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Dalla letteratura al cinema

Analizzando i testi e scorrendo i fatti, risulta assai difficile stabilire con una certa precisione in che momento sia avvenuto per lo scrittore maddalenino il passaggio dalle file del giornalismo e della piccola narrativa, a quelle del cinema. Probabilmente l’esperienza come critico cinematografico rappresenta il primo passo concreto verso il cinema e indirettamente verso la professione di sceneggiatore che di lì a poco diverrà interesse e impegno esclusivo. Certamente Solinas esprime senza remore la sua ferma convinzione che, quale mezzo di comunicazione, il cinema sia decisamente superiore alla letteratura, giustificando con ciò la sua scelta di divenire, già dalla seconda metà degli anni 50, esclusivamente sceneggiatore, uomo di cinema: La letteratura incide solo da certi livelli in su, non c’è confronto col consumo del risultato ottenuto da una buona sceneggiatura. Tante volte mi sono detto che se invece di scrivere il soggetto e la sceneggiatura di La battaglia di Algeri avessi fatto sull’argomento un libro, probabilmente avrebbe avuto un certo successo, un certo giro, ma non più dei tanti libri che sono stati scritti sulla rivoluzione algerina, e invece il film ha avuto dei risultati enormi e continua ad esistere. Si tratta dunque dell’esigenza di una comunicazione efficace e di massa che lo porta a scegliere, lui intellettuale comunista interessato affinché il suo messaggio trovasse la maggiore diffusione possibile, l’abbandono della narrativa per il cinema e la sceneggiatura. In questo senso, la scelta del giovane autore è facilmente comprensibile: la sceneggiatura si costituisce in Solinas quale strumento di diffusione culturale, informazione storica o d’attualità e perciò non solo strumento per il cinema ma anche mezzo attraverso il quale lo sceneggiatore, l’autore, in accordo col regista (un altro autore), utilizza la forza del cinema (che amplifica, materializza e rende visibile) per non solo raccontare una sua storia ma bensì fornire una sua visione del mondo, denunciare un’ingiustizia o ricordare un fatto storico informare di fatti di stringente attualità, descrivere cambiamenti economici e culturali in atto o già consolidati. Certo, appunto doveroso quando si parla dell’industria cinematografica, anche il lato economico deve aver influito: i guadagni del cinema, seppur non eccezionali, erano comunque superiori rispetto a quelli che poteva garantire l’attività letteraria altrettanto precaria.
La scelta di Solinas, avviene in un momento cruciale per il nostro cinema. Se la società civile iniziava proprio in quegli anni una lunga risalita verso il boom degli anni cinquanta e sessanta, anche il cinema tenta di risollevarsi dalle macerie di una guerra che tra l’altro ne ha letteralmente distrutto gran parte del principale centro produttivo, Cinecittà. Ciò nonostante, a dispetto degli ostacoli e delle forze avverse, la volontà di sopravvivere da parte degli artisti, la spinta a proseguire, la necessità di lanciare il messaggio del nuovo cinema italiano che in un certo senso sente di doversi riscattare agli occhi del mondo, è così forte da consentire a un gruppo di “sopravvissuti” con pochi mezzi e tante idee, di rimettersi in movimento, con entusiasmo, ottenendo risultati che si riveleranno superiori a qualsiasi previsione. Il neorealismo, covato come sappiamo nella redazione della rivista Cinema, nasce comunque da queste macerie e Franco Solinas, giovane scrittore, subisce l’influenza del messaggio e della poetica neorealista, palesata prima nei racconti, poi come vedremo, nel suo modo di pensare cinema, soprattutto quando opera in connubio con Pontecorvo, che del neorealismo fa la sua principale fonte ispiratrice, sia per quel che concerne il contenuto che per quanto riguarda la forma della rappresentazione.
