6 gennaio 1766, le ragioni di un’occupazione
I suggerimenti del marchese Paliacho per scacciare i pastori Corsi dalle isole dell’Arcipelago
Il 24 luglio 1755, sull’avviso che era scoppiata in Algeri una grave epidemia contagiosa, il viceré conte di Bricherasio emise un lungo e dettagliato Pregone con il quale, oltre a stabilire le cautele sanitarie e le quarantene per tutte le navi in arrivo, ordinava la costituzione delle ronde lungo tutte le coste dell’isola al fine di avvistare per tempo i bastimenti in arrivo e impedire gli approdi clandestini allora frequenti per l’introduzione o l’esportazione di merci in contrabbando. Sulla costa nordorientale della Sardegna le ronde sanitarie erano stabilite nel modo seguente:
“Dalla torre di Frigiano alla torre dell’Isola Rossa cinque guardie, che si prenderanno da Castello Aragonese.
Dall’Isola Rossa alla torre di Vignolas cinque guardie, che si prenderanno dalla villa di Tempio.
Dalla torre di Vignolas a quella di Longon Sardo, cinque guardie delle ville del dipartimento della Gallura.
Dalla torre di Longon Sardo alla torre di Santa Lucia di Posada, trenta guardie che si prenderanno dalle ville della Gallura, Terranova e baronia di Posada”.
Tre anni dopo, il 10 giugno 1758, il viceré Des Hayes, nel timore di un’altra epidemia apparsa in vari porti del Mediterraneo, emetteva un ulteriore Pregone che sostanzialmente, per quanto riguardava le ronde sanitarie, ricalcava quello precedente. Stavolta, però, nominava per ciascun tratto di costa i deputati di sanità, che per il litorale che ci interessa erano don Giuseppe Riccio di Tempio, dall’Isola Rossa a Longon Sardo, e Don Giuseppe Farris di Siniscola, da Longon Sardo alla torre di Santa Lucia.
Sia nel primo che nel secondo provvedimento non si fa alcun cenno alle fronteggianti isole dell’arcipelago maddalenino come se le stesse fossero disabitate, non costituissero scalo per le navi, ovvero non appartenessero alla Sardegna e ciò anche se la corte cagliaritana era certamente a conoscenza che in due precedenti pregoni sanitari emessi il 28 gennaio 1721 dal barone di S.Remy, primo viceré di Sardegna, in occasione della peste di Provenza, e l’11 maggio 1728 dal marchese di Cortanze per la peste segnalata nei porti ottomani, si era fatto chiaro cenno all’arcipelago ed era stato intimato ai pastori corsi ivi stanziati di allontanarsene trasportando a Bonifacio il bestiame da loro tenuto sulle isole.
E’ ben strano (e la cosa fu poi sfruttata dai bonifacini a loro favore quando sorse la controversia sull’appartenza delle isole) che in questi ultimi due Pregoni che non si sia fatto alcun cenno agli abitanti dell’arcipelago i quali, invece, proprio in quegli anni erano tenuti sotto stretta osservazione per la loro connivenza con i contrabbandieri di Aggius alla cui attività venivano attribuiti i mali che affliggevano il nord della Sardegna ove i traffici illeciti, alimentati dal furto e dall’abigeato, oltre a recare grave danno all’erario, avevano dato origine al banditismo e alle faide che per decenni insanguinarono la Gallura e il Logudoro.
Indubbiamente le ronde costiere, istituite in occasione delle epidemie, con la loro vigile e costante presenza sui litorali dovevano render dura la vita ai contrabbandieri anche perchè, come imponeva il secondo pregone, ad ogni allarme era fatto obbligo “…a tutti i pastori, ed altre persone di qualunque sorta commoranti presso i lidi del mare doversi ben tosto ritirare coi loro bestiami e greggie dentro terra in non minore distanza di tre miglia da’ litorali, sotto pena in caso di inadempimento della vita e della confisca di detti bestiami”.
Le cronache dell’epoca riportano frequenti episodi di scontri armati fra truppe e miliziani da una parte e contrabbandieri e banditi dall’altra e in tutti i resoconti ci si rammarica sempre del fatto che ad avere la meglio erano quasi sempre questi ultimi, di solito meglio armati, talvolta più numerosi e comunque favoriti dalla perfetta conoscenza di ogni anfratto e di ogni segreto passaggio che consentiva loro di praticare azioni di vera e propria guerriglia alla quale le truppe regolari non erano certamente addestrate.
