Antonio Serra
Antonio Serra pittore di scuola francese col cuore alla Maddalena
Ha ottantuno anni, Antonio Serra, quando, nel pieno della commozione, racconta la sua immagine della Sardegna in una breve intervista concessa all’emittente televisiva Videolina, durante una delle sue ultime visite all’isola. “Quando sono giunto, dopo anni, in terra sarda, ho pianto. Non so perché, ma ho pianto. Questa terra per me … mi sono sempre commosso”, dice. Antonio Serra, professione, vita, amore per la pittura, trascorre la sua intera esistenza in Francia, ma nasce a La Maddalena, nel 1908, in via Antonio Viggiani. Per l’Arcipelago, quelli, sono anni fecondi. Si estrae il granito a Cava francese, e la maggior parte viene impiegato dal Genio militare che ha appena messo le basi nell’isola, per realizzare le grandi fortificazioni che, sin dalla fine dell’Ottocento, per motivi di difesa ed offesa, tappezzano le isole dell’Arcipelago. Perciò giungono scalpellini da ogni dove. Ed è a questo punto che anche il flusso commerciale viene potentemente incrementato, o meglio incomincia la sua ascesa, insieme ai negozi, alle botteghe, e al mercato della casa. Anche il primo Centenario della nascita di Giuseppe Garibaldi, nel 1907, significa, per La Maddalena, visibilità, grazie ai pellegrini, gli appassionati dell’Eroe dei Due mondi, che intraprendono lunghi viaggi, per poi approdare nell’isola e prepararsi a celebrare le gesta, e i natali del combattente risorgimentale. Dedicandogli la Colonna, l’obelisco al centro della Piazza XXIII febbraio. Ma gli inizi del Novecento, nell’isola, sono anche gli anni in cui la cultura e il senso morale fanno il loro ingresso. Nel 1903, radica le sue fondamenta l’Istituto San Vincenzo, la scuola di vita, il centro educativo per centinaia di fanciulle, che ha ormai compiuto i suoi primi cento lustri. Mentre, qualche anno dopo, nascono il palazzo scolastico e l’ufficio postale. In una città, La Maddalena, che è in continua metamorfosi, sia dal punto di vista economico, che da quello demografico. Nonostante questo, l’isola non va bene per Antonio Serra che, proprio in quegli anni, ancora bambino, è costretto a recidere il cordone ombelicale con il suo Arcipelago. Se ne va, lo lascia, mentre in molti scelgono La Maddalena come città per la vita intera, per crescere. Serra, continua, tuttavia, a conservare, a mantenere sempre un cuore sardo, ed una isolanità che riscopre ogni volta che tocca di nuovo la terra di Sardegna e La Maddalena. In quei momenti, allora, soleva dire “mi sento veramente ancora sardo. Sono rimasto l’isolano che ero da bambino.” Ha infatti sei anni soltanto quando, insieme alla madre e alle sue tre sorelle, emigra in terra straniera presso una sua zia materna. A Marsiglia. Quella che poi diviene la sua città d’adozione. La città dell’infanzia, ma anche della maturità e della fama. La sua seconda patria. Che è poi anche grembo, linfa per la sua arte, per la sua vocazione artistica. Marsiglia. Che si trasforma, dunque, in qualche cosa di più per lui. Perché lì, Antonio Serra, cresce, anzi nasce per la seconda volta, e fa nascere, e nutre la sua passione, coltivandola, studiandola. Per quella inebriante sensazione di libertà di essere, di poter mettere tutta la realtà, tutto se stesso, su una tela piccola ma anche grande, infinita. Perché specchio della mente e delle sue innumerevoli porte che si spalancano e lì, sulla tela linda, essenziale, si riversano, trovano pace, ma anche movimento, espressione, libertà i pensieri e i colori. Su quella tela che aspetta solo di essere colmata, riempita, di acquistare vita da una macchia di giallo, o rosso, o verde, o blu. Per