Il colera nel Mediterraneo
Articolo dello scrittore Antonio Ciotta
Numerose furono le pestilenze che nei secoli scorsi imperversarono in Europa e nei paesi del bacino mediterraneo mietendo migliaia di vittime specialmente nei mesi estivi. Una delle epidemie più virulente che le cronache ricordano fu però quella di peste e di “Cholera Morbus” scoppiata nell’estate del 1835 e durata fino agli ultimi mesi del 1837. Furono tempi durissimi per tutti i paesi che si affacciavano sul Mediteraneo e gli abitanti di La Maddalena dovettero sottoporsi a non pochi sacrifici. L’isola, interessata allora da intensi traffici marittimi, fu sede con Carloforte di un lazzaretto abilitato alla contumacia delle navi (le cui vestigia sono giunte sino ai nostri giorni), mentre per la quarantena erano abilitati i soli porti di Cagliari e Alghero. Eccezionalmente, però, quando le navi non potevano proseguire alla volta dei porti abilitati per gravi danni che ne impedivano la navigazione, su autorizzazione del viceré la quarantana poteva essere scontata a La Maddalena.
Grazie alle salvaguardie sanitarie poste in atto nei confronti dei bastimenti e all’intensa opera di vigilanza esercitata dalle vedette e dalle ronde sanitarie, l’isola rimase quasi sempre immune dal contagio, ma la popolazione dovette affrontare pesanti privazioni. C’era poco bestiame, scarsi i prodotti dell’agricoltura ed il timore del colera sconsigliava il consumo dei prodotti ittici dei quali, invece, v’era abbondanza. I rifornimenti, a causa delle lunghe soste alle quali erano soggette le navi, sia nel viaggio di andata che in quello di ritorno (la doppia quarantena comportava ottanta giorni di sosta forzata), subivano enormi ritardi e spesso si rimaneva per intere settimane privi di carne e di grano. Frequenti dunque gli episodi di ruberie negli ovili, negli orti e nelle vigne ed altrettanto frequenti le denunce, i processi e le ritorsioni nei confronti dei sospettati.
Il 2 luglio 1835 il viceré Giuseppe Maria Montiglio aveva emanato un nuovo Regolamento sanitario cui avevano fatto seguito, il 14 e 22 agosto e poi il 21 dicembre tre Pregoni con cui venivano impartite disposizioni sanitarie, si istituivano “le ronde nei litorali del Regno” e si impartivano disposizioni per “impedire il clandestino approdo dei bastimenti”. Erano norme rigidissime che arrivavano a comminare la pena di morte per chiunque fosse illecitamente sbarcato e per coloro che avessero favorito l’approdo clandestino facendo segnalazioni da terra. Alcune norme arrivavano persino a concedere l’impunità a coloro che avessero ucciso una persona sbarcata clandestinamente ed anche la posta, ritenuta apportatrice di contagio, doveva essere sotttoposta a disinfezione prima del suo recapito mediante tagli delle lettere e successiva fumigazione con vapori di zolfo o altre sostanze disinfettanti. E’ ovvio che in tali cirostanze anche i traffici illeciti e i contrabbandi, ai quali i maddalenini erano adusi, in altri tempi facilitati dallo scarso controllo o addirittura tollerati, divennero oltremodo pericolosi perchè alle pene previste dalle norme fiscali si aggiungevano quelle ben più gravi comminate per la violazione delle norme sanitarie.
