CronologiaMillenovecento

Correva l’anno 1926

Nel Municipio di La Maddalena, precisamente nel gabinetto del commissario prefettizio, furono convocate una decina di persone. Non si trattava di maddalenini qualsiasi ma di responsabili vari di associazione di politiche e beneficenza. Nell’Arcipelago a reggere il Comune dopo la gestione commissariale di Domenico Tanca (1922-1924) e del prof. Pietro Demurtas (1924-1925) era stato nominato provvisoriamente il cav. Enrico Ragusa. All’incontro furono invitati il cav. Federico Bisconti, presidente della Congregazione di Carità e del Patronato Scolastico; il cav. Rodolfo Fiumara, segretario politico della locale sezione del Partito Nazionale Fascista; il cav. Cesare De Vecchi, presidente del Corpo di Assistenza Sociale; Irma Buzzone, presidente della locale sezione femminile del Partito Nazionale Fascista; Ermenegilda Melis, presidente delle Dame di Carità; Nina Tanca, componente il consiglio di amministrazione dellospedale Giuseppe Garibaldi (del quale era presidente Donna Costanza Garibaldi); suor Elisa Gotteland, superiora dell’Istituto San Vincenzo; il parroco di La Maddalena canonico cavalier Antonio Vico. Scopo della riunione era quello di ottemperare ad una circolare del Ministero dell’Interno che “raccomandava vivamente” la costituzione di una Federazione fra le Istituzioni Pubbliche e Private di Assistenza e Beneficenza, “allo scopo d’una migliore utilizzazione delle beneficenza, coordinando e integrando le diverse forme di attività di dette istituzioni, onde ottenere efficaci e larghi risultati pratici“. All’incontro non parteciparono tutti i convocati, sebbene tutti fecero tempestivamente pervenire gli atti di adesione delle rispettive assemblee o consigli di amministrazione. Al primo incontro non partecipò nemmeno il parroco Antonio Vico, il quale tuttavia, all’unanimità dei voti dei presenti fu eletto presidente della costituita Federazione. A fungere da segretario venne invece chiamato Rodolfo Fiumara. Nel verbale della seduta, conservato nell’Archivio Parrocchiale, si legge che lo stesso Fiumara chiese che venisse “compilato a cura del Comune il regolare elenco dei poveri” nella formazione del quale dovevano “essere tenute in debito conto anche le designazioni che verranno fatte dalle Associazioni appartenenti alla Federazione“. Fiumara, che, ricordiamo era il segretario del Fascio, presentò poi un caso, quello del medico Giovanni Regnoli, più precisamente sottopose “al giudizio dei membri federali, la inattività assoluta del locale medico condotto, onde adottare i necessari provvedimenti perché gli indigenti ammalati non abbiano più oltre a risentire le dannose conseguenze derivanti dall’inattività di detto sanitario, il quale se percepisce lo stipendio dal Comune è doveroso che egli compia scrupolosamente il suo dovere; ciò prescindendo da ogni questione politica“.

Troviamo la prima auto immatricolata a La Maddalena è una Fiat Tipo 2, registrata con la targa 58-604 a nome di Eraclio Centogalli. Era evidentemente un’auto usata, proveniente da altra provincia e ritargata, poiché la produzione della Tipo 2 era cessata nel 1920. L’auto fu reimmatricolata nel 1927 con la targa SS-424 e nel 1930 fu ceduta a Francesco Cherchi.

Apprendiamo che nelle cave di granito di Villamarina a Santo Stefano vi erano 8 squadre composte da un totale di 71 unità che si alternavano nella lavorazione del granito nelle tre cave più importanti dell’isola. I capo cava in quell’anno erano 8, e ognuno di loro poteva contare su un numero di persone che lavorava per un determinato incarico; voglio ricordarne i loro nomi: De Pau Antonio, Amalfitano Giorgio, Mastrantonio Augusto, Noce Emanuele, Massidda Vincenzo, Bellesi Attilio, Viviani Guido e Marogna Gavino. Fatto curioso che nella squadra di Mastrantonio Augusto (3 unità) lavorassero anche i fratelli Salvatore e Costantino; come si usa dire: “un tempo l’unione delle famiglie era forte !” Una buona parte di questi operai, che hanno lavorato a Santo Stefano, emigrarono in Egitto, così come molte maestranze Italiane, per la realizzazione della grande diga di Assuan sul Nilo; la diga fu realizzata in due fasi successive: le dimensioni progettate erano inadeguate per sopportare una così grande portata d’acqua e quindi alla prima fase costruttiva del 1907-1912, seguì quella del 1929-1933 nella quale vi fu una grande richiesta di manodopera, come gli scalpellini, che sapesse tagliare e assemblare la pietra. Abbiamo rinvenuto nell’archivio storico del Comune di La Maddalena le domande per il passaporto per l’estero, tutte inoltrate tra il 1930 e il 1931 di 40 scalpellini che richiedevano il nullaosta per potersi recare in Egitto; detto nullaosta venne rilasciato in quegli anni dal Commissario Prefettizio con l’autorizzazione al ritiro del documento per l’espatrio. Anche Santo Stefano ha la sua storia importante, fatta di lavoro ma, soprattutto di Uomini. Nella cave di Villamarina esisteva una cantina, dove gli scalpellini potevano rifocillarsi con dell’ottimo vino, nelle ore di pausa o nelle giornate in cui non si lavorava, ma potevano anche usufruire del cibo che veniva cucinato al suo interno. I vari gestori del locale che nel tempo si sono dati il cambio sono: Vargiu Antonicco “Giuannetta”, Bergonzelli Carlo, Moro (?), Bernardini (?), Schintu Giuseppe e Mosca Luigi. La società Schiappacasse aveva messo in circolazione una speciale moneta, il ghignone, coniato a Genova e utilizzato come moneta interna alle cave per l’approvvigionamento dalla cantina.

