9 settembre 1943
La signora Marietta Campus il giorno 9 settembre visse i primi momenti dell’avvenuta cambiamento di fronte, dopo l’armistizio: “Alle 7,20 del giorno 9 settembre andavo, come sempre, all’Ospedale Garibaldi per prendere qualche secchio d’acqua. Una vicina di casa, dalla finestra, mi disse che i tedeschi erano caduti; la notizia non era chiara e non fece altro che incutermi timore per l’incertezza di quello che avrei trovato, ma cercai di farmi coraggio. Entrai, quindi, nell’edificio e chiesi ad un tedesco chi vi si trovava se potevo attingere dell’acqua. Mi rispose dandomi il permesso, ma aggiungendo molto cupamente “italiano traditore”. Preparandosi ad andare via i tedeschi buttavano a terra e distruggevano le cose che non potevano portar via, anche beni alimentari, e rendevano inservibili oggetti ingombranti che dovevano necessariamente lasciare: spaccavano a colpi di piccone i fusti di benzina e li facevano rotolare per disperderne il contenuto. Andai in ufficio (Postale), che si trovava in via Agostino Millelire, con una paura da morire. Sembrava tutto tranquillo. Mi affacciai alla finestra con una giovanissima collega, Piera Barone, che, ingenuamente, vedendo passare due tedeschi nella strada sottostante, disse “tedeschi caput”. I due sollevarono la testa e noi ci ritirammo in fretta all’interno. Poco dopo vennero in ufficio, ci prelevarono e ci portarono al comando tedesco che avevano a Cala Gavetta. Chiesero il perché di quella frase; io cercai di spiegare che non c’era alcuna intenzione malevola e che la ragazza aveva usati parole delle quali non conosceva il significato. Forse convinti più dalla giovane età della Barone che dalle mie spiegazioni, ci lasciarono andare. Quando, più tardi, suonò il preallarme, corsi al rifugio scavato vicino alla casa di mia suocera presso la vecchia centrale elettrica. Un maresciallo dei carabinieri, vista una scala a pioli appoggiata su un muro, vi si arrampicò per vedere cosa succedeva verso nord, verso il palazzo scolastico dove c’erano molti tedeschi: ma quando sporse la testa oltre il muro un colpo di fucile sparato dall’alto colpì il suo berretto: il carabiniere cadde rovinosamente dalla scala procurandosi una frattura al piede.
Il giovane operaio dell’officina artiglieria dell’Arsenale militare Mario Carola, era in quei giorni a Santa Teresa perché impegnato, con il suo collega Flavio Piras nella revisione e riparazione di alcune armi automatiche presso la batteria Garassini. Era alloggiato in paese, presso la signora Carolina Panzani insieme a dei soldati tedeschi con i quali aveva stretto un vago rapporto di cameratismo. Alla notizia dell’armistizio questi sembravano felici pensando che la guerra fosse prossima a finire per tutti, ma dopo poche ore tutto era improvvisamente cambiato: i due ragazzi italiani erano stati chiusi nella loro camera e, in seguito, fatti uscire da un soldato armato di mitra che, con poche cerimonie, li aveva costretti a precederlo sulla strada per il porto dove numerosi natanti stavano trasferendo le truppe verso la Corsica. Alla felicità effimera della speranza di pace era subentrata la tensione di sentirsi nella condizione di prigionieri avviati a destinazione incerta. Fortunatamente, mentre si trovavano all’altezza del cimitero del paese, il rombo di una cannonata proveniente dalle Bocche aveva spaventato il tedesco che si era volatilizzato, mentre i due, senza voltarsi a guardare dove fosse finito, si precipitavano al porto e si buttavano in acqua attraversando il breve braccio di mare che li portava in salvo sull’altra sponda. Di là, raggiunta la strada per Palau, avevano ottenuto un passaggio su un autocarro tedesco che andava in quella direzione. L’autista li aveva fatti sedere nell’abitacolo, alle sue spalle, ma prudentemente aveva spostato il mitra che si trovava dietro il suo sedile, allontanandolo dai due italiani. Anche questi piccoli fatti la dicono lunga sulle numerose incoerenze di quei giorni quando i comportamenti individuali, forse le diverse sensibilità, portavano ad azioni contraddittorie di ostilità o di collaborazione.
Nella notte tra l’8 e il 9 il generale Lungerhausen, dopo una blanda quanto inutile offerta a Basso di mantener fede alla vecchia alleanza, gli aveva comunicato l’intenzione di abbandonare al più presto la Sardegna per passare in Corsica e Basso, vedendo in questa decisione la possibilità di sbarazzarsi, senza colpo ferire, dello scomodo alleato, che poteva diventare pericolosissimo nemico, acconsentì, mettendo a disposizione del trasferimento l’itinerario Oristano – Macomer – Ozieri – Tempio; da questa città i tedeschi avrebbero dovuto raggiungere i due imbarchi di Palau e S. Teresa. Nella notte stessa, con spostamenti rapidi di piccoli reparti, ben protetti da carri armati, essi iniziarono l’esodo.