Quale fosse in quegli anni la situazione delle epidemie nel Mediterraneo ci viene narrato in una lettera del 7 settembre 1836, scritta da Agostino Azara al padre Pietro, console di Marina a La Maddalena. Agostino, che come vediamo porta in nome del nonno materno essendo figlio della primogenita di Agostino Millelire, Mariangela, si trovava in navigazione su una nave partita da Genova alla volta del nordafrica e approdata a Cagliari nel viaggio di ritorno dopo settimane di sofferta navigazione. La missiva, che riporta due evidenti tagli di disinfezione e segni di fumigazione, scritta dalla quarantena di Cagliari ed inoltrata a La Maddalena via mare con una nave di passaggio, così descrive il viaggio compiuto dal giovane ufficiale:
“Dalla partenza di Genova abbiamo messo 29 giorni per arrivare in Alessandria, lì vi era la peste; cosicché non sono stato messo a terra che io solo per servizio; e quindi ci siamo messi in quarantena per paura della detta peste la quale ora va correndo ed ha preso piede in tutto il Levante. Dopo 10 giorni (il 10 agosto) siamo partiti ed abbiamo ancorato a Malta il 27 dopo una navigazione di cattivi tempi ed abbiamo sofferto la fame, perchè i viveri erano pessimi e carne fresca non ne avevamo. Lì eravamo nuovamente in quarantena ed abbiamo appreso che a Genova vi era il Colera, ciò mi ha messo in inquietudine; il 5 settembre abbiamo fatto vela per Cagliari ove arrivammo li 11 a sera e vi dimoreremo da 12 a 15 giorni pendente la quale stazione spero di avere delle ulteriori notizie. La nostra quarantena avrà luogo sino al 10 di ottobre finita la quale andremo probabilmente in disarmo, ed alla fine del mese potrei forse venire in permesso se il Colera cessasse”.
Dalle notizie fornite da Agostino è facile apprendere che la nave sulla quale era imbarcato, partita per una qualche missione, era passata invece da una quarantena all’altra costringendo l’equipaggio a rimanere a bordo dall’inizio di luglio fino a metà ottobre. All’arrivo della lettera, Pietro Azara annotava a tergo della stessa: “…da Cagliari del figlio Agostino, contiene dettaglio della provenienza da Alessandria, ove corre la peste; che il ciel ci liberi”.
Ma se il cielo fu clemente con la peste e col colera del 1835, non liberò l’isola dall’epidemia di colera del 1854, ricomparsa con maggior virulenza l’anno successivo in quasi tutto il nord della Sardegna ed in particolare a Sassari dove i morti, come riferisce il Costa, che visse quelle tragiche giornate, furono oltre cinquemila e a dire di Salvatore Farina “…non è lontano dal vero che Sassari, la quale contava allora un po’ più di 30 mila abitanti, ne seppellisse quell’anno 10 mila, e almeno le avesse seppellite bene”. Non sappiamo quanti furono i morti a La Maddalena, ma certamente, come traspare da una lettera inviata al sindaco Giò Leonardo Bargone dall’intendente provinciale di Tempio il 31 agosto 1854, la situazione non doveva essere rosea. E a soffrirne maggiormente erano i più poveri che colti dal morbo, si trovavano nell’impossibilità di lavorare e di procacciarsi il necessario per curarsi e sopravvivere.
Il Bargone, per sopperire alle esigenze dei più bisognosi, aveva dunque fatto ricorso all’intendente che, sia pure in maniera singolare, era venuto in aiuto degli isolani: “La deplorabile situazione di codesto luogo – scriveva l’intendente – ove è scoppiato ed infierisce il Colera Morbus, stato ormai dichiarato tale, come rilevasi dal rapporto del Dr. Tamponi, sta sommamente a cuore dello scrivente, il quale in vista della mancanza di mezzi di codesta comunità, e della nessuna offerta privata si è determinato d’inviare al Sig. Sindaco la somma di lire trecento da erogarsi nei bisogni attuali, massime a beneficio della classe povera”.
La premurosa sovvenzione dell’intendente non era però a titolo grazioso; egli, infatti, precisava che la somma inviata “…si intende concessa a titolo di prestito che a suo tempo sarà oggetto di apposita pratica da istruirsi secondo che meglio sarà avvertito, e di cui il prefato Sig. Sindaco spedirà ricevuta in carta da bollo da centesimi quaranta che quì si unisce trasmettendola a volta di corriere allo scrivente in cui favore verrà fatta, e che alla somma medesima aggiunga franchi quaranta del proprio da distribuire ai Cholerosi poveri”.