La città di Bonifacio conta 2688 abitanti. Inaugurato il servizio marittimo Cannigione-La Maddalena-Palau-Santa Teresa-Bonifacio.

Filiberto di Savoia, duca di Pistoia, visita l’arcipelago.

Iniziano i lavori di sbancamento per la realizzazione del campo sportivo comunale.

Giovan Battista Vincentelli è podestà di Santa Teresa. Ricoprirà l’incarico fino al 1932.

1 gennaio

Le linee di navigazione statali per la Sardegna vengono affidate in gestione ad alcune società private, tra cui la Ubaldo Sommaruga di Cagliari.

16 gennaio

In una poesia isulana del poeta Luigi Piras, si celebrano – non senza ironia -gli asini che c’erano una volta all’Isola (parafrasi politico-amministrativa) a cui sarebbe bastato far prendere la licenza elementare per poterseli trovare in Consiglio Comunale. E indubbiamente quegli asini dovevano avere un loro ruolo e una certa importanza, in un’Isola in cui non circolavano le auto e i mezzi di trasporto si riducevano a carretti soprattutto a due ruote trainati da animali. Gli asini, tuttavia, per quanto importanti come Murrini di zi’ Ernestu, quello di Ribustu o di Calai e quello di Simpriziu, di Niculau e di Sunatò, che tutti per la strada chiamavano Didò, nonché di Furtuna, subivano la concorrenza spietata dei più “nobili” cavalli e dei muli, soprattutto e infine del robusti buoi, a cui era demandato soprattutto il trasporto di lastre di granito o comunque di carichi molto pesanti come sabbia o calcinacci e in percorsi accidentati. I buoi venivano destinati a carri di legno particolarmente pesanti a loro volta e piuttosto robusti. Risultavano censiti e in “servizio attivo”, intestati a privati, 12 carri, per cui i buoi dovevano essere almeno 24, visto che di solito lavoravano appaiati. Incredibile a dirsi, non si sono trovati i nomi di questi generosi animali. Io, che ho vissuto pienamente gli anni ’50 e ‘60, ho conosciuto l’asino di Marraggiu, famoso per la sua “quinta gamba”, che tutti noi ragazzini correvamo ad ammirare quando era legato al pozzo del rione, dove poi sorse la palazzina n.1 dei Pescatori in via Cairoli. Ma già negli anni ’50 avevo conosciuto l’asino di zi Polo, nei pressi di piazza Barò, dove abitavo: questo, come altri del resto, stava “ormeggiato” in banchina, a disposizione di chi arrivava col “Limbara”. Conobbi, come centinaia di altri bambini, i buoi di zi Duminicheddu, u carrulanti, che immancabilmente ci concedeva di salire sul carro per essere trasportati un centinaio di metri lontano da casa. Una mula veniva da Cava Francese e portava due lame di latte ancora caldo a zi Giuditta, davanti all’ospedaletto di via Domenico Millelire. Un altro asino lo conobbi alla fine degli anni ’60, sulla collinetta a ponente della fonte di Cala Chiesa: era di zì Rimundiccu, un vecchietto che coltivava il proprio campo e all’alba partiva per raggiungere il mercato con la sua povera merce. Se gli asini venivano utilizzati dal ceto medio basso, e con carretti un po’ sgangherati, e comunque da persone anziane che non avevano più necessità di correre o di raggiungere in fretta la propria destinazione, come appunto gli ortolani che raccoglievano ortaggi e frutta nei loro campi di Macchia di Mezzo, Cala Chiesa, di Padule o della Trinita, per portarli al mercato prima dell’apertura; oppure da facchini che aspettavano l’arrivo del vaporetto per portare qualche valigia in cambio di pochi spiccioli; ma pure da anziani conducenti dediti a piccoli servizi di famiglia o a commissioni particolari del vicinato), i muli venivano utilizzati, per contro, per trasporti importanti e pesanti, soprattutto da chi era dipendente dell’Artiglieria (Quartiere militare che comprendeva infatti le ampie stalle dei muli dove poi sorse il Liceo Classico e oggi la Biblioteca) e dalle donne, soprattutto, quando dovevano raggiungere il centro urbano dalla periferia (Moneta per esempio, ma pure dal cimitero vecchio) che non volevano rompersi l’osso del collo con corse sfrenate. Fra queste si ricordano: Caterina Arrighi, che ne possedeva 2 più un cavallo: Ardito, Osvaldo e, nell’ordine, Pippo, tutti rigorosamente castrati; Gerolama Nieddu, che da via Cairoli si spostava per lunghi tragitti con la mula Lea. I cavalli, animali nobili e di rango, venivano impiegati nei collegamenti veloci (acquaioli soprattutto, che avevano necessità di arrivare per primi in paese, vendere le loro botticelle d’acqua e poi ritornare in fretta e furia a Cala Chiesa per un secondo viaggio, bruciando con la velocità la concorrenza, ma pure per il rifornimento di carne dal macello di Punta Nera al civico mercato e alle mense militari, per evitare che i quarti di bestia si guastassero al sole o alle intemperie; servizio gestito da zì Bonaventura) ma pure dal gestore del servizio funebre, che poteva far condurre una bara al cimitero, sia da un cavallo o da due, ma pure da quattro, a seconda dell’importanza del morto e di quanto si era disposti a pagare. Poi