esistere, per avere dignità. Una passione, quella di Antonio Serra per la pittura, che coltiva sin da quando incomincia a frequentare corsi gratuiti e l’Istituto delle Belle arti a partire dal 1920. Poi, qualche anno dopo, aderisce al Movimento dei giovani comunisti, che lo porta a fondare il gruppo de “Les peintres prolétariens” che, in seguito, si trasformano in “Les peintres du Peuples.” E la sua vita, Serra, decide di viverla sempre e soltanto per alimentare l’arte pittorica, per dipingere. Per quello che sarebbe diventato il suo mestiere, e anche qualche cosa di più. Una intenzione che dice tutta in due parole, una domenica d’estate del 1936, dopo aver ammirato le bellezze del castello des Baux: « Si j’arrive un jour à vivre de ma peinture, c’est ici que je reviendrai.» In quegli anni, la sua arte è ispirata dalla Marsiglia proletaria. Lo scenario è quello del secondo conflitto mondiale, e Serra, durante l’occupazione nazista della Francia, parteciperà al movimento della Resistenza. È a questo punto che diventa il responsabile della prima Casa della cultura in provincia, dove espone le opere di Fougeron, Aragon, Giono, Pagnol, Picasso et Pignon. Nel 1937, si schiera a favore del popolo spagnolo e dipinge una grande opera intitolata “La non-intervention” sui bombardamenti di Guernica. Tutto con la potenza, l’intensità del pennello, e per quella striscia parlante, che dice, che è, di colore e di colori, che si posano magicamente su uno spazio bianco, infinito. Trovando pace e movimento insieme. E che si mescolano, si sposano, dando vita, nutrendo un miracoloso connubio di immagini e sentimenti, a volte impalpabili e a volte netti, tanto che il colore, l’opera, perdono la loro identità, l’uno a favore dell’altra. L’uno per amore dell’altra. Per la pittura, dunque, vive, respira, Antonio Serra che, al termine della guerra, entra a fa parte di un gruppo di artisti che si muove nella zona del “Vieux” e va a vivere nella Provenza interna. “Soutenu par de nouveaux mécènes parmi lesquels Paul Ricard et l’industriel Charles Mourre, Serra se lie aussi avec le mouvement régionaliste dont Marie Mauron.” Nel 1946 stabilisce che il suo studio, il suo atelier, dovrà essere stato a Baux, in Provenza. È qui, dunque, che Serra raggiunge la pienezza creativa. E qui, dove aveva desiderato essere anni prima, quando ancora le condizioni economiche non erano tali da permetterglielo, che la natura esplode nei suoi quadri. Gli si offre, ricca, immensa, colorata, gialla dell’estate, verde della primavera, grigia dell’autunno, e nera, dell’inverno. E lui la asseconda, ma la domina anche. E questi non sono solo gli anni della crescita ispirativa, ma anche quelli della crescita intellettuale. Nel 1950 espone nel Salon d’Automne de Paris, “La messe de minuit aux Baux”, nella quale sono rappresentati gli abitanti del villaggio di Baux mentre assistono alla messa. Poi, lentamente, matura la decisione di fare ritorno nella sua Sardegna, che il pittore non ha più visto da quel lontano 1914, e che ha veduto solo e soltanto con gli occhi del bambino che lascia la casa, la Patria, senza intuire, forse, nemmeno il motivo. E a La Maddalena, alla sua isola, dedica la pennellata di “Baie de La Maddalena.” Una marina, dunque, ossia le rappresentazioni di paesaggi costieri che il pittore non ama molto, ma di cui dice “ il cliente compra di più le marine, che fanno piacere all’occhio, e allora, una barca, un bastimento, piacciono di più”, e poi, fa capire anche i pittori devono comunque avere un guadagno. Gli anni trascorrono. E tra 1956 e il 1958, Serra, mette piede in terra sarda, incontra i suoi parenti e scopre quella