Strana sovvenzione dunque quella dell’intendente che, oltretutto, impone al sindaco di aggiungere alla somma rimessa altri quaranta franchi del proprio. Molto generosamente, però, fa pervenire la carta bollata da centesimi quaranta per stendervi la ricevuta, salvo poi a chiedere in futuro anche il rimborso di quella. A sobbarcarsi gli oneri di quelle tristi giornate non fu però il sindaco Bargone, anche lui colpito dal morbo, ma il consigliere Nicolò Susini chiamato ad assumerne le funzioni. E l’intendente, venuto a conoscenza dell’impegno da lui profuso, non mancò, visto che almeno quelli non costavano nulla, di tributargli sperticati elogi:
“Quanto viene penoso al sottoscritto lo stato di Maddalena, altrettanto gli è confortevole sapere che chi fa le veci del sindaco abbia provveduto alle emergenze in modo assai commendevole, come riferisce il Dr. Tamponi, per cui il sottoscritto stesso gliene esterna tutta la sua soddisfazione e gliene tributa le lodi meritate, riservandosi di segnalarlo al Ministro. Continui l’autorità municipale in questa via e metta in pratica quelle misure che non fossero state adottate, infonda coraggio, inspiri nella popolazione generosi e filantropici sentimenti che il morbo sarà presto per cessare, speriamolo”.
Non abbiamo precisa notizia su quanto avvenne a La Maddalena, ma alcuni atti della Giudicatura ci offrono l’opportunità di rievocare un episodio avvenuto in quei tristi giorni. Il 4 settembre, il sindaco Bargone, fortunosamente e fortunatamente rimessosi, denunciava:
“Nella sera di oggi è deceduta Maddalena Chinedri da malattia del terribile Cholera, superstite costei del predefunto di lei marito Giovanni Sanguinetti, Gabelloto di questo comune, rimane la casa di abitazione di costoro deserta di persone che abbiano diritto alla loro professione, quali piuttosto esistono in altri paesi, io vengo perciò a porgerne notizia alla Giudicatura perchè con suo ufficio ponga riparo su qualunque danno potesse emergere dall’abbandono della casa ove esitono le cose che appartenevano ai preindicati Giugali non a guari deceduti”.
Il Gabelloto era l’unico depositario in paese dei generi di privativa, cioè dei tabacchi, del sale e della polvere da sparo che non potevano rimanere abbandonati ed erano necessari alla popolazione. Il giudice mandamentale Efisio Bisson, pertanto, recatosi nella casa dei Sanguinetti, posta a Cala Gavetta, alla presenza dell’ispettore delle gabelle Luigi Cossu, dopo aver provveduto alla consegna dei tabacchi e della polvere da mina e da caccia al gabelloto provvisorio Felice Fienga, coll’ausilio di tre facchini, fatte convenientemente allontanare le persone presenti, faceva sciorinare alla riva del mare tutti gli effetti contenuti nella casa e ripostili poi nella stessa, dopo lo sciorinamento, provvedeva alla chiusura della porta non potendosi procedere oltre in quanto “…per risparmio di tempo nell’attuale infausta circostanza del Cholera Morbus non abbiamo inventariato con verificazione di ciò che esiste nella detta casa e ci siamo limitati a lasciare le cose in stato quo senza la benchè menoma rimozione, assicurandole a chi di diritto con aver chiuso come abbiamo fatto chiudere dal fabbro ferraro Giuseppe Manca la porta d’ingresso non solo colla sua serratura a chiave ma con lunghi chiodi di ferro ribattuti”.
Le speranze dell’intendente furono alfine esaudite; nel mese di ottobre l’epidemia era stata pressoché domata. Lo apprendiamo proprio grazie all’evento di cui sopra. Difatti, sull’istanza di Francesco Viggiani, viceconsole francese nominato procuratore di Gerolama Chinedri, madre della defunta Maddalena, residente a Bonifacio, si procedette all’apertura della casa per l’inventario e la consegna dei beni all’erede. Ma il sindaco, anche stavolta rappresentato dal suo vice Nicolò Susini, temendo che dall’apertura della casa potessero insorgere pericoli, il 20 ottobre così si rivolgeva al giudice:
“Per la notizia pervenutami che da questa giudicatura si procede al dissigillamento ed apertura della casa nella quale abitavano gli oggi defunti Giovanni Sanguinetti e Maddalena Chinedri deceduti nel tempo del terribile morbo che ha afflitto questa popolazione, essendo stata la stessa casa sempre chiusa fino a questo momento, credo necessario, qualunque sia l’interesse degli eredi per la detta apertura, che si usino le necessarie precauzioni onde disinfettare quell’aria mefitica che potrebbe essere cagionevole alla pubblica salute e perciò promuovo istanza che si eseguiscano tali precauzioni”.
