, guidate dalla corvetta la Fauvette, ma a causa della bonaccia non poterono, prima di due giorni, gettare l’ancora davanti all’isolotto di Spargi. L’isola principale (La Maddalena) era già stata messa in stato di difesa. Il governo sardo, dopo aver fatto trasportare sul continente le donne e i bambini, vi aveva trasferito una banda di miliziani Galluresi (gente di mare) i quali, insieme a un distaccamento di truppe reali che vi stazionavano e agli abitanti del luogo in grado di usare le armi, arrivavano a un numero di 500 combattenti. Vi erano inoltre due semigalere sarde e alcune gondole o “galeotte” armate e comandate dal cavalier Felix de Costantin, valoroso ed abile ufficiale di marina che in tutte le operazioni di difesa diede prova di grande capacità ed energia. Le navi si erano ritirate in un luogo adatto a mantenere le comunicazioni dell’isola della Maddalena con quelle di Sardegna, mentre sul litorale di quest’ultima erano apposte le bande di milizie Sarde agli ordini del cavalier Giacomo Manca di Thiesi. I francesi si avvicinarono alla Maddalena il 22 e gettarono l’ancora all’entrata del canale che la separa da quella di Santo Stefano; le batterie dell’isola aprirono il fuoco sul bastimento francese che rispose con un gran numero di colpi, ma senza migliore fortuna, perché l’intenzione principale dei Gallo Corsi era di metter piede sull’isola di Santo Stefano, per colpire più opportunamente l’isola principale. Il loro fuoco, benché vivacemente ricambiato da quello dei Sardi, riuscì a proteggere lo sbarco; Bonaparte piazzò a Santo Stefano l’unico mortaio da assedio che possedesse; impiegò la notte a erigere una batteria, a disporre la piattaforma, a piazzare i cannoni ed a mettere in ordine tutto il materiale dell’attacco. Anche Cesari era sbarcato sul posto con le sue truppe. I Sardi, da parte loro, non avevano dormito; avendo notato che la corvetta francese aveva gettato l’ancora in modo da tentare d’interrompere le comunicazioni tra queste isole e la Sardegna, trasportarono un grosso cannone in un luogo adatto, per colpire la corvetta, mentre un altro pezzo simile era stato piazzato su una scialuppa nello stesso posto e con la stessa intenzione, agli ordini del valoroso Millelire, della Maddalena. L’obiettivo ebbe pieno successo, perché non appena spuntò l’alba del giorno 23, la corvetta ebbe un uomo ucciso, un altro ferito e subì delle gravi avarie che la costrinsero a spostarsi in un luogo dove sarebbe stata meno esposta. Benché, con alcuni colpi di cannone, la corvetta fosse riuscita a far tacere una vecchia torre difesa da un pugno di soldati sardi, essa non riuscì a mettersi completamente al riparo dai proiettili che le venivano lanciati, soprattutto dalla Sardegna, cosa che la costrinse infine ad andare a rifugiarsi in un punto in cui era parzialmente protetta dagli scogli alti; nel frattempo Bonaparte lanciava sul borgo della Maddalena molti proiettili, puntando egli stesso i cannoni e soprattutto il mortaio, di cui dirigeva abilmente il tiro. La notte successiva i sardi eressero un’altra batteria di tre cannoni a Palau, con pezzi portati dalla Maddalena, allo scopo di battere più facilmente la corvetta e le altri navi nemiche: si riuscì a infuocare le palle che questa batteria tirava contro le navi. Fin dall’alba del 24, bolidi roventi solcarono l’aria con linee di fuoco e misero talmente in pericolo la nave principale, che fu costretta a cambiare nuovamente posto e a ritirarsi in una piccola ansa; ciò nonostante il corpo del bastimento rimase esposto a una tempesta di palle infiammate che gli piovevano sopra; perciò, dopo aver preso gli ordini di Cesari, il capitano della Corvetta giudicò prudente non lasciarsi incendiare, e si ritirò dal luogo della battaglia, piazzandosi in un punto dell’isola di Caprera, non senza aver subito, nel tragitto, il fuoco delle mezze galere sarde che erano ancorate tra gli scogli.