vi erano i tanti vetturini che con le loro carrozze stazionavano in Piazza Umberto I, soprattutto nelle giornate importanti del giuramento dei Militari o di ricorrenze e celebrazioni varie, come il 2 giugno, per raggiungere il sacrario di Caprera. I signori borghesi li utilizzavano soprattutto per i loro calessi e per i collegamenti con la vigna o per visite importanti, e infine Leonardo Fanti che gestiva il servizio di trasporto delle prostitute, dal vaporetto a Piticchia e viceversa, col calesse trainato dal cavallo Pippinello, alto m.1,50, nato nel 1921, castrato, ben noto a tutti. Approssimativamente possiamo dire che tra gli anni ’20 e gli anni ’30 dello scorso secolo avevano circolati per l’Isola almeno 140 cavalli e una quindicina di muli. A questi ultimi c’erano da sommare una ventina di muli militari sparsi per le varie batterie e per il Quartiere dell’Artiglieria, la cui “identità” veniva tenuta rigorosamente segreta. Nelle fortezze si potevano trovare anche asine, soprattutto per il rifornimento di latte, muli per trasportare o spostare affusti di cannone o altre pesanti diavolerie belliche, e cavalli per le staffette veloci per esempio da Arbutticci al Comando Marina o dal Comando Marina a Carlotto o a Guardia del Turco, a Padule, a Sasso Rosso ecc. Di tutti sappiamo molte cose. Detto degli asini di cui Piras ci rammenta nomi e addirittura proprietari, i cavalli e i muli, invece, avevano una loro anagrafe: si sapeva come venivano “battezzati”, quali erano le loro caratteristiche d’identità, i nomi dei loro proprietari e i servizi a cui erano destinati, se erano stati castrati e quindi anche la loro data di morte. Poi vi era Lucifero, spacciato alla festa della Trinita come cavallo di razza, e che – a ricostruirne l’anagrafe – era solo un cavallo delle campagne di Palau che si presentava bene e che sapeva vendere, pur di vincere, la propria pelle al diavolo. E per questo, forse, per molte migliaia di altri isolani era il l’idolo della festa. Quel cavallo, che non era certo un purosangue, aveva però una vocazione per la competizione, che ne esaltava l’immagine, entusiasmava la gente e scatenava il tifo. Perché ho voluto richiamare la vostra attenzione su certi argomenti di un tempo passato? Perché tutti i quadrupedi di rango venivano censiti per gli usi bellici ai fini di eventuale “esproprio” in caso di necessità. Ogni proprietario continuava a tenerli in “affido” sotto la propria responsabilità e per gli usi per cui erano stati acquistati. Poi, a parte, c’erano gli animali di cui erano proprietari gli acquaioli. Si conoscono i nomi degli acquaioli e alcune storielle collegate alle loro risse e alle loro corse sfrenate durante il loro servizio quotidiano, nei momenti di particolare siccità; sapevamo di alcuni aneddoti sui loro animali, ma certo non ne conoscevamo la storia. Ora, il quadro si completa. A maggio del 1924 sapevamo, per esempio, che gli acquaioli erano in fermento. Salvatore Soro, Pietro Culeddu, Andrea Lella, Salvatore Delogu, Salvatore Ledda, Antonio Onorato, Sebastiano Todde, Angelino Todde, Luigi Onida, Antonio Conti, Tripoli Apogeo, Antonio Filigheddu, Francesco Azara e Raimondo Mattana avevano segnalato al Commissario Prefettizio dott. Pietro Demurtas tutto il malessere di una categoria al servizio della collettività, nelle cui file, però, “si annida qualche testa calda”. “Da tempo – scrivevano gli acquaioli – noi siamo tutti al punto da doverci compromettere e sporcare la fedina penale, soltanto perché con gli acquaioli lavora la signora Grondona Vincenzina, donna che tutti minaccia, che tutti maltratta, che a tutti parla male ed insulta, (…)”. Gli acquaioli chiedevano al Commissario Prefettizio che i due carri di proprietà della donna venissero affidati uno al figlio e un altro a diversa persona, affinché non fosse più consentito che lei si presentasse alla fonte. Vincenzina Grondona, a seguito di ulteriori accertamenti da parte del capoguardia dell’epoca, era stata così sospesa per un mese dal servizio, a partire dal 21 maggio. Il provvedimento era stato adottato con manifesto pubblico, a seguito di apposito decreto. Tuttavia, nel retro del foglio, sempre a firma del Commissario Demurtas, si poteva leggere: “Si richiama in servizio la Grondona Vincenza a datare 5 giugno 1924, con diffida che se non dimostrerà di essersi emendata, farò provvedimento in piena conformità con pubblico decreto”. Ne consegue che la pena, forse per questioni umanitarie, o forse per evitare ulteriori fastidi, era stata dimezzata. Ma Vincenzina Grondona non era l’unica ad infrangere le regole imposte dal Comune agli acquaioli, visto che l’8 luglio si sospendeva per 15 giorni dal servizio anche Angelino Tedde, reo di aver voluto “sorpassare col proprio carro quello condotto da Grondona Vincenza”, investendolo e spezzandogli un raggio della ruota. Egli “inoltre strappava di mano della stessa Grondona un bastone, minacciando