Nello stesso tempo a Bastia, per assicurarsi il controllo del traffico marittimo, attaccarono il porto e le navi italiane lì ormeggiate la mattina del 9 la brigata tedesca in Corsica controllava le due zone indispensabili per garantire il passaggio delle truppe: Bonifacio, per accogliere e smistare la 90° divisione proveniente dalla Sardegna, e la zona esterna di Bastia per l’imbarco verso il nord Italia. Ma per essere sicuri che la manovra di trasferimento non subisse pericolose reazioni nel punto nevralgico di fondamentale importanza delle Bocche di Bonifacio, era necessario a Lungerhausen assicurarsi il controllo delle batterie dell’Estuario esse, infatti, avrebbero potuto spazzar via i mezzi navali tedeschi carichi di truppe e armamenti che dovevano assolutamente passare in Corsica e di qui in continente, per non rimanere inutilmente intrappolati nelle due isole.
Il generale Basso non aveva valutato questa possibilità quando Lungerhausen gli aveva comunicato i suoi progetti, Brivonesi, che aveva ricevuto da Basso l’ordine di non contrastare il passaggio dei tedeschi verso la Corsica, e invece, dallo Stato Maggiore della Marina, quello di “fare ogni sforzo per sottrarre mezzi bellici ai tedeschi”, non prevedendo anch’egli la situazione verificatasi il 9 mattina, aveva dato nella notte disposizione a tutti i militari di restare consegnati ai loro rispettivi posti, consentendone l’uscita solo per motivi urgenti. In mattinata (ore 10,20) chiedeva “a tutte le opere” di non contrastare sbarchi angloamericani. A queste disposizioni ne era seguita un’altra riservata, inviata al comando DICAT, dopo aver allontanato l’operatore addetto (ore 11,35) il Capo di Stato Maggiore di Marisardegna, Bondi, inviava al seniore Binaghi il fonogramma; “tutte le batterie che possono battere con tiro diretto aut indiretto batterie germaniche Creta e Stresa rispettivamente ubicate in XT 20.5-AN 5 e XT 2- AN 2O si approntino immediatamente per intervenire all’ordine aut d’iniziativa nel caso che predette batterie germaniche iniziassero per prime le ostilità. Comunicate urgenza obiettivi prescelti relazione vostre possibilità et esistenza munizionamento idoneo alt richiesta o necessita intervento pub essere immediata“. A complicare la contraddittoria situazione della Maddalena vi erano l’ordine, ricevuto da Basso, di non contrastare il passaggio dei tedeschi verso la Corsica, e quello dello Stato Maggiore della Marina di onorare le clausole dell’armistizio, ricevuto da Brivonesi, per sua stessa ammissione alle ore 11: in questo veniva detto “che l’Italia avrebbe fatto il possibile, sottolineato fare il possibile, per catturare le truppe tedesche che si trovavano sul suo territorio”.
Le due corvette Danaide e Minerva, stazionanti a Cala Capra e alle Saline furono spostate nella rada antistante la città “in modo da bloccare tutti i mezzi tedeschi” e messe in stato di allerta, dovevano “sparare solo se attaccate e stare pronte a impedire l’uscita da La Maddalena a motozattere tedesche che sono in porto, qualora ciò venga ordinato dal Comando marina con un telegramma convenzionale”.
L’ultimo fonogramma, inviato ancora dal Comando DICAT, ordinava: “tutte le batterie esercitino rigoroso controllo tutte vie accesso medesimo et impediscano accesso ai non autorizzati ricorrendo eventualmente forza alt. Tutte armi automatiche pesanti leggere et portatili siano armate giorno et notte alt“.
Da questi ordini emanati nella notte e nelle prime ore del 9 settembre fino alle 12,10 sembra evidente che ci si aspettasse qualche intervento germanico sulle batterie, o qualche azione di fuoco delle postazioni Stresa e Greta o l’uscita delle motozattere dalla rada. Ma se davvero c’era fondato sospetto che i tedeschi potessero entrare in azione come si spiega l’assoluta paralisi generale?
D’altra parte, se era ragionevole aspettarsi una azione tedesca, le misure precauzionali prese risultavano assolutamente insufficienti soprattutto perché niente veniva predisposto nell’eventualità di un attacco dall’interno, da quelle forze, cioè, “consistenti” per definizione stessa, di Brivonesi, già presenti a La Maddalena in condizioni privilegiate per dislocazione e conoscenza dei luoghi.
