Caprera AnticaGiuseppe GaribaldiRubriche

Due capinere

Aveva adempiuto ai suoi uffici d’uomo, era sereno e la disposizione del suo cuore non doveva essere diversa da quanto aveva scritto nel suo romanzo Clelia: “Dio qui si adora come si deve, col culto dell’animo – senza sforzo – nel grandioso tempio della natura che ha il cielo per volta e gli astri per luminari. Il capo della famiglia che primeggia in quest’isola è un uomo come gli altri, colle sue fortune e i suoi malanni. Ebbe la sorte di servire qualche volta la causa dei popoli servi. Come qualunque mortale ha la sua dose di difetti. Cosmopolita, egli ama però svisceratamente il suo paese l’Italia e Roma con idolatria”.

Era aprile e Caprera tutta fiorita e pregna di profumi si stendeva intorno al vecchio proprio come un tempio grandioso, nel quale egli ora doveva compiere l’ultimo sacro rito. Da molti anni lo aveva preparato in sé, fino ai dettagli: un grande rogo odoroso che bruciasse quel suo corpo tutto dato, tutto consumato, sublimandone le carni, e rendendo alla terra la sua polvere. Un rogo “omerico” come quello di Patroclo, ma che ardesse nel silenzio della sua isola, senza cerimonie né testimoni all’infuori degli officianti suoi fidi. Perciò, già alcuni mesi prima si era preoccupato di concordare con Francesca le modalità della cremazione e, insieme, avevano esteso le relative volontà testamentarie: ”Caprera, 17 settembre 1881. Avendo, per testamento, la cremazione del mio cadavere, incarico mia moglie dell’eseguimento di tale volontà – con legna di Caprera – e prima di dare avviso a chicchessia della mia morte. ove morisse essa prima di me, io farò lo stesso per essa. Verrà costruita una piccola urna di granito che racchiuderà le ceneri di lei e le mie. L’urna sarà collocata sul muro dietro il sarcofago delle nostre bambine e sotto l’acacia che lo domina.” Firmato: Giuseppe Garibaldi – Consento, firmato: Francesca Garibaldi. Inoltre, ancor prima aveva dato incarico ai dottori Prandina, De Cristofori e Pini di sovrintendere all’aspetto tecnico dell’operazione. Quindi tutto era predisposto per bene. Mancava ora la preparazione della pira.

Il vecchio scelse quindi il luogo: una radura, delimitata da un muro di Granito, sol lato destro, guardando la casa, vicino a un pino; scelse con cura i tipi di legna e ordinò ai suoi di raccoglierli: il ginepro resinoso, il lentisco profumato, il mirto sacro, qualche corbezzolo e rami di pino, li fece accatastare. Stabilì che sopra fosse collocata una grande lamiera e su questa un lettuccio su cui deporre la sua salma vestita della gloriosa camicia rossa. Egli seguì con attenzione ogni dettaglio, poi si mise in pace ad aspettare la morte, ultimando il romanzo Manlio e leggendo i suoi poeti preferiti.

Scrisse la sua ultima lettera il 29 maggio al direttore dell’Osservatorio Astronomico di Palermo per avere la posizione di una cometa apparsa in quei giorni nel cielo. Sentiva la forza venirgli meno dolcemente. Allora chiese a Francesca di essere portato nella grande stanza che aveva fatto costruire per lui sul lato nord della Casa Bianca, dalla cui finestra si poteva vedere il mare, la Corsica e, al di là, immaginare la “sua” Nizza. La moglie, che non lo lasciava più, notte e giorno, vi trasferì il letto e comprese che la fine era prossima; avvertì Menotti a Roma e chiese l’intervento del medico di bordo di una nave da guerra ancorata a La Maddalena. Ma Garibaldi non voleva medici tranne il suo grande amico Albanese; desiderava soltanto la pace. Fu lieto quando vide Menotti e volle vicino a sé il piccolo Manlio. Il 2 giugno 1882 il morente era come assorto in un suo intimo colloquio con la natura di cui dalla finestra giungevano i colori e gli odori o con il filo di memorie tra passato e futuro.