di percuoterla”. Il 16 gennaio 1926 l’acquaiola Vincenza Grondona veniva indicata alle autorità comunali come la responsabile di una serie di incidenti dovuti al tipo di animale di cui si serviva per avere un carro più veloce e competitivo. I trucchi del mestiere, infatti, erano tanti. Il cavallo non castrato raggiungeva con corsa folle e disperata ogni cavalla che si trovasse davanti, per verificare se fosse in calore. E quando questo succedeva, però, erano guai. Il solito Princivalle ebbe a scrivere al Commissario Prefettizio una dettagliata relazione sui fatti segnalati. “L’acquaiola Vincenza Grondona pel trasporto del carro-botti ha attaccato un cavallo intero, il quale già parecchie volte, sentendo i fremiti sessuali è diventato furibondo, gettandosi su altri animali. Oggi, per esempio, si gettò su un asino che era attaccato ad un carretto di tale Francesco Sculafurru, causandogli la rottura delle stanghe, e poscia s’avventò su altro cavallo attaccato al carro di Giuseppe Serra, causandogli la rottura di una stanga. A scanso di ogni responsabilità, riferisco che detta bestia potrebbe causare altri maggiori danni, ed è di serio pericolo per il pubblico, poiché il più delle volte la conduttrice l’affida ad una sua figlia invalida e di gracile costituzione, come pure quando è intenta per la distribuzione dell’acqua nelle case e deve lasciare il cavallo per più ore incustodito nella pubblica via”. Questo cavallo per così dire “viziato”, di nome Baio, animò ancora il rapporto del capoguardia Princivalle il 29 gennaio di quell’anno. “(…) L’acquaiola Grondona Vincenza per il traino del carro – vendita – acqua ha un cavallo intero (noto come Baio di anni 8, alto m.1,47), il quale è viziato, tale da gettarsi su altri quadrupedi, mettendo in serio pericolo l’incolumità dei conducenti e dei cittadini. Esito di tale serio riferimento fu che la Grondona munì di museruola la bestia che per tale modo non poteva mordere, ma nonostante questo sussisteva sempre il pericolo accennato. Tant’è vero che detta bestia ebbe a gettarsi sul cavallo (noto come Peppinello, maschio intero pure lui, alto metri 1,56, di colore grigio ferro) che trainava un salta fossi del sig. Berretta Natale, tanto che questi riportò contusioni di qualche entità. Si gettò altresì sul cavallo che trainava la vettura pubblica del cocchiere (…) Alessandro, mettendo in varia apprensione e provocando spavento nei passeggeri fra i quali figurava la signora del Capo di Stato Maggiore della locale piazza marittima. Oltre tutto ciò pare che a volte il carro trainato da detto cavallo ebbe a rovesciarsi, come lo fu il 27 corrente nei pressi di Cala di Chiesa, riportando la stessa Grondona e figliola lesioni fortunatamente non gravi. Per quanto riferito è imprudenza il lasciare la stessa addetta al servizio che presta col descritto cavallo, che deve sostare incustodito, il più delle volte, nelle vie del paese; come a detta di persone competenti, non è adatta al governo della detta bestia la Grondona, donna inesperta, né la sua figliola, ragazza gracile e invalida”. Ma le storie di queste folli corse da Cala Chiesa o dal Cardaliò sono costellate di numerosi incidenti di cui, poi, risultavano responsabili diversi proprietari di carri. Nel 1933, una bimba di nome Aurora, mentre fuggiva terrorizzata dalla strada dove stava giocando, venne colpita dal mozzo di un carro, ruzzolando per terra e finendo con un piede parzialmente sotto la ruota. Denunciò l’incidente Mario D’Andrea segnalando che la propria figlia Aurora, giocava davanti al giardino di casa, quando venne “travolta dal carro di tal Salvatore, di cui conosceva soltanto il soprannome”. Alcuni degli acquaioli, che possedevano carri trainati da cavalli, erano: Andrea Lella di Gavino, che abitava in via Principe Amedeo e che teneva in libertà, nelle campagne di Due Strade, un cavallo di nome Pippo, un maschio castrato, nato nel 1902, di colore grigio, alto metri 1,32; Salvatore Ledda di Pietro domiciliato a Vigna Grande proprietario di alcuni cavalli, uno in particolare veniva tenuto in libertà a Cala Chiesa, di nome Morino, un maschio castrato, nato nel 1915, alto metri 1,28, di colore baio bruciato che verrà venduto nel 1935 a Santino Fiori di Luogosanto; Raimondo Mattana di Agostino, domiciliato in via Principe Amedeo, aveva uno cavallo di nome Balilla, maschio intero nato nel 1931, alto m.1,10, sauro con una stella in fronte. Tutti gli altri carri erano trainati da asini o da muli (almeno 12): questi ultimi, infatti, pur rispondendo meno prontamente agli ordini e pur essendo meno veloci, da alcuni acquaioli erano ritenuti preferibili per la maggior resistenza alla fatica e per la maggiore quantità di botticelle che trasportavano, per cui un solo viaggio magari con 24 botticelle non compensava la doppia corsa di un carretto con cavallo, che a fine giornata ne trasportava 30, ma era un lavoro più tranquillo e sereno, con