Dopo aver organizzato il suo “piano di difesa”, Brivonesi si recò al Circolo, dove aveva convocato tutti gli ufficiali per metterli al corrente della nuova imbarazzante situazione. Il suo discorso, criticato poi aspramente dal tenente medico Giovanni Maria Dettori, non conteneva evidentemente appelli immediati alle armi per cacciare i tedeschi come alcuni avrebbero desiderato, ma raccomandazioni all’ubbidienza e alla disciplina e un “attestato di benemerenza alla milizia come sempre disciplinata e fedele”. Dettori nella sua memoria da un’impietosa definizione dei due più alti ufficiali di La Maddalena dicendo che “dall’unione dei due ammiragli presenti non potesse decentemente ricavarsene un buon caporale di giornata”. Il giudizio é crudele, ma condiviso da altri protagonisti degli avvenimenti di quell’anno. L’Ammiraglio Brivonesi non godeva di buona fama e lo si accusava di scarse capacità; tutti a La Maddalena sapevano che un importante convoglio diretto in Africa era state affondato, si diceva, per sua colpa o negligenza e, pur se i particolari non erano precisi, il fatto era reale. In effetti, nella notte fra l’8 e il 9 novembre 1941 un convoglio di sette piroscafi italiani diretto in Libia, scortati da alcune navi al comando di Brivonesi, fu distrutto in pochi minuti da quattro navi leggere inglesi munite di radar che avevano ben sfruttato la loro superiorità tecnica. L’accusa era pesante: non aver saputo difendere il convoglio abbandonante al fuoco nemico, per cui Brivonesi subì un’indagine durante otto mesi, che avrebbe potute portare, in case di riconoscimento di colpevolezza, alla pena di morte.
Si faceva addirittura dell’ironia sul fatto che, avendo perso contatto con le navi del convoglio, egli avesse sparato dei proiettili illuminanti, facilitando il compito agli inglesi. In realtà era stato sollevato da ogni responsabilità, non però dalla cattiva fama. Ma, al contrario di chi non esitò a parlare di tradimento per i fatti di settembre, ricordando anche la circostanza che il 10 aprile, durante il terribile bombardamento, egli si trovava fuori sede, lo stesso Dettori, che non può certo essere considerato partigiano dell’ammiraglio, precisava: “chi scrive é fermamente persuaso che nello svolgimento dei fatti non abbia giocato per nulla un tradimento e una connivenza coi tedeschi da parte di nessuno dei capi“.
Al contrario degli italiani i tedeschi si erano preparati minuziosamente all’eventualità di attaccare gli ex alleati o di difendersi e, in ogni caso, avevano predisposto da qualche tempo la possibile occupazione di La Maddalena. Il responsabile del piano era il colonnello Ranke, che era venuto in precedenza nell’arcipelago dove si era trattenuto alcuni giorni con lo scopo dichiarato di studiare la nostra organizzazione difensiva. Fu proprio lui a guidare poi l’occupazione. Inoltre i reparti d’assalto sbarcati il 9 “che consistevano in un battaglione arditi Alpenjager, erano comandati da ufficiali venuti pochi giorni prima a visitare il Comando Marina tedesco di La Maddalena e in quell’Occasione avevano girato l’isola“; la parte fondamentale dell’operazione era affidata a quei graduati che, per lunga permanenza a La Maddalena, conoscevano bene i luoghi, gli armamenti, le dislocazioni dei servizi. Non fu difficile quindi ai tedeschi operare rapidamente, diventando, in poche decine di minuti, arbitri della situazione; alle 11,45 Brivonesi al Circolo Marina aveva iniziato il suo discorso, alle 12,25, appena tornato all’ammiragliato si era reso conto di essere praticamente prigioniero. Il comandante Uneus gli comunicò che il palazzo era presidiato dai suoi uomini cosi come tutti gli altri punti strategici: la sede protetta del Comando Marina, situata nelle immediate vicinanze, il semaforo di Guardia Vecchia, la stazione RT di isola Chiesa, il Commissariato, il Circolo con tutti gli ufficiali che, riuniti poco prima da Brivonesi, erano rimasti per il pranzo, i comandi FAM e DICAT di Guardia Vecchia e Sasso Rosso; all’ospedale militare un gruppo di soldati, guidati da un ufficiale medico, aveva “chiesto di usare una parte dell’ospedale stesso per i loro feriti”.
Alcune testimonianze mettono in evidenza la rapidità dell’operazione tedesca, ma anche l’assoluta impreparazione degli Italiani che non seppero né valutare correttamente la situazione, né seguire una linea di condotta coerente. Chi vide tutto dall’esterno fu il comandante Corvetti della Danaide che notò i movimenti inusuali dei mezzi tedeschi e ne capì l’intenzione ostile; ma invece di cercare di segnalare dalla nave quello che stava succedendo, pensò di andare direttamente all’ammiragliato con il motoscafo di bordo senza rendersi conto che, se veramente si trattava di un tentativo d’invasione, come pareva, non sarebbe arrivato in tempo. Come era da prevedersi, appena sbarcato sul molo Corvetti, capì che, da solo in una piazza Comando occupata ormai da soldati tedeschi, non poteva fare nulla. Tornò a bordo mentre le due navi stavano a guardare nella loro voluta impotenza. Più tardi i comandanti delle sue corvette giustificheranno la loro scelta spiegando che nessuna azione di fuoco prevista per un loro intervento si era verificata, ma non si può dire che non avessero perfettamente capito la gravità di ciò che stava succedendo pur senza sparatorie.