parte della sua isola che non conosce, la Barbagia. Che ritrae, fissa, raccoglie, tra le cornici dei suoi quadri. Incastonandola e facendo diventare protagonista delle sue opere, del suo che è anche un viaggio pittorico, la Sardegna interna, montuosa, aspra, nascosta, meno frequentata. La Sardegna della tradizione, quella che conserva ancora il sapore arcano, antico, dei costumi, del cibo, delle case, della campagna. I paesaggi di Orgosolo e di Oliena, dei quali dice “La cosa che mi commuove è la luce, è la terra. Anche il mare. Ma amo il centro, la montagna, la terra veramente sarda.” Quella che sceglie di rappresentare in “La cor bleu à Orgosolo”, o in “Rue à Oliena”. E poi c’è la gente, sarda. Con il suo mondo. La neve, il sole, i tramonti e le montagne. La quotidianità della Sardegna recondita, dei padri. Che Antonio Serra trasforma in personaggi da mettere in primo piano, come gli uomini e le donne barbaricine che svolgono le loro attività all’interno delle immense cucine annerite dal fuoco del camino sempre acceso in “Lavorazione casalinga del pane” o in “Femme au fournil”, e in “Groupe femmes dans la cuisine”. O mentre camminano per le strade, in “Paysans revenant des champs” o stanno seduti su una sedia, fuori, lungo le vie impolverate, o vanno in chiesa come in “Femme priant”, o partecipano ad una processione. Di una in particolare, quella del 22 agosto del 1958 scrive «La procession arrive. J’oublie tout et je me suis mis a dessiner et à aimer ces visages et cette ambiance indescriptible de grandeur et d’élévation… Á l’office, je me suis mis à pleurer comme un enfant. Il me semblait que je n’étais pas assez pur pour pouvoir mériter la grâce d’y assister ». E dal viaggio in Sardegna sortiscono opere pittoriche che saranno poi esposte nelle sale della Galerie Weill di Parigi. In seguito, il pittore, della sua Sardegna dirà «non è più quella che era anche se sono contento che i Sardi vivano la vita della nostra epoca, e mi dispiace di non vedere più la gente in costume e di vedere tante macchine. Tutta quella poesia che c’era a quel tempo, nei villaggi, nelle piccole città, ora, non esiste più.» Nel 1958, Serra, dunque, è nel pieno del percorso che lo sta portando a costruire il suo mondo pittorico, del quale faranno parte anche gli amici e gli estimatori che contribuiscono alla sua crescita. Tanto che, nel 1963, Charles Mourre, un amico, fonda il gruppo Les amis de Serra che lo sostengono, allestendo le sue mostre e curando la vendita delle sue opere. Novelli Mecenati, gli stanno vicini, sempre, consentendogli di dipingere e dipingere, e niente altro. Nel 1970, esegue un affresco dal titolo “Les Olivades” per la scuola materna di Baux. Segue una esposizione presso la galleria Saint- Georges a Marsiglia. Mentre il Museo d’arte moderna di Parigi, nel frattempo, acquista una sua opera. Un anno dopo, nel 1971, decide di partecipare alla vita politica locale. Viene eletto assessore alla cultura nel Comune di Raymond Thuilier. Mentre continua ad esporre nelle più importanti gallerie francesi, arrivando anche a Tokio. Diventa, così, vanto, gioiello prezioso per Marsiglia. La città francese, lo scorso mese di marzo, ha aperto i festeggiamenti per ricordare, lui, un suo cittadino, un suo artista. Per rimetterne in circolo le opere, su iniziativa dell’Istituto italiano di cultura. Perché stretto, lungo ed inscindibile è il filo della nostalgia che lega gli emigrati in altre sponde, in altri lidi, alla madrepatria. Un legame che non si recide mai. Radici che non si prosciugano mai. Un richiamo sempre costante. Un fuoco che non si estingue perché è animato da una fede incrollabile, di pietra.