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Augusto Morelli

Augusto Morelli ha casa sulle pendici di un colle alto sul mare, dove fanno i nidi i falchi pescatori. Ma lui non è mai stato un predatore. La vita l’ha spesa intera dalla parte dei predati. Racconta la sua storia una mattina seduto al tavolo della sala da pranzo. La stanza è piccola e modesta, dalle finestre lo sguardo può arrivare sino alla baia di Spalmatore, che brilla al sole con riflessi di smeraldo. Morelli fu licenziato, 49 anni fa, dai cantieri dell’arsenale della Marina militare di La Maddalena perché aveva la tessera della Cgil e del Pci. Lo scorso gennaio, una legge della Repubblica ha riconosciuto, a lui e a molti altri discriminati sul lavoro per motivi politici, il diritto a recuperare, per la pensione, gli anni perduti. Morelli è, insomma, un comunista-sindacalista riabilitato. Nelle sue parole, l’Italia di Scelba e di Pacciardi. Ma un po’, anche, l’Italia di oggi.

Negli anni Cinquanta l’arsenale della Marina era, dopo le miniere di Iglesias e di Carbonia, la più grande fabbrica sarda. Ci lavoravano in 800. Morelli, operaio specializzato, quando fu cacciato via aveva 28 anni e del suo salario vivevano la moglie e un figlio. Oggi di anni ne ha 77. Funzionario del Pci per decenni, pensionato, pensa che il suo vecchio partito fosse infinitamente meglio della sinistra di D’Alema e di Veltroni. Guarda con apprensione all’offensiva delle destre: teme un passato che non vuol morire. «Attenzione che mica è finita», avverte. E racconta: «Era il 24 giugno del 1952. Venimmo convocati in 26 , quando il turno era quasi terminato. La prima delle tre sirene che annunciavano la fine del lavoro suonò che eravamo appena entrati nella stanza del direttore dell’arsenale, il colonnello Bianco. Ricordo che uno di noi si avvicinò alla finestra e vide che la palazzina dell’amministrazione era circondata da carabinieri in assetto di guerra. Solo quando suonò l’ultima sirena e tutti gli altri operai furono saliti sul pullman che li riportava a casa, il colonnello si infilò un paio di occhiali scuri e aprì una busta che teneva sulla scrivania. C’erano dentro le lettere di licenziamento. Restammo di sasso. Non c’erano mai stati problemi con la direzione; non sul lavoro, almeno. Quando chiedemmo perché avevano deciso di gettarci sulla strada, il colonnello rispose che lui non ne sapeva niente: il plico con le lettere gli era arrivato da Roma, dal ministero della Difesa, e l’ordine di procedere, senza motivazione alcuna, era firmato dal ministro in persona, Randolfo Pacciardi. Era un’epurazione: la commissione interna al completo e l’intera rappresentanza sindacale comunista e socialista venivano cancellate. C’erano anche tre militanti dell’Azione cattolica tra i licenziati, ma furono riassunti dopo una settimana».

Quel giorno Morelli e gli altri tornarono alle loro case scortati, uno per uno, dai carabinieri. Per molti di loro fu l’inizio di un dramma. Solo alcuni trovarono da campare come dirigenti del sindacato o del Pci. Racconta Morelli: «Lavoro non ce n’era. E poi a La Maddalena la gente aveva paura. Non era facile trovare qualcuno disposto ad aiutarti. Quelli rimasti in arsenale, quando incontravano per strada me o un altro dei licenziati, facevano finta di non conoscerci. Al giro di vite del 1952 si aggiunse, quattro anni dopo, un’altra “purga’’: 16 operai vennero messi fuori dai cantieri il 24 dicembre, la vigilia di Natale. Serviva ad abbattere il morale, a creare un clima di terrore. E infatti, gli iscritti al Sindacato Marina della Cgil passarono in poco tempo da 500 a 150; la maggioranza della commissione interna fu conquistata dalla Cisl; nelle amministrative del 1957 le sinistre, che governavano il Comune, vennero sconfitte dalla Dc ».

Lo zampino del parroco. Un ruolo attivo nel dividere la comunità di La Maddalena fra buoni da premiare e cattivi da punire fu svolto dal parroco, don Antonio Capula, morto a più di ottant’anni un paio di mesi fa senza mai essere stato assegnato dai suoi superiori ad altro incarico. Nell’isola lo chiamavano il «Governatore». «Lui era» dice Morelli, «un anticomunista implacabile. Negli anni più bui, a chi si professava comunista vietava i sacramenti e la frequentazione della messa. Qualche tempo dopo i licenziamenti del 1952, venimmo a sapere che, la sera in cui ricevemmo il benservito, la notizia fu accolta con soddisfazione dal parroco e da alcuni suoi amici e collaboratori. Ce lo raccontò un militante dell’Azione cattolica, Giacomino Serra, che, sdegnato, disse a don Capula e ai suoi accoliti: “Ammesso e non concesso che, come voi dite, gli operai licenziati siano individui pericolosi, dietro di loro ci sono degli innocenti: mogli, madri e figli. A questo non pensate?”. Don Capula rispose che la decisione del ministro della Difesa era stata presa per il bene di tutti». Morelli si ferma un attimo, e dalla sacrestia anni Cinquanta di don Capula corre nel tempo sino alla cronaca politica del marzo 2001: «E se ricominciassero con la stessa musica?».

Vedi anche: Testimonianza di Augusto Morelli