Dice Ammiraglio Brivonesi “Nel momento in cui il comandante Uneus era entrato nel mio ufficio era presente il maggiore Barsotti, Sottocapo di Stato Maggiore di Marisardegna per le questioni militari e ufficiale di collegamento con il comando delle Forze Armate della Sardegna. Questo ufficiale superiore stava telefonando proprio in quel momento col comando della Brigata Costiera di Tempio a proposito del battaglione di fanteria il cui arrivo era stato programmato per il pomeriggio”. Per Brivonesi l’arrivo di Uneus fu un fulmine a ciel sereno; ebbe solo la prontezza, rendendosi conto della gravità della situazione, di far passare il tedesco in un altro ufficio per consentire a Barsotti di continuare la telefonata avvertendo Tempio. La circostanza della telefonata che comunicava l’occupazione tedesca, viene confermata dal comandante del 180° Battaglione costiero, Colonnello Ciro Marchitto, che si trovava nell’ufficio di Brivonesi in quel momento.
Alla Sede Protetta del comando DICAT di Sasso Rosso il Comandante, primo seniore Zanetti, annotava “Mentre verso le 12,55 si apprende da una telefonata della Centrale che il Comando Marina é stato occupato da truppe tedesche, vengo chiamato all’imbocco della Sede protetta dal personale di guardia, verso cui stava dirigendo un ufficiale tedesco accompagnato da un sottufficiale e seguito da un plotone armato. L’ufficiale tedesco chiede di presidiare l’opera e di controllare tutte le comunicazioni. Fatta presente l’impossibilità di aderire a tale richiesta l’ufficiale tedesco si ritira lasciando la sua truppa fuori dall’opera, ma nelle sue adiacenze”.
Dalia caserma Regina Elena il piantone vide soldati stranieri sbarcare all’isola Chiesa con la chiara intenzione di occuparla e si precipitò ad avvertire il comandante del distaccamento che gli americani erano arrivati. Il tenente Guccini, meravigliato per la notizia, accorso al portone, vide subito che si trattava di tedeschi e telefonò al Comando Marina per avvertire e ricevere ordini. La risposta non lasciò dubbi era in tedesco; il cuore della base era occupato.
Alle spalle di Punta Chiara la caserma del Dragaggio, sloggiati i militari italiani, fu impegnata dai tedeschi che, cosi, controllavano una delle zone nevralgiche il Circolo Ufficiali, Marifari, il Dragaggio, l’Ufficio Porto, tutto nel raggio di poche decine di metri.
Durante l’avanzata delle truppe tedesche, nel nord Sardegna dirette verso Santa Teresa, Palau e Porto Pozzo, i militari italiani incontrati per strada venivano sistematicamente fermati e disarmati: per primi, verso le 4 dei mattini ben 25 fanti e un ufficiale del 392° battaglione costiero a Santa Teresa, nella zona della Rena Bianca, vicinissima al porto, poi, nella mattinata, un milite di Monte Altura incontrato a Ponte Liscia, ma tali notizie, date in ritardo o forse non interpretate nella loro gravità dal comando DICAT, non servirono a far capire il precipitare degli eventi. Fu poi la volta di due carabinieri a La Maddalena, che rientravano in caserma da un controllo alla banchina commerciale. Il “pattuglione” misto di carabinieri e marinai, in servizio quel giorno, evitò di subire la stessa sorte perchè, trovandosi in via Principe Amedeo e avendo sentito ciò che stava accadendo, preferì rifugiarsi alla caserma CREM e di qui fu assegnato a Forte Camicia (più noto col suo vecchio nome di Forte Carlo Felice). Per il momento nessun militare poteva uscire liberamente dalle strutture presidiate; il Comandante Ferracciolo, per andare dal circolo ufficiali all’ammiragliato e poi in arsenale, fu accompagnato da un ufficiale tedesco e quindi messo in condizioni di non poter dare ordini. Un fattorino del telegrafo civile, Alfio Del Giudice, fu fermato e minacciato col fucile puntato all’uscita dal cancello di Punta Chiara, perché la sua divisa, simile a quella dell’esercito, lo aveva fatto scambiare per un militare che tentava di uscire dalla zona occupata. Solo l’intervento di un marò che masticava qualche parola di tedesche, Paolo Sangaino, chiarì l’equivoco.
L’ammiragliato era sorvegliato in modo ancor più severo. Dopo alcune ore dall’occupazione, verso sera, Antonio Faggiani, autista dell’ammiraglio, si trovò a mal partito per avere offerto un materasso per riposare al giovanissimo soldato di guardia al garage: forse Faggiani, che non si sentiva tranquillo di fronte a quel giovane armato, aveva mostrato tutta la tensione del pericoloso momento, forse il soldato non capì, forse era solo spaventato; comunque reagì puntandogli il mitra in pancia e spingendolo verso il muro. Fu l’intervento di un sottocapo di marina austriaco a risolvere la situazione senza ulteriori rischi.