L’indomani entrambe la parti non cessarono di lanciare in gran quantità, palle e bombe; questi ultimi proiettili, in numero di 60, furono tutti diretti, quel giorno, dalla mano esercitata di Bonaparte. Cadevano nel punto in cui egli li inviava per distruggere gli edifici principali del paese; una bomba sfondò la volta della chiesa parrocchiale e si fermò ai piedi dell’altare senza esplodere; la si conservò per lungo tempo nella stessa chiesa. Ma i Sardi perseverarono accanitamente nella difesa e provocarono gravi danni ai loro aggressori. L’impressione subita per i danni fu tale nell’animo degli equipaggi della piccola flotta che, lo stesso giorno 25 vi fu un ammutinamento tra quei soldati, i quali volevano a tutti i costi tornare in Corsica, abbandonando nell’isolotto di Santo Stefano i loro compagni d’armi. Cesari fece molta fatica a far capire loro l’infamia di un simile abbandono; decise di ordinare alla corvetta di avvicinarsi all’isolotto in questione, prima di partire, al fine di imbarcarvi le truppe che vi si trovavano. Ciò che contribuì potentemente a far accelerare l’imbarco, fu che gli assedianti si accorsero che nell’isola madre era stato tutto predisposto per effettuare uno sbarco sull’isolotto di Santo Stefano; le mezze galere e le galeotte si dirigevano già verso quel punto con 400 uomini scelti tra gli abitanti della regione, tutti pieni d’ardore; non c’era tempo da perdere, così i Gallo-Corsi abbandonarono precipitosamente il luogo, lasciando il mortaio di bronzo, quattro cannoni, una gran quantità di munizioni e 14 prigionieri. Tutto ciò avvenne con grande disappunto di Bonaparte che si oppose con tutte le forze alla partenza dei suoi soldati, perché aveva fede nella potenza della sua artiglieria e del suo intuito; egli vedeva il disonore nell’ordine di ritirata dato da Cesari, ma per sottomissione alla disciplina militare obbedì, abbandonando la sua batteria; tuttavia non poté evitare di fare qualche osservazione al generale che lo ascoltò con fierezza sprezzante. Rivolgendosi allora ad alcuni ufficiali, si accontentò di dire freddamente: – Egli non mi capisce. – Cesari sentì queste parole e gli rispose con espressioni poco cortesi; allora Bonaparte riprese il suo posto e tacque. È Cesari che in seguito raccontò il fatto. Così quel tentativo si rovesciò in svantaggio per gli assedianti, i quali furono inseguiti nella ritirata, dalla scialuppa del Millelire che fece fuoco su di loro con l’artiglieria; essi subirono ancora il fuoco delle scariche di moschetti, nel passare vicino a Caprera, da parte dei 150 miliziani che presidiavano l’isola”.
Al resoconto del barone Manno aggiungerò su questa vicenda altri particolari curiosi che mi vengono da fonti autentiche e differiscono alquanto dalla narrazione precedente. Il 21 febbraio, quando la piccola flottiglia francese, composta da una corvetta e da ventidue vele latine, abbordò a Mezzo Schiffo, vi si fermò solo la corvetta; gli altri bastimenti andarono all’ormeggio di Villamarina, da dove sbarcarono nell’isola di Santo Stefano circa ottanta uomini. La corvetta aveva appena gettato l’ancora quando aprì il fuoco contro le due mezze galere sarde e una galeotta che si trovavano a cala Gavetta, o porto della Maddalena, e contro il paese. La corvetta, bersagliata dalle palle lanciate dal forte Balbiano e dai proiettili infuocati tirati da una batteria improvvisata in un punto della Sardegna detto “Teggia”, levava l’ancora e si riuniva alle altre navi attraccate nel porto di Villamarina. Le tre navi da guerra sarde, comandate dal cavaliere di Costantini, temendo uno sbarco immediato del nemico e vedendo che da parte loro ogni resistenza era inutile, si ritirarono nel canale della Moneta, mentre subivano i colpi dei Francesi che avevano già stabilito la loro batteria nell’isola di Santo Stefano, in un luogo detto “la Puntarella”. Fin dalla mattina del 22 questa batteria aveva aperto il fuoco contro il borgo della Maddalena; la prima bomba cadde sulla chiesa parrocchiale, sfondò il tetto e cadde all’interno della chiesa, rotolando ai piedi dell’altare senza esplodere. C’è ragione di credere che questo primo proiettile sia stato lanciato appositamente vuoto dallo stesso Bonaparte, sia che non volesse distruggere la chiesa, sia che con una prima bomba volesse soltanto aggiustare il tiro, cosa che mi sembra molto più probabile; il fatto è che non era carica, perché la si trovò vuota, ragion per cui non esplose; naturalmente, ciò fu interpretato come un miracolo. Le altre bombe esplosero quasi tutte; la seconda colpì l’angolo della chiesa a ovest; nell’esplodere ferì al viso un certo Simone Ornano che era accorso in armi a difendere il suo paese. La terza e la quarta caddero sul tetto dell’abitazione del defunto Giuseppe Fenicolo, attigua alla chiesa (la casa fu notevolmente danneggiata); la quinta esplose sulla piazza della chiesa e provocò dei danni alle case vicine; una palla entrò dalla finestra della facciata della chiesa e andò a cadere ai piedi della statua della patrona, Santa Maria Maddalena, senza causare danni. Un’altra bomba cadde sull’abitazione del defunto Paolo Martinetti, un’altra su quella del fu Michele Costantini, entrambe esplosero e non fecero gravi danni; una decima colpì il tetto della casa del defunto comandante Millelire; essa esplose e ancora oggi se ne conserva un frammento nella famiglia; un’altra, infine, cadde sulla piazza del molo; non esplose e fu raccolta dal padre di colui al quale devo questa notizia; è quella che adesso si trova in cima a una piccola piramide elevata sul molo in occasione della visita fatta alla Maddalena da re Carlo Alberto nel 1843.