meno rischi. Detto questo, anche se giornalisticamente non è corretto dare la notizia più importante alla fine di un articolo, ci sono dei particolari gustosi che mi servono per richiamare l’attenzione dei lettori su certi piccoli scandali connessi o comunque da ricondurre al traffico di cavalli. Una persona che possedeva diversi cavalli era il sig. Virgilio De Mutti, che gestiva il servizio funebre all’inizio del ‘900 in livrea e con tanto di cilindro e che poi passò il testimone al figlio Emanuele. L’appalto, aggiudicato nel 1903, si protrasse senza essere rinnovato per diversi anni, cioè fino a quando il Prefetto, nel 1916 non diede una scossa all’Amministrazione, perché si svegliasse dal torpore in cui si era adagiata. La giunta obbedì, ma per conferire prestigio e decoro al Comune, acquistò in proprio una nuovissima vettura per il trasporto dei morti. Quindi, si rinnovò l’appalto al De Mutti, ma la carrozza ce la mise stavolta il Comune che per giunta aumentò il prezzo del trasporto (vista la comodità del nuovo carro funebre) per corroborare ulteriormente il gestore del servizio. Il Prefetto obiettò, ma intanto i morti venivano già trasportati, data l’urgenza e il terrore per le epidemie, al Cimitero…E siamo nuovamente al vecchio proverbio storico “Petru futti e Paulu paga”. Per inciso, per un adulto le famiglie passano a pagare da 3 a 5 lire, mentre per un bambino si passa da 2 a 4 lire. Un’inchiesta successiva scoprirà poi che i soldi finivano, anziché alla tesoreria del Comune, nelle mani di un impiegato comunale che poi li passava brevi manu al titolare del servizio, col rischio che i soldi finissero pure a pagare qualche tangente. Ma il settore cavalli era allettante, evidentemente, per tutti coloro che gestivano certi servizi. Nel 1915 tre cavalli addetti al servizio della nettezza urbana venivano definiti “in cattivo stato”: due venivano indicati come “vecchi e consunti” e quindi da svendere a tal Ugo Martelli, complessivamente per 30 lire, mentre il terzo fu svenduto al gestore del servizio di N.U. Salvatore Campus, per lire 25. In cambio il Comune, con la logica di “Maria Brenna”, ne acquistò subito altri due per 400 lire dal gestore delle pompe funebri De Mutti. Questo signore incassava bei soldi pure dall’affitto di ulteriori cavalli al Comune, per servizi speciali, come il trasferimento al manicomio di Rizzeddu, in carrozza, dei dementi. Scrive l’inquirente nel 1916: “Ciò che mi sorprende è la spesa ogni anno sostenuta per i carri e i cavalli forniti dal De Mutti; in quanto non comprendo quale ne sia il bisogno, dal momento che il Comune teneva e tiene tre carri con tutto il necessario, i quali assolutamente non possono essere sufficienti, e spende somme ragguardevoli per il mantenimento di tre cavalli. Questi tre cavalli potrebbero servire anche per il trasporto di diversi materiali, per i quali il Comune pagò nel 1915 lire 1588 al carrettiere Francesco Sini niente meno che per 291 giornate, altre lire 1073,10 a Michele Pira per 200 giornate e lire 719,05 a Pietro Imperio per 131 giornate. Onde la spesa complessiva nel solo 1915 fu di lire 3380,15. Ma un’apposita inchiesta scoprì pure ben altro: i cavalli svenduti dal Comune perché male in arnese, vecchi e consunti, più erano passati gli anni e più erano diventati, secondo altre carte, divoratori stando ai conti di quantità impensate di crusca, paglia, avena, fieno, biada, ecc. (Lire 1875,67 nel 1913, lire 2173,62 nel 1914, lire 2669,98 nel 1915, lire 2300 circa nel 1916) e questo, ripeteva l’inquirente, sebbene gli animali fossero stati ufficialmente dichiarati pronti a morire di vecchiaia e di consunzione al fine di giustificarne la svendita. Come se non bastasse i foraggi per questi “utenti” venivano consegnati senza apposita bolla alle guardie che li facevano stivare in un magazzino comunale, per poi somministrarli con calma ai cavalli. A pensar male, dunque, ciò che si dichiarava, magari non entrava affatto nel magazzino e ciò che entrava, invece, poteva pure uscirne per il sostentamento anche di altri animali. Atro traffico, sempre legato ai cavalli, riguardava niente meno che il letame. Non mi dilungo sull’argomento, ma vi garantisco che ne varrebbe la pena. Era questo dunque il mondo nobile dei cavalli, a cui gli umili asini non erano ammessi e tantomeno i muli, per non parlare dei buoi, non degni, a loro volta, neppure di essere ricordati per nome. Tutti questi animali, tra cui molti cavalli i cui proprietari abitavano nel centro cittadino, ma in particolare tutti i buoi, gli asini e le pecore venivano ospitati e tenuti in sicurezza, soprattutto in inverno, al “Compulu” di via Balbo: un terreno ad andamento vagamente circolare e ad uso comunitario, tra via Balbo, via Balilla, via Regina Margherita, proprio di fronte ai Capanneddi, dove abitavano in baracche col tetto di canne e fango gli ultimi veri pastori dell’isola. (Gian Carlo Tusceri).