E il giudice Bisson, in giorno stesso, così procedeva e verbalizzava:
“…onde schivare il maggior danno, che potrebbe succedere nella salute pubblica per il Cholera Morbus, la di cui scomparsa non è tuttavia certa fra questi abitanti, abbiamo accettato la proposizione di esso sindaco di premunirci delle materie necessarie dalla farmacia per disinfettare l’aria della stessa casa per tanto tempo rinchiusa e di tenerla aperta alla ventilazione e prima di procedersi alla descrizione di ciò che vi esiste abbiamo fatto profumare la stessa casa lasciandovi anche materie disinfettanti e abbiano altravolta chiuse le porte e finestre colle cautele prescritte dalle leggi”.
L’inventario fu poi eseguito il 23 ottobre. In tale data il giudice Bisson ritornava sul posto e così verbalizzava:
“Dopo tre giorni consecutivi dal dì dell’apertura della presente casa nelle porte e finestre e di profumi con materie disinfettanti per le istanze promosse dal Sindaco Comunale a scanso di nuovamente riprodursi nel vicinato ed in questa popolazione il malore che l’affliggeva avendo noi prestato con personale intervento la necessaria assistenza nelle operazioni suddette si è proceduto all’apertura e alla ventilazione della stessa…”; ed esaurite queste formalità, si dava corso all’inventario e alla successiva consegna della casa e degli effetti contenuti al procuratore dell’erede.
Anche La Maddalena, dunque, malgrado tutte le cautele sanitarie adottate, dovette pagare lo scotto di una delle tante terribili epidemie oggi fortunatamente scomparse o quanto meno sopite.
Negli anni del colera, (ma anche di ogni altro tipo di epidemia) a La Maddalena, se una nave militare che era entrata in contatto con legni barbareschi o comunque proveniente da zone infette, arrivava nelle acque circondariali, era obbligata a issare la famigerata bandiera gialla.
A quel punto la nave aveva l’obbligo di fermarsi in rada e quindi di sbarcare il personale (o i viaggiatori) nell’isola di Santo Stefano, (alla fine degli anni ’50, venne scoperto, e segnalato al parroco Capula, un piccolo cimitero dove venivano seppelliti i morti per contagio in quarantena) dove era stato allestito un lazzaretto per le emergenze. Terminata la quarantena nell’isola dirimpettaia, la nave entrava a Cala Gavetta e faceva sbarcare personale di bordo e ospiti presso il bollitore, alla punta estrema della “Quarantena”, davanti a quella che poi diventerà la Capitaneria del Porto (molo di ponente). Nel bollitore venivano versati tutti gli indumenti dei passeggeri, che in cambio ricevevano una coperta. Con questa si avvolgevano e, fatti 30 metri, si avvicinavano alla finestra con grata (che ancora oggi “resiste”, nella parete meridionale della Guardia di Finanza e che una volta ospitava il Regio Bailo, competente anche in materia sanitaria) e da circa dieci metri di distanza, aprivano la coperta sul davanti, mostrando al Bailo, dall’altra parte della grata, se avessero pustole, arrossamenti o piaghe, quindi si voltavano e mostravano il resto del corpo. Se l’esame visivo veniva superato, potevano tornare al bollitore, prelevare i loro indumenti zuppi ma risanati, e decidere quando erano sommariamente asciutti, di indossarli, restituendo la coperta, che finiva nuovamente nel bollitore. A quel punto gli ospiti potevano entrare in paese.
Ci fu una volta in cui una nave militare non rispettò il regime della quarantena… Scoppiò un movimento popolare capeggiato dalla capopopolo locale Francè a longa, che dopo aver assediato l’Ammiragliato con tutte le popolane della periferia, e preteso di essere ricevute, minacciarono la massima autorità militare di scatenare l’inferno. La nave venne fatta subito allontanare e ormeggiare a Santo Stefano per la quarantena di rito. (Giancarlo Tusceri)