Ho voluto riprodurre tutti questi dettagli, che mi sono stati forniti da una persona degna di fede, grazie alla cortesia del defunto viceammiraglio conte Albini, per constatare l’autenticità dei tre pezzi che ancora oggi vengono conservati in memoria di quell’attacco, e come ricordo del grande uomo che ha puntato personalmente tutti quei proiettili. Valery, a proposito della bomba caduta sulla chiesa senza esplodere, dice che fu venduta nel 1832 per 30 scudi al signor Craig, inglese, da un consigliere municipale della Maddalena, coll’intenzione di comprare con quella somma un orologio per il campanile della parrocchia; di fatto l’orologio non è stato comprato, che io sappia, e la bomba non è stata mandata in Scozia, come suppose il Valery. È sempre di proprietà del signor Craig, divenuto poi console generale d’Inghilterra in Sardegna; si dice che si riproponga di fare omaggio all’imperatore dei Francesi di quella prima bomba lanciata dall’immortale zio di Sua Maestà. Lo stesso Valery, a proposito della città di Alghero, fa menzione di un mortaio di bronzo che la tradizione guardava come quello dal quale il futuro imperatore dei Francesi lanciò sessanta bombe sul borgo in questione e che da lui era stato lasciato nell’isola di Santo Stefano. Il mortaio, dice l’autore, portava la corona di Francia e di Corsica e le iniziali di Luigi XVI; proveniva da Bonifacio ed era stato fuso a Bourges nel 1788. Quand’ero comandante generale militare dell’Isola, avendo fatto nel 1850 l’ispezione di tutta la costa, vidi quel mortaio nel posto indicato dal Valery, sul bastione di Alghero; siccome in seguito tutti i pezzi di bronzo di fabbricazione straniera furono mandati a Torino per essere rifusi, volli impedire la distruzione di quel mortaio storico, e feci molti tentativi per accertare l’autenticità del pezzo. Le mie procedure mi permisero di sapere che il mortaio di cui scrisse il Valery e che attualmente si trova nell’arsenale di Torino per essere fuso non fu fabbricato a Bourges dove non c’era fonderia, ma a Strasburgo; non nel 1778 ma il 10 giugno 1786 e questo pezzo non fu portato dalla Maddalena ma dal forte Vittorio dell’isola di San Pietro, dove fu abbandonato dai Francesi nel 1793; ciò risulta dall’inventario dei numerosi pezzi d’artiglieria che i Francesi lasciarono nelle mani dei Sardi e degli Spagnoli nelle isole di San Pietro e di Sant’Antioco; questo inventario si trova negli archivi di Cagliari. Se da un lato ho perso ogni speranza di riconoscere con sicurezza e di salvare dalla fusione il mortaio storico in questione, fui più fortunato relativamente alla ricerca di altri oggetti attinenti agli stessi eventi. Si vedrà qui sotto la riproduzione di un quadrante graduato di legno, destinato al puntamento dei mortai. Questo pezzo fu realmente lasciato dal giovane Napoleone vicino al mortaio nella batteria di Santo Stefano, che dovette abbandonare suo malgrado in tutta fretta. È con questo strumento di legno che puntò il mortaio; di conseguenza si tratta del primo strumento di guerra di cui quest’uomo straordinario fece uso nella sua stupefacente carriera militare; a questo titolo è un oggetto davvero prezioso e unico. Lo strumento fu preso immediatamente dal signor Ornano, allora ufficiale di marina, nativo della Maddalena e originario di Corsica; egli comandava i battelli che portavano all’isola di Santo Stefano la truppa che sbarcava da una parte dell’isolotto, nel momento in cui i Gallo-Corsi se ne andavano dall’altra, lasciando quattordici prigionieri che non ebbero il tempo di imbarcare. L’Ornano, diventato