24 gennaio

La Compagnia Sarda d’Armamento e Navigazione istituisce un collegamento fra Bonifacio e i porti sardi di Santa Teresa e La Maddalena, ma i passeggeri sono obbligati ad avere il passaporto, anche per viaggi di uno o due giorni, e ciò scoraggia gli scambi.

26 febbraio

Arriva a Bonifacio il commissario prefettizio di La Maddalena, Domenico Tanca, per un incontro con il sindaco; vuole cercare i mezzi per facilitare le relazioni fra le due isole: propone di sostituire il passaporto con un permesso per soggiorni brevi. Data la delicatezza dell’argomento, il sindaco non può assumere decisioni perché deve prima informarne il prefetto.

8 aprile

Con la delibera n° 57 si decreta soppressione definitiva del cimitero vecchio. Il cimitero nuovo comincia a ricevere “ospiti” nel 1894, e automaticamente si iniziano ad abbandonare i seppellimento nel vecchio cimitero, già assorbito dal centro abitato. Non vi è comunque alcun dubbio che il cimitero “nuovo” viene a suo modo inaugurato nel 1894, come già scritto. Soltanto che a nessuno, fino a quel momento, era passato per la mente di traslare le tombe “storiche”. Si intendeva lasciar “spegnere” da sé la cosa e conservarlo almeno fin quando la gente avesse smesso di frequentarlo. Abbandonato a se stesso, difatti, le tombe una ad una miseramente crollarono e quando ormai il “nuovo” era decollato alla grande, alla fine a “qualcuno” venne la brillante idea di farlo sparire. Se restauri, pertanto, si fecero, si trattò di interventi lievi, di facciata, in occasione di visite importanti o di situazioni che avrebbero comunque creato imbarazzo all’Amministrazione.

29 maggio

Il re visita la Sardegna.

15 luglio

Nel campo sterrato di piazza Umberto I (piazza Comando, meglio conosciuta come “la renella” in isulanu “a rinedda”) si disputa la partita di calcio tra le due squadre decane della Sardegna, Ilva e Torres, il risultato finale sarà 2-0 per i padroni di casa, per la curiosità dei lettori, spesso i raccattapalle dovevano spesso recuperare il pallone a mare. Formazione nella foto: Balata Olindo, Di Fraia, Cenni, Baffigo, Bargone, Laganà, Gana, Padua, Amato e Farina.

27 giugno

Alle elezioni comunali della Maddalena si afferma la lista delle opposizioni, nonostante le intimazioni fasciste e il divieto di comizi. Su 2335 aventi diritto al voto, votano 1222 elettori. Il 10 luglio Domenico Tanca è sindaco.

18 agosto

Mussolini pronuncia a Pesaro il discorso detto della ‘‘quota novanta’’. La politica deflazionista del regime colpirà duramente l’agricoltura e la pastorizia sarde.