Certamente fu cruciale per la rifondazione del cinema italiano, il contributo dato dagli sceneggiatori. Questi si fecero infatti fautori di un ampio e acceso dibattito all’interno di un impegno collettivo che rispondeva pienamente al bisogno di discutere, dopo anni di forzato silenzio durante il fascismo. In questo periodo si opera in ampi gruppi di lavoro che Zavattini non esiterà a definire “ammucchiate” e Solinas, certamente non immune da tali influenze, trova proprio in questi contesti delle occasioni per partecipare alla scrittura di svariate pellicole, per la maggior parte commedie post-neorealiste. C’è comunque l’intenzione di porre nuove basi su cui fondare la rinascita del cinema italiano e su queste basi, da questa necessità, si formano gli sguardi e le idee di Franco Solinas, che terrà sempre ben presente nella sua pratica di scrittura, fin dagli esordi, questa lezione.
Gli inizi come sceneggiatore di Franco Solinas, risalgono dunque alla fine degli anni .40. All’epoca le idee nascevano nei caffè o a pranzo in alcune trattorie: ai problemi di trasporto e alla mancanza di case confortevoli sopperivano le accoglienti e ben riscaldate salette dei locali sparsi un po. lungo tutto il centro di Roma, come il Caffè Greco, di Aragno o di Bebington e Ruschena al Lungotevere, così come la generosità di alcune trattorie quali Otello, Cesaretto in via della Croce o dei Fratelli Menghi in via Flaminia, che Ugo Pirro non esiterà a definire veri e propri mecenati. Questi luoghi permettevano agli squattrinati cineasti di superare l’endemica mancanza di denaro e conseguentemente di cibo, mangiando a credito mattina e sera. Franco Solinas inizia il suo apprendistato lavorando per Steno e Monicelli, «la nave scuola di mezzo cinema italiano» i quali, ricorda lo stesso Solinas,
dovevano fare 7-8 sceneggiature all’anno, e si circondavano di negri, ma con tutta chiarezza di rapporti, collaborando a certi film soprattutto comici. Erano una specie di industria, allora, di lavoro in serie. Di lì erano passati Age e Scarpelli, Sonego, Maccari, Pirro, e ogni tanto ci si incontrava […] prima di tutto veniva la necessità del lavoro, soprattutto per chi non era nato in salotti e biblioteche.
L’ambiente che si forma attorno ai due affermati sceneggiatori, era mutuato in buona parte dal giro del Marc’Aurelio, rivista satirica che assurge a vera e propria fucina di talenti, quasi tutti destinati a lasciare il segno nel cinema e nella letteratura italiana, negli anni a seguire. E un po. come era d’uso fare anche nelle redazioni del Marc’Aurelio e del Bertoldo, il lavoro, che non dava diritto di firma, consisteva nel portare idee per battute e scene comiche o nell’editare i copioni (correggere errori, aggiustare scene e dialoghi eccetera) prima che gli stessi finissero nelle mani dei titolari della “bottega” per il “tocco finale”. Le botteghe di sceneggiatura dove Solinas svolge il suo apprendistato, rappresentano la norma di sviluppo delle storie per il cinema, nel periodo che va dal dopoguerra fino quasi alla metà degli anni sessanta. Gruppi eterogenei di sceneggiatori, diversi da film a film, con modalità di collaborazione particolari che a volte travalicano i limiti imposti dai ritmi lavorativi, si unisce appunto nelle “ammucchiate”. All’interno delle botteghe di sceneggiatura, l’addensarsi di molte personalità ai tavoli di elaborazione è massiccia: la composizione e il numero dei nomi accreditati normalmente come sceneggiatori dei film popolari del periodo lasciano solo intuire la modalità fortemente compartecipativa nell.ideazione e nella stesura delle sceneggiature. Accanto a grosse personalità quali Zavattini, Amidei, Monicelli o De Concini, ci sono anche i giovani come Franco Solinas o Ugo Pirro, gli apprendisti in attesa di esordire o magari firmare qualche film: si lavorava a qualsiasi pellicola e su qualsiasi copione, l’importante non era esprimersi artisticamente, almeno non per ora. La prima preoccupazione, come sottolinea lo stesso Solinas, era lavorare, era la sopravvivenza e questo si rileva, non solo nelle numerose collaborazioni senza firma, ma anche nelle rare partecipazioni accreditate a film che non certo saranno caratterizzati dall’impegno civile, dalla visione critica e politica, che erano, al periodo, un lusso per pochi da rimandare al futuro.

Gianni Tetti