Carlo Emanuele III, deciso a porre fine alle deleterie attività degli abitanti di Aggius e dei pastori delle isole, nel fondato timore che la situazione di fatto venutasi a creare avrebbe potuto dar luogo a rivendicazioni da parte della Repubblica di Genova, aveva dato incarico al marchese Gavino Paliacho della Planargia, in quel momento reggente la Regia Governazione di Sassari, di fare una dettagliata analisi della situazione, di accertare a chi appartenesse la sovranità sulle isole delle Bocche e di proporre una serie di soluzioni per risolvere l’annoso problema. Il Paliacho riferì al re con due lunghe relazioni, la prima pervenuta a Torino il 10 dicembre 1765, come appare da una annotazione sul frontespizio, e la seconda datata Sassari 6 gennaio 1766. Della prima relazione, purtroppo, non vi è alcuna traccia negli archivi torinesi; di essa si è conservato solo il frontespizio. La seconda, nella cui premessa si fa cenno alla precedente relazione, è perfettamente conservata ed è certamente la più interessante. E’ un documento lunghissimo, di oltre trenta pagine, vergato da un ottimo scrivano, con numerose note e richiami dottrinari che dimostrano palesemente quale fosse l’alto grado di cultura e di erudizione del Paliacho e quale profonda competenza egli avesse in materia di diritto e particolarmente di diritto internazionale. Il Paliacho, infatti, sebbene avesse intrapreso la carriera militare, malgrado gli intendimenti paterni che lo volevano destinato ”alla scienza del diritto”, non abbandonò mai la passione per lo studio e – come apprendiamo dal Tola – oltre a essere “riputato a’ suoi tempi uno dei migliori uffiziali superiori dell’esercito sardo: la quale opinione confermò sempre co’ fatti dando egregie prove di valore in ardui e perigliosi cimenti”, si distinse per il suo sapere e per le vaste conoscenze acquisite “…colla lettura di buoni libri, alla quale solea consacrare tutte le ore che gli avanzavano dalle cure de’ propri impieghi”. Frequenti le citazioni dei maggiori testi giuridici dell’epoca ed i riferimenti a testi biblici ed ai grandi autori latini che dimostrano, oltretutto, come egli, cosa rarisssima a quei tempi, disponesse di una vasta biblioteca, certamente in gran parte quella paterna, poichè il genitore, Antonio Ignazio ”…percorreva – riferisce ancora il Tola – la via dell’alta magistratura, nella quale poi pervenne alla luminosa carica di reggente di toga nel supremo consiglio di Sardegna”.
Il prezioso documento è sfuggito a suo tempo all’attenzione degli storici che in passato si sono occupati delle vicende isolane e, in epoca piu recente, anche ad Isabella Castangia che nel suo studio apparso nel 1988 ha ampiamente trattato la questione delle Isole intermedie sul piano del diritto internazionale. Si può quindi ben dire che questo documento, fonte di preziosissime notizie su quella che era la reale situazione in Gallura e nel Logudoro, è ancora inedito nella sua interezza.
Il Paliacho, evidentemente a corto di fatti che potessero dimostrare un concreto esercizio della sovranità sarda sulle isole attraverso sicuri documenti e testimonianze di precisi atti di imperio, si appella principalmente al concetto della “contiguità territoriale” secondo il quale uno Stato che esercita la sua sovranità su un tratto di costa estende la sua giurisdizione anche sulle isole ad essa vicine. Egli, infatti, premette:
“…in prova del Dominio di S.M. sovra dette Isole fu il principale l’oculare maggiore vicinanza delle medesime al Continente della Sardegna, rispetto a quella che possino avere con la Corsica per aver io trovato il criterio più atto ed idoneo per dimostrare a chi spetti il Dominio delle medesime. Avvengache provando la maggior vicinanza che quelle Isole restano dentro del Mare spettante al Sovrano della terra e del continente che quelle acque bagnano prova conseguentemente che appartengono al Dominio del medesimo, per ritrovarsi dentro i confini del suo Stato”.