Anche il parroco don Salvatore Capula cercò di entrare all’ammiragliato. Annotò in seguito: “Militari tedeschi li tenevano (i due ammiragli) sotto rigida sorveglianza all’esterno e all’interno del Comando Marina armati di tutto punto. Il parroco venutone a sapere vi si recò chiedendo di poterli vedere e visitare; non fu facile né senza pericolo, tuttavia, rischiando riuscì ad ottenere il pass. L’incontro fu breve ma veramente gradito: temevano della loro incolumità. Liberato l’ammiraglio Brivonesi, mi diceva che in uno dei momenti di diminuita sorveglianza poté trasmettere alla flotta diretta alla Maddalena che l’isola era occupata dai tedeschi. La flotta invertì la rotta a La Maddalena evitò la distruzione assieme alle navi.” (Archivio della parrocchia di Santa Maria Maddalena. Appunti per un discorso scritto da don Capula nel 1993 per ricordare l’affondamento della nave Roma)
La circostanza della avvenuta segnalazione della occupazione tedesca alla flotta italiana che in quelle ore stava dirigendo verso La Maddalena è ancora oggi oggetto di discussione fra gli studiosi. Senza voler intervenire nel dibattito, faccio notare che, seguendo le parole di don Capula sembrerebbe che tale segnalazione sia stata fatta direttamente (o indirettamente attraverso Supermarina) da Brivonesi alla flotta e, comunque, nella prima fase della sua “prigionia”. Lo stesso Brivonesi ne parla in diverse relazioni che differiscono in alcuni particolari di un certo interesse. In quella che sembra essere la prima redazione l’ammiraglio scriveva: “Stabilita la tregua ed ottenuta la cessazione del fuoco (quello intenso ma breve delle 14:30 che aveva visto coinvolti i marinai del Deposito) ho detto al comandante Uneus che avrei dovuto informare il ministro della Marina di quanto era accaduto. Con mia grande meraviglia il comandante tedesco non mi ha impedito di farlo e anzi mi ha accompagnato entro la sede protetta (che, come ho già detto, era occupata dalle truppe tedesche) ed è rimasto sempre presente insieme al suo interprete nel locale delle macchine telescriventi, con le quali mi sono messo in collegamento col Ministero della Marina chiamando all’apparecchio il Ministro oppure il sottocapo di Stato Maggiore. Venuto alla macchina S.E. Sansonetti lo ha informato che i tedeschi avevano occupato alle 12:25 il Comando Marina, la Sede Protetta, la Stazione Radiotelegrafica, il semaforo di Guardia Vecchia, il comando DICAT e il Comando FAM”. In un’altra relazione Brivonesi scriveva, più succintamente: “Stabilita la tregua, ho chiesto di inviare una nota per telescrivere al Ministero della Marina. Ho informato allora che ero virtualmente prigioniero dei tedeschi, che i punti nevralgici della Maddalena erano occupati e che sarebbe stato conveniente informare Bergamini”.
Sembrerebbe, quindi, di poter desumere che una prima comunicazione dell’avvenuta occupazione tedesca sia partita, subito dopo l’ingresso di Uneus all’ammiragliato, da parte di Barsotti al comando della Brigata Costiera di Tempio, una seconda, da parte di Brivonesi al Ministero Marina, almeno due ore più tardi, dopo la tregua successiva allo scontro a fuoco delle 14:30.
Intanto le due corvette Danaide e Minerva salparono abbandonando al suo destino la base, dirigendosi, per ordine di Supermarina, verso Portoferraio, imitate in seguito dal sommergibile Corridoni; un buon punto di forza della difesa italiana spariva cosi dalla scena. Corvetti era anche, in quel momento, commissario prefettizio del Comune maddalenino che, con la sua partenza, si trovò decapitato: fu il segretario comunale Casazza ad occuparsi di tutte le spinose faccende amministrative di quei giorni e a segnalare sconsolatamente al prefetto la continuata e per lui inspiegabile assenza del commissario.
Ma non tutti rimasero inerti di fronte a quell’occupazione di un pugno di uomini che tenevano in scacco forze tante superiori: alla batteria della Trinita i tedeschi presentatisi per chiederne la resa, furono accolti con scariche di moschetto, disarmati e tenuti prigionieri; Brivonesi non parla di reazioni a fuoco ma dice che furono disarmati; quelli che, con un autocarro si dirigevano verso l’arsenale (o forse verso l’ospedale militare), furono bloccati dal fuoco delle mitragliere di Forte Camicia agli ordini del sottotenente Veronesi, due ufficiali dei servizi avevano provocato l’azione forzando la mano al comandante della caserma CREM che rifiutava di accondiscendere alle loro richieste, privo com’era di disposizioni dall’alto e, facendo sfondare la porta del locale delle armi, ne avevano provvisto un gruppo di giovani che, saliti verso Forte Camicia, avevano iniziato con i tedeschi un conflitto a fuoco. Anche se i due ufficiali non vengono identificati chiaramente nella relazione su questi avvenimenti, sembra evidente, dal confronto con le testimonianze orali, che si tratti del tenente medico Dettori e del capitano di porto Cesare Ramponi.