23 agosto

Gli avvenimenti bellici del primo conflitto mondiale, spinsero la Compagnia Universale del Canale di Suez a erigere un monumento in commemorazione dei caduti per la difesa del canale. Progettato dall’architetto francese Michel Roux- Spitz, esso fu concepito in modo da esser visto dalle navi che transitavano nel passaggio e fu, perciò, destinato alla località di Jebel Mariam, un’altura vicina al mare e situata nei pressi della cittadina di Ismailia. Verificate le rocce ornamentali proposte alla Compagnia, viene fatta la scelta della roccia da impiegare… il granito. Tutto il materiale proviene dalla grande cava di Cala Francese, laddove la granulite è compatta e resistente: questa si presta nella realizzazione di opere monumentali. Nel 1925, la Società Esportazione Graniti Sardi era venuta a conoscenza del progetto e aveva deciso di mettere a disposizione dell’architetto e dello scultore il proprio materiale da costruzione; effettuate le prove di resistenza meccanica e scelto il campione definitivo, il 23 agosto 1926, venne firmato il contratto per la fornitura dei conci della base e dei due grandi piloni e successivamente (dicembre 1927) quello per i pezzi lavorati delle due statue. La fornitura complessiva fu di circa 5000 conci di granito lavorato per un peso di circa 4730 tonnellate. Il materiale, debitamente imballato all’interno di grosse casse di legno, fu trasportato nella località Ismailia con i vapori “Luisa” e “Adone”. Nell’hangar della cava di Cala Francese sono conservati i registri con elencate le varie forniture di “pietre” che da gennaio 1927 a maggio 1929 sono state imbarcate sulle navi e trasferite in Egitto per la realizzazione del monumento. Queste statue furono ideate dallo scultore Delamarre e realizzate da provetti scalpellini della Società Graniti Sardi, sotto l’attenta sorveglianza del signor Attilio Grondona, proprietario delle cave di Cala Francese, e dei signori Guerin, Santelli e Cardinale, anche questi scultori, che all’occorrenza intervenivano nel lavoro di finitura. I modellini in gesso delle statue, ancora oggi conservati nei locali della cava, facevano bella mostra di sé nell’ufficio dell’impresa insieme ai disegni dei particolari: la fiaccola portata dalla figura rappresentante l’intelligenza che guida e governa la forza delle armi, le pieghe dei lunghi abiti appena interrotte dal leggero accenno di movimento, le enormi ali aperte. Il compito di realizzare i pezzi era stato affidato agli scalpellini più bravi, quelli che da tempo avevano superato la generica lavorazione dei tacchi per la pavimentazione stradale e che, quindi, potevano affrontare, senza pericoli di errori, una vera scultura. Prima di inviare i pezzi sezionati e numerati in modo da poter essere ricostruiti senza difficoltà sul posto, le statue furono assemblate a secco nella cava perché si fosse certi che le varie parti combaciassero perfettamente. La meraviglia di quell’opera attirava gruppi di visitatori che dalla Maddalena si recavano in cava e venivano immortalati, nelle foto ricordo, insieme agli scalpellini, giustamente orgogliosi del loro lavoro che dava lustro all’intera città. Tutti i pezzi furono definitivamente assemblati sul posto da operai dei Servizi Tecnici della Compagnia del Canale di Suez. Nel 1933 l’architetto Roux-Spitz nella sua monografia “Réalisations” pubblica il programma dei lavori effettuati per la realizzazione del monumento assieme ai disegni; la stampa internazionale diffonde le foto e gli articoli mettendo in evidenza l’inaugurazione dell’opera avvenuta il 3 febbraio 1930. Sulla rivista francese “L’architecture” Albert Laprade descrive in questo modo il monumento: “il monumento è composto da due immensi piloni alti 40 metri, separati da una stretta feritoia di 150 cm stretta alla base, con due figure alate colossali alte 8 metri simboli della civiltà e della forza. L’insieme monumentale combina armoniosamente le forme tradizionali della Piramide e dell’Obelisco e il carattere ieratico delle sculture egizie rivisto con una concezione moderna”. Le statue sono portatrici della fiaccola della civiltà, l’intelligenza serena e la forza, severe guardiane del destino del paese, rappresentando le due forze tutelari che salvano il canale e guardano la via. I piloni eretti nel cielo del deserto impongono la loro paradossale verticalità alle navi che imboccano questa grande via di circolazione marittima tra oriente e occidente. La forza evocativa del monumento viene ulteriormente arricchita per l’effetto di luci e ombre proiettate dai piloni e dalla feritoia sapientemente studiate dagli scultori, questo faceva si che il monumento fosse visto a grande distanza”. Il progettista e lo scultore avevano già realizzato in passato altri monumenti di proporzioni considerevoli ed è per questo che il monumento alla difesa del canale doveva rispecchiare o anche superare per proporzioni quelle opere già realizzate; Roux-Spitz non si accontenta di una posizione modesta, ma sceglie la collina di Jebel Mariam in pieno deserto delle dimensioni di 28 metri di altezza per 500 metri di lunghezza, che ricorda l’eternità, la nudità e i grandi spazi. Nel 1928 Roux-Spitz scrive a Delamarre: “la posizione, vicino al lago Timsah su una piattaforma di sabbia alta 18 metri, è assolutamente meravigliosa. Bisogna costruire un capolavoro. Qualsiasi oggetto minimo verticale conta tantissimo”. L’insieme dona al paesaggio piatto e desertico un punto di riferimento monumentale di rilevanza eccezionale. “La realizzazione del monumento richiede più di 4 anni di studi e di lavori; il materiale per la costruzione è un granito rosato estremamente duro proveniente da Maddalena, piccola isola situata tra la Corsica e la Sardegna, altra area produttrice oltre l’Egitto, paese di granito per eccellenza”. In due anni scrive Roux-Spitz: “gli operai lavorano per estrarre 5000 mc di enormi blocchi di granito tagliati a scalpello, caricati sulle navi e spediti in Egitto. Questi blocchi di granito son pronti per essere assemblati dopo essere stati ad uno ad uno numerati e imballati. Questa spedizione rappresenta il carico di più navi. Lo scultore realizza nella cava le due figure in gesso a metà grandezza. Le fondazioni sono realizzate con una platea in cemento armato e i piloni cavi sono composti da un’ossatura in cemento armato con il rivestimento in blocchi di granito accoppiati”. I modellini delle statue sono prima realizzati in creta, successivamente in gesso e infine in granito di piccolo formato scala 1/10, cercando di avvicinarsi il più possibile all’opera finale. I numerosi studi di nudo e di drappeggio per vestire le due statue, sono stati approvati dopo averne scartati a decine. Nel mese di Agosto 1927 i due artisti Spitz e Delamarre si ritrovano nell’atelier di quest’ultimo e vengono decisi i tempi di assemblaggio da impartire. I modelli in gesso in scala ridotta vengono inviati via nave da Genova all’isola Maddalena, dove vengono realizzate a grandezza definitiva dagli scalpellini. Nel frattempo i due piloni sono già stati costruiti e Delamarre può contare su una grande impalcatura che gli permetterà di poter montare le statue in blocchi assemblati a secco. Largamente e vigorosamente stilizzate, le figure monumentali hanno la necessità di fare corpo con l’architettura di Roux-Spitz. Citazione di Delamarre: “sono arrivato alla semplificazione delle mie figure colossali e alle linee pure e quasi geometriche imposte dalla cornice del deserto e del mare, attraverso i numerosi studi di nudo e di drappeggio secondo natura…”. Questo potere ieratico è accentuato dalla rigorosa geometria dei volumi e sottolineato dalle pieghe rettilinee delle vesti, dalla capigliatura pettinata all’indietro, dalla rigida postura e dalla severa disciplina dell’insieme. Lo scultore realizza le statue come se il vento del deserto abbia fissato al petto e alle ginocchia le loro vesti, inclinando la fiamma delle fiaccole nelle loro salde mani. Si può concludere dicendo che la fornitura venne eseguita con la massima precisione per quanto riguarda i contratti stipulati fra le parti, i tempi di consegna, la lavorazione e la bellezza del granito; si deve evidenziare, infine, il ruolo importante che hanno avuto gli scalpellini di Cava Francese per la realizzazione del monumento che si pone fra le più pregevoli e gigantesche opere d’arte dell’industria estrattiva italiana. La Società Esportazione Graniti Sardi fece stampare decine di questi manifesti, per pubblicizzare il proprio materiale costruttivo, mettendo in risalto l’opera più grande mai realizzata con il granito di Cala Francese.