Inoltre, descrivendo ad una ad una tutte le isole e affermando che “..l’isola della Maddalena, sotto qual nome vengono tutte le altre che con essa un solo corpo morale e civile compongono”, esprime per la prima volta la definizione giuridica di “arcipelago” quale ritroviamo esattamente riportata ai nostri giorni nell’art. 47, lett. b), della “Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare” adottata a Montego Bay il 19 dicembre 1982, la quale ha posto in evidenza che nel significato di arcipelago l’unità di gruppo deve essere basata non solo su fattori geografici, ma anche su fattori politici, economici e storici. A tale conclusione, che il Paliacho da vero precursore aveva formulato oltre due secoli prima, dimostrando di aver considerato unitariamente le isole come formazione arcipelagica e quindi come unità giuridica, non erano pervenute neppure la conferenza dell’Aja del 1930 e quella di Ginevra del 1958, dai cui lavori non era scaturita una chiara e sufficiente elaborazione della definizione di arcipelago.
Il Paliacho, tuttavia, oltre a congetturare il dominio sulle isole sul presupposto della “contiguità territoriale”, accenna ad atti di giurisdizione compiuti negli anni 1709 e 1711 dal Governo Imperiale durante il breve periodo di dominazione austriaca della Sardegna; cita poi il pregone del barone di S.Remy del 28 gennaio 1821, un ulteriore pregone del marchese di Cortanze del 28 ottobre 1731 e l’ultimo del marchese Falletti di Castagnole del 6 dicembre 1731. In questi Pregoni venivano fatte intimazioni non solo ai pastori corsi delle isole, ma anche ai regnicoli sardi ai quali veniva ingiunto il divieto di recarsi nelle isole e di tenere bestiame in vicinanza della costa. Disposizioni queste che, sebbene emesse quali salvaguardie sanitarie, facevano trasparire il chiaro intento di proibire i movimenti di bestiame verso la costa e di evitare che l’arcipelago divenisse la base dei contrabbandi.
“Da questi – aggiunge infatti il marchese – si raccoglie, appellandosi tutte quelle Isole in questione pertinenti ed aderenti alla Sardegna, si prescrive, che veruna persona habitante nel continente, possa nelle medesime trasferirsi, e che gli Pastori, che ivi con i suoi greggi trattenevansi, fra il termine dei giorni in quei Editti determinati, dovessero dalle medesime uscire, e trasferirsi nel continente di Sardegna in distanza di 6 miglia dal litorale”.
“Questi – ribadisce – son veri atti specifici di Dominio e Giurisdizione da S.M. e da regnanti suoi antecessori tempo a tempo in quelle Isole esercitati, per sino all’anno 1731 ed altri probabilmente si ritroveranno nelli anni posteriori ed al tempo in cui siamo più vicini, se nella segretaria del signor viceré si fa accurata ricerca di tutti li altri Editti posteriormente ed in simili occasioni di contagio emanati”.
Il marchese, che evidentemente ignorava che nei recenti Pregoni del 1755 e del 1758 nessun accenno era fatto all’arcipelago, prosegue affermando di “…non avervi il Governo di Bonifacio, o la Signoria di Genova esercitato in quelle isole verun atto di dominio” e aggiunge che, avendo interrogato i delegati di Tempio don Ignazio Ravaneda, il dott. Belingueri e il dott. Foys, i quali si erano succeduti negli anni precedenti nel governo della Gallura, costoro avevano “…assicurato tutti di esserle giammai pervenuta notizia d’atto alcuno di giurisdizione fattevi in dette Isole per parte del Governo di Bonifacio, o Signoria di Genova, e che altro non sanno se non di trattenervisi in alcune delle medesime, alcuni Pastori Corsi, senza però figura di Popolazione, né di comunità e senza Giudice né Podestà che li governi”.
“Squadrando, quindi tutte le predette circostanze colli più veri ed accertati principi – conclude – quei pochi Corsi, che nelle predette isole per qualche tempo dell’anno vi si trattengono non puonno che in vera ragione giuridica che giudicarsi Peregrini. In essi non vi è veruna giurisdizione, e come mai avranno potuto praticare alcun atto della medesima: ivi non vi è Giudice, né Podestà alcuna munita della menoma giurisdizione, né autorità confertale dalla Signoria di Genova, e come dunque qualsiasi atto come sono quelli di pascervi, e di seminarvi praticatosi da quel sciolto stuolo di Bonifacio, o della Signoria di Genova, mancando in essi ogni ombra di giurisdizione o di autorità Pubblica”.