ufficiale generale, conservò per tutta la vita questo trofeo di cui si era impadronito per primo; alla sua morte, lo lasciò in eredità al genero, il defunto viceammiraglio conte Albini, che depositò il reperto in una specie di museo della Marina reale a Genova, detto “Sala dei modelli”; è lì che si trova ancora (col. n. 221) al momento in cui scrivo (agosto 1859). Quanto alle bombe, garantisco l’autenticità di quelle che si conservano ancora intere o in frammenti, cioè quella posseduta dall’attuale console d’Inghilterra a Cagliari, William Craig; quella posta sulla piramide del molo della Maddalena, con un’iscrizione; infine, il frammento conservato dagli eredi Millelire. Tali sono le testimonianze storiche che ci restano di una spedizione non molto conosciuta fuori dall’Isola. “Quella carriera così gloriosa, – dice il Valery – quelle innumerevoli vittorie in tanti lontani campi di battaglia, dovevano stare tra due disastri: il piccolo e oscuro fallimento della Maddalena e l’immenso rovescio di Waterloo”.
A nordovest della Maddalena ci sono altri tre isolotti: Budelli, Razzoli e Santa Maria, abitati da alcune famiglie di pastori della Maddalena. Nell’isola di Razzoli si è costruito da una ventina d’anni un faro di second’ordine, con fuoco naturale, il cui tamburo è alto 86 metri sopra il livello del mare, e 20 metri sopra la roccia granitica che sostiene l’edificio. Il faro risponde a quello piazzato nel capo Pertusato, vicino a Bonifacio in Corsica, e a quello più lontano di Porto Vecchio, sulla costa orientale dell’isola suddetta. Quindi il canale è ora illuminato da tre fari, cioè di capo Testa e di Razzoli nella costa di Sardegna, e di capo Pertusato sul promontorio meridionale della Corsica. Quello di porto Vecchio a est di questa stessa isola e quello dell’Asinara a ovest, piazzato non lontano sull’isola sarda omonima, guidano le navi che entrano di notte in questo pericoloso passaggio o che ne escono. A nordovest dell’isola di Razzoli si trova l’isolotto di Lavezzi, appartenente già alla Corsica; più a sud c’è uno scoglio pericolosissimo e anch’esso funesto per molte navi di cui causò il naufragio. Si ricorda che la fregata francese Sémillante, comandata dal capitano Juyan e carica di truppe e di munizioni di guerra per la Crimea, investita in questo stretto da una furibonda tempesta, in pieno giorno, il 15 febbraio 1855, fu sbattuta contro quegli scogli distruggendosi completamente, uomini e beni compresi, senza che una sola persona sia riuscita a salvarsi; le onde erano talmente mosse che coprivano interamente l’isolotto di Lavezzi. Adesso, croci di ogni grandezza, innalzate dalla pietà dei marinai francesi in memoria dei compagni perduti in quel luogo, ricordano al viaggiatore e all’uomo di mare la terrificante catastrofe.
Nel canale ci sono altri scogli altrettanto pericolosi, quasi tutti nelle acque della Corsica, tra i quali segnalerò una roccia a fior d’acqua, detta “Secca dei Gavetti”, tra la torre di Santa Manza e l’isolotto Porraja, contro cui in pieno giorno, e col tempo buono, la nave postale a vapore sarda, il “Castore”, andò a urtare il 3 dicembre 1856. A ovest dello stesso canale, una nave a vapore francese, chiamata, se non sbaglio, la Napoleon, una ventina d’anni fa, urtò contro uno scoglio sottomarino di granito, una parte del quale s’incastrò nello scafo della nave che lo portò al suo interno fino a Tolone. Siccome quasi tutti questi isolotti e scogli appartengono alla Corsica, credo sia inutile parlarne; è il motivo per cui metto fine al capitolo e all’Itinerario propriamente detto.