Due marò, Forno Giuseppe e Murtas Gesuino, morirono nello scontro, dimostrando, secondo Dettori, “che la loro dignità era immensamente più grande di quella dei loro ammiragli perché forse nel subcosciente la voce della patria disse che il loro sacrificio era necessario affinché qualcosa di pure potesse germogliare dal mare di fango e di vergogna“.
Anche a Palau, l’aiutante maggiore del battaglione costiero, capitano Cocco, alla notizia che il suo superiore Colonnello Marchitto era stato fermato a La Maddalena, aveva reagito con gli stessi spicci sistemi dei tedeschi ordinando di bloccarne alcuni: ne era seguito un conflitto localizzato con lancio di bombe a mano per fortuna privo di gravi conseguenze.
Da Santo Stefano la postazione di mitragliere da 20 sparò contro una motozattera che vi si dirigeva.
Intanto pur senza forzare la mano, i tedeschi avevano consolidato le loro posizioni: all’esterno con due posti di blocco sulle strade di accesso all’Estuario, cioè al bivio Palau-Olbia e al ponte Liscia; a La Maddalena avevano disposto gruppi con mitragliere tutt’intorno al centro per proteggere la zona per loro più importante: dalla banchina di Punta Nera alla capitaneria di porto. Perciò tutte le strade di uscita erano controllate: a Ferrovecchio (l’incrocio attuale fra la via Indipendenza e via Ammiraglio Mirabello) e presso il canneto della vadina di Cala Chiesa nella parte alta dell’attuale via Aldo Moro; in via Passino, dove avevano la stazione radio; in piazza Comando; sulla scalinata di via Villa Glori; al Cimitero Vecchio; dietro il palazzo scolastico nei terreni di Basso e dell’ammiraglio Spanu; in via Ilva all’altezza di piazza Zebù; in via Garibaldi nello slargo presso via Nizza, a Cala Gavetta allo sbocco di via Vittorio Emanuele, di fronte alla caserma dei carabinieri; nel mare della cala rimanevano due dragamine armate di mitra e cannoncini. La necessità impellente era quella di presidiare le banchine, mantenendole sotto controllo gli accessi per evitare colpi di mano e di tenere nelle loro mani le centrali di comando e di trasmissione telefonica e telegrafica. Per questo non fecero tentativi di occupare l’arsenale militare o le batterie di Caprera o quelle postazioni che risultavano inutili allo scopo di proteggere il traffico via mare dalla Sardegna alla Corsica. Per questo, ancora, cercarono, in genere, di nono provocare conflitti a fuoco che avrebbero ritardato il loro esodo compromettendone la riuscita.
Come spesso avvenne in quei giorni, l’interruzione dei collegamenti non permise una informazione completa a tutte le batterie di ciò che stava accadendo.
Così alla caserma sommergibilisti di Faravelli si apprese la notizia dell’occupazione da alcuni militari che passavano di corsa di fronte al portone; il personale di Nido d’Aquila, compresi gli operai delle officine artiglieria là trasferite dopo il 10 aprile, ne venne a conoscenza dal capo operai Cuffini che, recatosi a Moneta per il pranzo, ritornava verso le 2:30 pomeridiane raccontando ciò che aveva sentito e visto con i propri occhi; gli operai, che pur non avevano nessun obbligo di combattere, discussero fra loro e decisero quindi, coordinati da Ciuffini, di armarsi per ostacolare eventuali attacchi tedeschi. Sembra evidente, anche se nono documentato, l’accordo del comandante della batteria. Un binario con due tavole fu passato attraverso il fossato per trasferire sul pendio verso l’esterno una mitragliera; un’altra fu collocata su un camion davanti al cancello, per sbarrare il piazzale antistante l’accesso.
E iniziò l’attesa. Nell’arsenale militare, per contrastare un possibile attacco tedesco, il colonnello Ferracciolo predisponeva la difesa rinforzando i muri più deboli o accessibili e disponendo il rimorchiatore Porto Quiete, armato di un cannone, presso il molo carbone in modo da potere, in caso di necessità, battere la strada dell’ospedale e, cosa che poi sarebbe successa, l’isola Chiesa. Un operaio comunista, Costante Castelli, offriva a Ferracciolo la diretta collaborazione sua e di altri, pronti, come lui, a prendere le armi. Probabilmente in questa fase i lavoratori della cooperativa scaricatori di carbone, che operava per l’arsenale nelle operazioni di carico e scarico e nella pulizia delle sentine dei piroscafi, furono incaricati di portare fusti di benzina su rimorchiatori e pontoni in modo che, in caso di resa a un tentativo di occupazione, questi potessero essere incendiati. Non bisogna dimenticare che in arsenale c’era una motocisterna tedesca in riparazione e quindi poteva essere giustificato il timore di un’azione di forza per riprenderla e per impossessarsi di altri natanti utili per il trasferimento delle truppe.