Nel pomeriggio due capinere si posarono cinguettando sul davanzale e Francesca fece per mandarle via, ma egli la fermò dicendo: “non le scacciare; forse sono le anime delle nostre bambine che vengono a prendermi”. Poi chiuse gli occhi e si spense. Erano le 6 del pomeriggio. Nelle ore che seguirono si scatenò la disputa sulla cremazione. Contrastanti versioni ne furono date e naturalmente la più accreditata fu per molto tempo che il governo avesse ceduto alle pressioni di parte clericale, vietandola. Ma non fu così: le pressioni ci furono, ma sotto forma di innumerevoli telegrammi che giunsero alla famiglia da ogni parte d’Italia da gente che non voleva che fosse distrutto quel corpo venerato. Menotti, Ricciotti e Stefano Canzio ne furono turbati e si opposero alla cremazione dopo un lungo colloquio con l’onorevole Crispi da loro stessi chiamato per un consiglio; al consulto parteciparono anche il dottor Albanese medico e amico fedele di Garibaldi, Alberto Mario e Domenico Curatolo.

Non sappiamo quale posizione abbia assunto Francesca. Non ebbe peso sui figli l’opinione di tutta la stampa laica liberale che chiedeva unanime di rispettare la volontà di Garibaldi: in tal senso si erano espressi la “Gazzetta del Popolo”, “Il Risorgimento”, “La Gazzetta Piemontese”, il “Corriere della Sera”, la “Regione”, il “Pungolo”, il “Presente di Parma”, la “Lombardia”. Protestò fieramente il Carducci con una famosa invettiva su “Cronaca Bizantina”: “…Bruciate tutti i vostri poeti, me il primo. Avete sentito le ultime parole su le capinere? E ora non vogliono nemmeno rispettare l’ultima sua volontà. Non vogliono che l’eroe bruci sulla catasta omerica nel cospetto del mare e del cielo. Lo vogliono trasportare a Roma per fare delle processioni, del chiasso, delle frasi. Oh, ora capisco perché il popolo italiano non ebbe mai vera epopea!…”.

Il corpo dell’Eroe fu imbalsamato e si prepararono i solenni funerali di stato: delle sue volontà fu rispettata soltanto quella di essere sepolto a Caprera vicino alle sue bambine, dietro casa; e fu già gran cosa poiché molti chiedevano che fosse portato a Roma e sepolto in Campidoglio. La Mattina dell’8 giugno, la gente cominciò a sfilare davanti alla salma. Così ne descrive le sembianze lo scrittore Pier Enea Guarniero nel libretto “Tre giorni a Caprera”, da lui pubblicato subito dopo i funerali: “Pareva dormisse e al primo vederlo ognuno sentiva qualche cosa agitarsi in fondo al cuore e salire fino alla gola e farvi un nodo. Non si poteva staccar gli occhi da lui e per lungo tempo non si vedeva altro nella stanza che quella faccia dai lineamenti ben noti ma immobili e irrigiditi nel torpore della morte, con la pelle tesa, senza una ruga, di una tinta cerea, quasi terrea, tutta uniforme e chiazzata solo alle gote da due nere ecchimosi sinistri precursori della dissoluzione. Aveva i peli dei capelli e della barba, rossicci, brizzolati di bianco, ben ravviati e pettinati, le palpebre socchiuse, le labbra semiaperte, come ad un sorriso, e lasciavano a vedere le due fila di denti, scuri e irregolari. Gli copriva la testa la tradizionale papalina di velluto nero, ricamata a fiorami d’oro e d’argento, e portava al collo l’occhialetto d’oro pendente sul seno. Tutto il resto del corpo era coperto da un largo drappo; le braccia erano rappresentate dalle maniche di una camicia rossa, incrociate sul petto e un fazzoletto bianco teneva il luogo delle mani. Al di sopra della testa poggiava sul capezzale una corona di foglie d’alloro e un’altra simile l’aveva ai piedi“. Fin dal giorno precedente i maddalenini videro la loro rada coprirsi di grandi navi da guerra, tra cui la “Cariddi” e il “Washington” e molti altri piroscafi e sbarcare centinaia e centinaia di persone. I pellegrini erano almeno il doppio di loro, tanti quanti non se n’erano mai visti nella storia e rappresentavano un mosaico fantasmagorico e impettito di tutte le componenti nazionali. La lunga teoria delle lance scaricava sugli scogli di Caprera ministri e generali, operai e signori, contadini e uomini di mare, uomini politici, soldati e garibaldini venuti d’ogni dove.