5 novembre

Il Consiglio dei ministri avvia la legislazione eccezionale volta a liquidare ogni forma di opposizione.

26 dicembre

Nel giugno 1913, mancando ancora all’isola una decente banchina di approdo, sebbene già dal 1907 il Governo avesse stanziato 150.000 lire per “migliorare realmente le condizioni del porto”, il Comune riscoprì questi primi soldi, gelosamente conservati dalle precedenti amministrazioni, onde evitare di sprecarli in questa cara, storica, ma troppo angusta cala. Erano sorte, infatti, notevoli perplessità tecniche, prima ancora che politiche, su questo argomento: “Lo specchio d’acqua di Cala Gavetta è talmente ristretto ed interrato che un piroscafo postale adibito alle linee della Sardegna, avente la minima lunghezza di metri ottanta non potrebbe né entrare né accostare ad alcuna banchina anche con maggiori fondali, perché gli mancherebbe lo spazio libero per la manovra. Nelle condizioni indicate, questa ansa può essere soltanto destinata a barche di piccolo traffico con la Costa Sarda e all’ormeggio dei pochi bastimenti adibiti ad uso depositi viveri”. La saggia decisione non sminuì certo per i pescatori locali e per tutti i proprietari di barche da diporto e di bastimenti, l’importanza, nel loro cuore, di Cala Gavetta, con le sue bettole storiche (famosa quella di zì Ghjuannetta), il suo tabacchino o “gabellottu” per i mezzi sigari toscani, le garitte dei doganieri e l’ufficio delle guardie daziarie, ma, soprattutto, l’emporio di Carlo Ajassa, con vendita di “mobili, legnami, ferramenta e materiali edili ed elettrici” entro “un recinto pressoché rettangolare e lungo tutto il perimetro del quale sono ininterrottamente allineati i diversi locali di deposito e di vendita”. La sera del 26 dicembre, “L’impeto delle acque riuscì a far saltare la volta in mattoni e cemento che imbrigliava il torrente per un tratto di circa sei metri di lunghezza, smuovendo il terreno circostante, invadendo dapprima il magazzino dei mobili, quindi, abbattendo le vetrate intermedie, precipitandosi nel negozio di vendita e nel cortile interno e di lì invadendo i magazzini dei materiali da costruzione, raggiunse, a seconda del livello dei pavimenti, un’altezza oscillante tra metri 0,60 e 1,20. La stima dei danni non risulta, ma si presumono ingenti. I torrenti avevano preso a correre, quella notte, dopo neppure 10 minuti di pioggia torrenziale e continuarono la loro corsa sfrenata verso il mare, con maggiore intensità di ora in ora, travolgendo tutto, per almeno altre sedici ore consecutive. Poi le acque piovane si sono parzialmente placate, ma i torrenti in piena hanno proseguito imperterriti a precipitarsi dalle colline circostanti in maniera altrettanto tumultuosa per una settimana. In seguito l’andamento delle vadine riprese in maniera meno convulsa, ma sempre sostenuta”. Ovviamente, al termine di questa inondazione Cala Gavetta dovette essere ancora una volta dragata, perché la chiglia dei gozzi toccava ormai la melma convogliata in mare dall’impeto delle piogge. Figurarsi i bastimenti da carico. La piazza XXIII febbraio si era intanto arricchita di una discussa chiesa anglicana, mentre nella palazzina dell’inglese Roberts, ereditata dalla famiglia Zicavo, si ricaverà l’ufficio daziario, la pretura e quindi, molto dopo, gli uffici del parroco don Capula.