In queste ore incerte, drammatiche, vennero a mancare anche i collegamenti della DICAT con i punti di avvistamento. Solo capo Tinnari annunciava l’avvicinarsi di una formazione navale che da ponente dirigeva verso l’imbocco delle strette di Bonifacio e successivamente invertiva la rotta. Era la flotta italiana che, in un primo tempo, aveva ricevuto la disposizione di entrare in rada a La Maddalena dope aver abbandonate i porti di terraferma e poi l’ordine di dirigersi verso Bona. Subì in quelle ore l’attacco tedesco e l’affondamento della Roma. Al comando DICAT, deve evidentemente si ignorava tutto ciò, registrarono soltanto: “Si udì a intervalli tuonare il cannone in direzione nord”.
Nel pomeriggio Brivonesi e Uneus raggiungevano un accordo. Il primo si impegnava “a non compiere atti ostili contro le truppe tedesche” in transito per la Corsica a condizioni che questi mantenessero invariate le occupazioni già effettuate e non attaccassero ancora. Inoltre veniva lasciate libero il traffico a mare fra Santa Teresa e Bonifacio con impegno a non intervenire da parte delle batterie dell’estuario mentre il traffico fra La Maddalena e Palau doveva essere limitato a piccole imbarcazioni con la precisazione: “per piccoli natanti si intendono le imbarcazioni di tonnellaggio inferiore alle motozattere”.
Questo accordo aveva insite delle premesse pericolose, foriere di sviluppi imprevedibili. Infatti, l’impegno preso da Brivonesi era, a sua insaputa, di fatto reso nullo da Supermarina che aveva in precedenza ordinato al Vivaldi e al Da Noli “di distruggere tutte le unità che avessero incontrato nell’attraversare l’Estuario per raggiungere la squadra”. E l’ordine non era stato revocato dopo l’autorizzazione data al comando di La Maddalena a lasciare passare senza impedimenti i tedeschi.
Dall’altra parte Brivonesi, uniformandosi alla volontà di Basso, si impegnava a lascar libero il traffico a mare, ma accettava anche le occupazioni già effettuate con una naturalezza che aveva tutta l’apparenza della capitolazione: nessuna contrattazione favorevole alle forze italiane veniva almeno accennata e, quindi, si registrava un conseguenziale riconoscimento di debolezza o di scarsa volontà di reagire. I tedeschi seppero far buono uso di questo atteggiamento e intanto Brivonesi, presso i suoi, perdeva ancora di credibilità.
Mentre l’impreparazione da parte italiana provocata iniziative parziali e confuse costringendolo l’ammiraglio a inseguire gli avvenimenti, non a determinarli, i tedeschi avevano elaborato la loro tattica razionalmente e cercavano di ottenere a piccoli passi, ma con decisione, ciò che serviva loro: non attaccarono in quei giorni nessuna postazione, ma si presentarono di fronte a molte chiedendone la consegna, giocando sulla disorganizzazione delle comunicazioni (non per niente uno dei loro primi atti era stata l’occupazione della stazione RT di Isola Chiesa e di quella dei cavi telefonici della marina a Palau), e sull’appoggio ideologico e pratico di molti militari MILMART.
Così il 9 mattina provarono con la caserma dei carabinieri di Santa Teresa, poi a La Maddalena, con i comandi DICAT e FAM, con la Trinita. Da Guardia Vecchia probabilmente dal FAM, fecero telefonare a forte Camicia intimando al comandante Veronesi la resa, è evidente l’importanza strategica attribuita a questa postazione che già aveva dimostrato, nella tarda mattinata, di poter disturbare isola Chiesa e il movimento dei natanti nella zona circostante. Là dove ricevevano un rifiuto, avevano evidentemente l’ordine di non insistere, ma, anche in questi casi, presidiavano l’opera dall’esterno assicurandosene il controllo. Il 9 sera avevano chieste e ottenuto l’occupazione della polveriera di Stintino, a Palau, e, soprattutto, l’evacuazione della batteria di Barrage da parte dei marinai che, con il loro comandante, sottotenente Rosetta, isolati e senza ordini, si trasferirono a Capo d’Orso. Non è facile, in base ai documenti analizzati, capire il perché di questa cessione senza reazioni, ma quel che pare certo è che non si può parlare di diserzione e di fuga di fronte al nemico visto che, da Capo d’Orso essi avevano inutilmente cercato di mettersi in comunicazione con il comando del gruppo sud a Santo Stefano per relazionare sull’accaduto; a La Maddalena la notizia arrivò solo il giorno 11 alle ore 21,50, attraverso una comunicazione indiretta da Monte Altura, quando già altre tre batterie della costa sarda erano cadute, senza colpo ferire, in mano tedesca.
Gli ordini di Brivonesi del 9 sera, ripetuti nei giorni seguenti, di non fare uso delle armi da ambo i lati, venivano cosi rispettati ma con conseguenze tragiche. La situazione era paradossale: il colonnello tedesco Almers (che aveva sostituito Unueus) il 10 portava a Brivonesi notizia dell’accordo avvenuto fra Lungerhausen e Basso in base al quale le batterie già occupate dai tedeschi dovevano rimanere in loro mani, e Brivonesi non sapeva neanche che tale situazione si era già verificata e ne chiedeva precipitosamente conferma al suo superiore.