L’isola era stata pavesata lungo tutto il sentiero che dalla marina portava alla Casa Bianca di bandiere e stendardi e festoni di fiori e di alloro; pareva una gran festa campestre in cui però le bande coi luccicanti ottoni suonavano gli stessi inni che molti avevano sentito a ritmo di carica, nelle lente cadenze della marcia funebre. Per tutta quella mattina la gente sfilò davanti alla salma, poi si disperse tra i campi e la macchia e si diede avidamente a raccogliere qualcosa che potesse ricordare la circostanza. Scrive Guarnerio: “Si raccolsero i fiori silvestri, cresciuti tra i crepacci e screpolature delle rocce; si tagliarono i rami di pino, di ginepro, nel cimitero, nei campi, dovunque. Un vero saccheggio venne dato alla catasta della legna preparata per il rogo; non so chi non ne abbia portato via un bastone, o almeno una scheggia”. Nulla avveniva di quanto il vecchio di Caprera aveva desiderato.

Alle 2 del pomeriggio il cannone della “Cariddi” tuonò per annunciare l’inizio del funerale ed esattamente nello stesso momento il vento che fin dalla mattina soffiava fresco, volse a tempesta; il mare, che già era ingrossato, si scatenò in una indescrivibile buriana di onde accavallanti; le nuvole, che s’erano andate accumulando, coprirono il mondo di un livore plumbeo e infine si squarciarono in un vero e proprio nubifragio. Il rombo dei cannoni fu coperto da quello ben più vasto e terribile di mille fulmini; le voci degli oratori ufficiali, il suono delle bande furono ingoiati dall’urlo del ponente infuriato; il vento strappò via fino all’ultimo drappo, all’ultima bandiera e festone, fece giustizia di cappelli a cilindro, di scialli ricamati, di ombrellini da sole. In breve quel corteo di esteriorità, rumoroso, imbandierato e ciarliero, fu ridotto a una processione di penitenti fradici, muti e spaventati che seguivano la bara dell’uomo più semplice d’Italia fino alla fossa scavata dietro casa, sotto l’acacia. Appena deposto il feretro tutti fuggirono come anime perse nella bufera verso lo Stagnarello per cercare un imbarco: i marinai delle lance fecero miracoli di perizia per trasbordare il maggior numero possibile di persone alle navi, ma la tempesta era al suo culmine, il mare, nero come la pece, si contorceva in ondate quali i maddalenini non avevano mai visto a memoria d’uomo, in quella stagione. Perciò la metà della gente non poté imbarcarsi e l’altra metà, stipata nelle barche, rischiò la morte. Le quasi mille persone rimaste sui graniti di Caprera vagavano sotto il diluvio in cerca di un riparo, chi trovandolo sotto i massi, chi stipandosi nella casetta balneare di Garibaldi, chi risalendo alla casa e rifugiandosi nelle stalle e nei fienili. La notte passò con tutti quei corpi distesi, sfiniti, tremanti e affamati, di generali e popolani, politici e donne, soldati, operai, ministri e studenti, finalmente pareggiati in una eguaglianza da prima linea o da naufraghi che i vecchi garibaldini presenti avevano conosciuto bene con lui. Smise di piovere. All’alba del 9 giugno le barche raccolsero in fretta i derelitti, li trasportarono a La Maddalena, dove la popolazione si mobilitò per rifocillarli. Poi le grandi navi salparono e l’arcipelago tornò alla sua solitudine e Caprera tornò al suo silenzio, isola selvaggia, custode ora di un mito. Al placarsi della tempesta, rispuntò, quel suo sorriso misterioso, quel fascinoso richiamo per pochi eletti, che un giorno, venticinque anni prima, aveva trattenuto il marinaio – guerriero.

Antica immagine raffigurante la cavalla Marsala, la più amata di Garibaldi, un dipinto della sua figura, una volta mirabile e in più realizzata in maiolica sulla sua tomba. Un’opera di circa 6/7 metri quadrati che oggi è dove non dovrebbe essere; non si sa bene dove ma non nel suo luogo deputato che è Caprera.