Fatte queste premesse sulla sovranità del regno sardo sulle isole, il Paliacho passa a “…discorrere delli espedienti che ravvisare si possono per far sloggiare li predetti Corsi Bonifacini, che annidano in alcune delle isole in questione” e “…per li gravissimi danni che al Pubblico e alle Finanze ne sovrastano dal trattenervisi in quelle detti Corsi per farne essi, assieme a Pastori Galluresi, scale le più sicure ed agevoli per li frequenti e pingui contrabbandj che in que’ litorali di Tempio si praticano tutto giorno di ogni genere di bestiame ed effetti provenienti non solamente dalla Gallura, ma molto più da tutto il Regno: derivando il furto d’ogni sorta di bestiami, buoi cavalli, vacche e pecore dalla sicurezza che si ha che conducendoli alla Villa d’Aggius, con cui hanno corrispondenza tutti i ladri noti e sconosciuti che si impiegano in quel mestiere con la villa d’Aggius e suoi abitatori, questi poi, a suo salvo, sfrontatamente scortano e conducono i medesimi, sino alle spiagge di Tempio e della Gallura”.
Non mancò, tuttavia, di analizzare il momento politico che in quei giorni attraversava la Corsica; nell’isola, infatti, era in atto la rivolta di Pasquale Paoli a seguito della quale la Repubblica di Genova era stata costretta a far intervenire i francesi ai quali, per gli accordi intervenuti, era ormai inevitabile la cessione dell’isola, che avverrà poi con il trattato di Versailles del 15 maggio 1767. La comunità bonifacina però, rimasta fedele alla Repubblica, non aveva aderito alla rivolta paolista ed era probabile, come paventava il Paliacho, e come poi avvenne per l’Isola di Capraia, che Bonifacio venisse esclusa dalla cessione alla Francia e che i problemi con Genova e con quella Comunità sarebbero continuati. Era dunque più che mai opportuno, stante la non più differibile necessità di affrontare e risolvere il problema, approfittare del favore di quel momento di confusione per mettere le mani sulle isole nella propizia circostanza in cui i francesi non avevano ancora il dominio sull’intera Corsica, ed in particolare sulla città di Bonifacio, e Genova era tanto debole da non poter reagire all’eventuale occupazione.
Il primo espediente suggerito dal Paliacho è quello della trattativa con la Francia, cosa però non attuabile al momento in quanto “…benché tutte le fortezze e presidi di Corsica siano in mano delli francesi, soltanto Bonifacio è quello in cui vi si mantiene la guarnigione e Governo Genovese”. In quanto ad eventuali contatti diplomatici con Genova, aggiunge che “…sarebbe tempo perso il trattare con quella Repubblica, o suoi Ministri, sia per la tenacità della medesima, sia per la poca inclinazione che da sempre ha dimostrato verso l’interessi di nostra Corte, sia finalmente (mi sia lecito dirlo) per la poca esattezza, sin dai tempi antichi, da quel Comune usata in osservare le pubbliche convenzioni, come modulò la lira del Gutterio parlando delle tre volte che i Liguri mancarono alla fede promessa all’Imperatore Federico Primo, ciò che le fece poi sperimentare suoi giusti risentimenti”.
Scartato il canale diplomatico il Paliacho passa a suggerire al sovrano il suo secondo espediente:
“…degnarsi S.M. concedere quelle tre Isole, La Maddalena, la Cabrera, e Santo Stefano (con aggregare le altre tre picciole, una per cadauna delle suddette) in feudo, con giurisdizione, a tre soggetti forastieri, che fossero benemeriti della M.S., condecorando parimenti quelle concessioni con qualche Titolo per così più allettarli ed impegnarli; con l’obbligo però di dover sloggiare da quelle Isole i Corsi, che vi si trattengono, con gente di mare, se fosse possibile, e che la medesima gente dovesse stabilirvisi e farvi poco alla volta una Popolazione”.