Per i civili rimasti a La Maddalena l’atmosfera era quasi surreale: malgrado l’ingombrante e minacciosa presenza dei tedeschi si dovevano mantenere le abitudini acquisite, recarsi al lavoro al solito orario passando accanto ai loro posti di blocco, essere fermati e perquisiti da quelli che fino al giorno prima erano alleati, divenuti improvvisamente nemici. Chi voleva partire dall’isola si meravigliava di non trovare ostacoli al porto dove i velieri abituali aspettavano in passeggeri a Palau. Su tutti aleggiava la stessa incertezza del futuro perché nessuno riusciva a capire fino in fondo gli avvenimenti dei quali testimone o protagonista.
Curiosità
La Regia nave Tirso dislocava 1.460 tonnellate, aveva una velocità di quasi 10 nodi ed una autonomia di 5,000 miglia alla velocità di 6 nodi o 3,454 miglia a 9.5 nodi. Era armata con 2 pezzi da 20/70 o 4 mitragliere da 13,2, 3 mitragliatrici da 8, e poteva trasportare tra 80 e 118 mine.
Si trattava di una nave “tattica polivalente”, poteva fare servizio da cisterna, trasporto e posamine, ma soprattutto era stata costruita come unità da sbarco, infatti aveva una capacità trasporto di oltre 1000 uomini con artiglieria di supporto o in alternativa 50 muli. La passerella d’imbarco era di 13 metri e ciò le permetteva di imbarcare autoveicoli e una dozzina di carri L3-35; poteva consentire sbarchi anche su spiagge o coste rocciose.
Logisticamente la sua permanenza nelle acque dell’arcipelago credo fosse dovuta alla presenza del Btg “Bafile” del Battaglione San Marco, nell’isola di Caprera, che insieme a soldati della divisione “Bari” avrebbero dovuto costituire un nucleo da sbarco di “pronto intervento”.
Nel settembre 1943 a comando dell’unità è il Capitano di Corvetta Tabacco. Il giorno 9 settembre il CV Carlo Avegno gli ordina di lasciare la banchina di Palau, dove si trova ormeggiato e di trasferirsi nella rada di “Mezzoschifo” (dove solo 5 mesi prima era stato affondato il Trieste).
Nella mattina del 12 si trova ancora nella rada e non avendo ricevuto più disposizioni, manda un suo ufficiale (T.V. Stupari) a La Maddalena con un biglietto da consegnare a Brivonesi. Quando l’ufficiale rientra dicendo di non essere riuscito a consegnare il messaggio, Tabacco riunisce l’equipaggio per sottolineare il momento tragico e chiedere ai suoi uomini fedeltà, vietando di scendere dalla nave.
L’indomani il comandante rimanda lo stesso ufficiale nella batteria di punta Sardegna per provare a contattare telefonicamente la batteria di Punta Tegge per conoscere eventuali novità, ma alle ore 9 circa, le batterie semoventi tedesche apono il fuoco contro le batterie di Tegge e Nido d’Aquila, che a loro volta, rispondono al fuoco in maniera fitta.
Cannonate da una parte e dall’altra ed esplosioni continue. E’ un attimo, l’equipaggio viene preso dal panico e scappa in terra abbandonando letteralmente la nave. A bordo, sconsolato, resta il solo comandante Tabacco, che, vistosi solo, solitario procede nelle operazioni per l’autodistruzione della nave. Trenta minuto dopo rientra il TV Stupari dicendo che non ha alcuna notizia da La Maddalena ed insiste per poter lasciare anche lui la nave. Tabacco gli lascia libertà di decisione ed immediatamente, preparati i suoi effetti personali in una valigia, se ne scende a terra!
Tornata la calma, anche se apparente, alcuni dei marinai rientrano a bordo (ma non Stupari) e così il comandante può lasciare l’ormeggio di Mezzoschifo e senza farsi vedere dai tedeschi riesce a rifugiarsi a Caprera, nella baia di Porto Palma (dove venne bombardato il Gorizia).
La commissione d’inchiesta nominata dallo Stato Maggiore della Marina deferì al Tribunale militare il TV Stupari e lo giudicò non più idoneo a ricoprrire ruoli nella Marina. Il comandante Tabacco venne accusato di manchevolezza e poca severità in occasione dell’abbandono della nave da parte dell’equipaggio, proponendo tre mesi di prigionia e tre mesi di sospensione dai ruoli. Giudicandolo però idoneo a rimanere nei ruoli della Marina. (Gaetano Nieddu)
Giovanna Sotgiu – Co.Ri.S.Ma
- Premessa di Settembre 1943 a La Maddalena
- I maddalenini
- I tedeschi
- Gli italiani
- Prospetto illustrativo delle batterie dell’estuario all’8 settembre 1943
- Il 1943, l’anno della fame e della paura
- 9 settembre 1943
- 10 settembre 1943
- 11 settembre 1943
- 12 settembre 1943
- 13 settembre 1943
- 14 settembre 1943
- 15 settembre 1943
- 17 settembre 1943
- Elenco dei caduti dal 9 al 13 settembre 1943