Se il suggerimento fosse stato attuato la storia di La Maddalena sarebbe certamente cambiata sin dall’origine anche se non ne sarebbe cambiato il destino marinaro verso il quale, con grande premonizione, il Paliachò vuole indirizzare la futura popolazione isolana. Avremmo così avuto tre feudi con tanto di blasone, ma ben diversi dai feudi il cui reddito proveniva dal latifondo; delle baronie, come dice il Paliacho “…di gente di mare che potessero in progresso, per loro poprio profitto e vantaggio, procurarsi d’avere alcune Gondole, le quali non poco potrebbero servire a scoprire e traversare i contrabbandi, senz’altri pubblici vantaggi che potrebbero ritrarsene”.
A sostegno della potenzialità marinara che le isole dell’arcipelago potevano avere, nel decrivere al sovrano le singole isole, nel rammaricarsi che di esse non si sia tenuto alcun conto, e nell’assumere quale termine di paragone la comunità di Capraia, commenta:
“Veramente non erano né sono quelle Isole per essere trascurate, sia per il decoro del Supremato di S.M., sia in vista della luoro feracità ed abbondanza di pascoli e boscami e terre atte al seminerio con sufficienti acque dolci; sia per la loro estenzione racchiudendo tre solamente di esse trenta miglia in circa di circuito; cioè la Maddalena, qualmente la più di bel aspetto, verdeggiante e ferace, è di circuito di otto miglia in distanza di due terzi soltanto di miglia dal continente di Sardegna; Santo Stefano nove e la Cabrera duodeci miglie, estenzione sufficiente a potersene fare delle medesime un uso profittevole ed anche di maggior splendore alla Corona; quando osserviamo che l’Isola della Caprara Genovese, sita quasi nel confluente delle due Mari, Ligustico e Toscano, non avendo altro che quindici miglia di circuito, tutta sassosa e scoscesa, v’abita pertanto un Popolo di 300 famiglie, e per lo meno d’anime 3000, e vivono agiatamente tutti dalla sola industria della navigazione e del Mare”.
E’ però evidente che le attività marinare richiedono quell’imprenditorialità e quello spirito di iniziativa che certamente non caratterizzava all’epoca il ceto nobiliare e che simili baronie erano dunque poco appetibili a quei soggetti forastieri che il Paliacho, per porre fine all’annoso problema, vuole introdurre nelle isole sia pure allettandoli con il conferimento di un titolo e di un blasone. La seconda proposta, che pur la Corte torinese avrà preso in considerazione, non ebbe poi alcuna attuazione.
Il terzo espediente del Paliacho è anch’esso quanto meno singolare; una soluzione nettamente opposta alla seconda, quasi omeopatica e del tipo chiodo scaccia chiodo. Il marchese, difatti, suggerisce al re di attuare una sorta di “componenda” con la concessione di una amnistia ai più famosi banditi sardi, alcuni dei quali, rifugiatisi in Corsica, erano quelli che dirigevano da quell’isola i traffici di contrabbando. Costoro avrebbero goduto del beneficio dell’impunità e sarebbero stati posti, con i loro accoliti, a capo dei vari dipartimenti della Gallura e del Logudoro con il compito di tenere a bada i banditi. Colui che sarebbe stato destinato nelle isole avrebbe poi avuto il compito di cacciare i pastori corsi e di presidiare l’arcipelago per impedirne il rientro.
Ed ecco come si esprime il marchese concludendo i suiu suggerimenti:
“Qualora in difetto delli sovra accennati espedienti si degnasse S.M. di approvare quest’ultimo della proposta Amnistia, quanto è per li Banditi ricoveratisi fuori Regno, quali intendo essere li Cavalieri Don Gierolamo Delitala, e suo figliuolo, con Don Antonio Delitala, ed i fratelli Pintus nella Francia, ed altri che vagano fra la Corsica e la Sardegna, quali sono Leonardo Marceddu e suo fratello, ed altri di loro seguito, e Pietro Gianuario Misorro di Tempio, sembra a me che l’affare potrebbe commettersi al signor conte di Rivarola, il quale chiamando a sé tutti li sovra detti li facesse intendere, qualmente compatendo la loro disgrazia, li venne in mente di procurarli la libertà, se essi con sua gente intraprendessero lo scacciare dalle consapute Isole alcuni Corsi, che in tre o quattro di esse tempo fa si introdussero, e poscia farle ripartitamente occupare da Sardi suoi seguaci, per qualche tempo e sin che si desse a riguardo di dette isole altra provvidenza con dover quelle difendere da qualunque altra tentativa di Corsi”.
Come vediamo il Paliacho, che pure è un militare, non propone al re alcun intervento armato. D’altro canto le isole erano abitate da “…uno stuolo sciolto di bonifacini” e non si trattava quindi di attuare un’azione di guerra per contrastare un presidio militare. La soluzione migliore era dunque quella privatistica a ciò avvalendosi di persone che avrebbero tolto dal fuoco la patata bollente senza compromettere il regno sardo sul piano diplomatico e internazionale.
Ben altro, però, l’atteggiamento del marchese nei confronti della “Villa di Aggius” e ben altre le determinazioni che egli propone:
“…principalmente – scrive – bisognerebbe atterrare e bruciare la Villa d’Aggius, qual’è l’Emporio di quello sì pernicioso e scandaloso commercio, situata in una erta scoscesa punta, tanto difficile a superarsi, quanto in ogni tempo e governo si è sperimentato in varj attacchi che si tentò darle con forza di paesani, e di Truppa, senz’altro conseguirsi che restare offuscato il bel decoro della Giustizia, e rendersi più insolenti e temerarj que’ ribaldi Aggiesi, gente veramente feroce ed audace, rendendoli maggiormente tali quel rustico e alpestre presidio in cui abitano, e non è molto tempo che avendoli attaccati un sufficiente Corpo di Tempiesi sostenuti da qualche Truppa, nulla si conseguì fuor di retrocedere ed abbandonar l’impegno”.
Nessuno dei suggerimenti del Paliacho ebbe poi pratica realizzazione, se non alcuni provvedimenti di amnistia nei confronti dei banditi della Gallura e del Logudoro col chiaro intento di rimetterli sulla giusta strada e limitare così le attività illecite dalle quali tanto danno derivava allo Stato. La “Villa di Aggius”, che fu la vera molla che fece scattare l’occupazione delle isole dell’arcipelago, con Pregone viceregio del Balio Francesco Luigi Costa della Trinità del 21 agosto 1766, venne perdonata. Carlo Emanuele III, che era venuto nella “determinazione di schiantar affatto in un colla villa tutta la cagione di tanti pregiudizi”, ritornò sui suoi passi e decise di “sospendere la giustissima indignazione, prima di divenire a così fatto rimedio” a condizione che gli abitanti mantenessero un “…contegno da veri cristiani e buoni sudditi, ubbidienti e rassegnati alle Reali intenzioni, né punto perniziosi al restante della società”.
All’atto della pubblicazione del Pregone, intimato, come dice lo stesso, “a tutti e caduno di codesti abitanti” e con l’avvertimento che in caso di inadempienza “si manderà incontanente ad effetto la succennata Regia provvidenza”, gli aggesi fecero atto di sottomissione, ma, come ben sappiamo, si guardarono bene dal mantenere le promesse proseguendo poi imperterriti nei loro traffici, sempre in combutta con gli isolani, e continuando a insanguinare la Gallura con le loro faide.
La storia di La Maddalena, che i suggerimenti del Paliacho avrebbero certamente cambiato, percorse altri binari. L’anno successivo, il 14 ottobre 1767 un corpo di spedizione di poco più di cento uomini occupò le isole. Non fu sparato un solo colpo di fucile ed i pastori corsi non issarono neppure il vessillo genovese che il commissario di Bonifacio aveva mandato loro alcuni giorni prima. Grazie all’opera di convinzione svolta dagli emissari Allion di Brondel e Giovanni Maria De Nobiti, tutto era stato abilmente predisposto perché gli abitanti corsi si assoggettassero senza colpo ferire alla sovranità dei Savoia.
La tradizione popolare vuole che i pastori delle isole, a quella che più che una occupazione militare fu una vera e propria azione di polizia, abbiano accolto i piemontesi con l’ormai storica frase “Viva chi Vince!”.
Ma le dissero davvero quelle parole?