Correva l’anno 1790
Matteo Cogliolo è sindaco di La Maddalena e da un documento del 1790 dell’archivio di Stato di Torino, si può ricostruire il primo nucleo abitato organizzato, stranamente, in una sorta di tracciato urbanistico tipo castro romano, regolare nelle direttrici viarie ortogonali tra loro. Ciò fa pensare ad una sorta di idea urbanistica progettata a tavolino e non, come sarebbe più logico pensare, ad una costruzione più spontanea adattata alla natura del sito, come si può ancora oggi riscontrare a ridosso del porto banchinato, nelle stradette chiamate, alla genovese, carrugi. Molti studiosi davano per scontata la collocazione del primo spontaneo agglomerato urbanistico nella zona sottostante lo Spiniccio; la pianta del 1790, invece, spazza via ogni dubbio in merito, mostrando chiaramente che il paese all’epoca era situato solo sul lato destro, all’entrata del porto, e che non figurava nessuna casa nel lato opposto. La carta fuga anche ogni perplessità sulla collocazione della prima chiesa alla marina; essa era ubicata tra le fondamenta dell’attuale parrocchiale e fu voluta con pertinacia e determinazione dagli isolani, che avevano ormai perduto ogni interesse per il vecchio abitato all’interno dell’isola, dove era stata eretta la prima cappella. La primissima chiesa alla marina fu però realizzata sulla base delle tavole dell’ingegnere savoiardo Marciot e non sulla base dei disegni del capitano ingegner Cochis, primo affidatario della progettazione. I calcoli del Cochis erano stati ritenuti troppo onerosi e Cagliari dichiarò che le tavole del progetto originario erano andate smarrite. La nuova parrocchia a Cala Gavetta, intestata sempre a Santa Maria Maddalena, fu terminata presumibilmente nel 1782 e rappresentò il fulcro del primo assetto urbanistico dell’isola. Dai documenti in nostro possesso, non è possibile al momento affermare con certezza quale fosse l’orientamento della facciata della chiesa del tempo. In ogni caso si trattava di una minuta cappella “che si possa poi incorporare nell’intera Chiesa”. Cala Gavetta, la nuova sede della ricostituita Marina Sarda dopo Villafranca, divenne il nuovo punto di riferimento per scambi di ogni tipo con la Sardegna, che aveva a Cagliari la sede istituzionale del governo sardo-piemontese. Alle baracche dei pescatori si andarono sostituendo solide costruzioni abitative più conformi al nuovo assetto del nascente paese. Dopo la costruzione di una torre di difesa a Santo Stefano, la disposizione urbanistica presso la marina ebbe una più rapida definizione. Dalla pianta del 1790 si deduce che la nuova chiesa di Santa Maria Maddalena fu costruita a ridosso del primo nucleo abitativo, con una grande piazza prospiciente e in asse all’attuale via Italia. Nel giro di pochi anni il tenore di vita dell’isola era tanto cambiato che i tuguri del Collo Piano erano solo un lontano ricordo.
Il viceré Thaon di S. Andrea era venuto a sapere che i bonifacini avevano riproposto agli organismi rivoluzionari francesi un’azione anche militare per il recupero dell’arcipelago. Preoccupato dell’eventualità inviò da Sassari un grosso distaccamento che oltre a presidiare le isole, nello stesso anno costruì ai Tozzi il forte di S. Andrea e ristrutturò le vecchie strutture presso la chiesa della Trinita. Lo stesso viceré, a proposito dei maddalenini, rassicurava la corte torinese scrivendo testualmente che: “Per parte degli isolani ancorché sia quella popolazione composta in buona parte di famiglie corse, ben lungi di temere che possano essere disposti a favorire i tentativi de’ bonifacini, ho all’opposto motivo di credere che darebbero, occorrendo il caso, non dubbie testimonianze di attaccamento al governo, cui sono affezionatissimi”. Questo giudizio non era condiviso dai comandanti del distaccamento che stando in loco espressero pareri e informazioni contrarie. Il barone Cachiardi relazionò al viceré che in caso di allarme i civili utili non potevano essere che una cinquantina che: “si batteranno volentieri contro i turchi – scriveva – ma se si trattasse di combattere contro i cristiani essi non amerebbero spandere il sangue del loro vicino. Questa proposizione è loro sfuggita su ciò che si è divulgato nell’isola, e cioè che i preparativi che si fanno sono contro i genovesi (i bonifacini) che progettano – per ciò che si dice – di venire a prenderli, ma ciò che mi sembra molto positivo è che essi non si batteranno contro i corsi non ostante che essi siano affezionati al nostro governo”. (Salvatore Sanna)
La Torre di Longonsardo compare in numerosi documenti che riguardano provvedimenti per contrastare il contrabbando con la Corsica.
“Pietro Curiolu mercante dell’isola La Maddalena si da l’onore di rappresentare all’E,V, che per aver applicato al servizio delle mezze galere i suoi figliuoli, per potere pascolare il proprio bestiame e coltivare le terre da essere seminate a grano ed orzo, ha pensato previa la licenza dell’E.V. far venire a popolare nella detta isola un suo parente per nome Giuseppe con sua moglie e quattro figliuoli maschi, il quale mal contento da già tre ani si trova con la sola sua moglie e figliuoli vivendo nell’isola l’Avezzo (Lavezzi) ne mari di Corsica in qualità di pastore all’arciprete di Bonifacio.; e con ciò sia cosa che si persuada che il medesimo sarà per rendersi non solo a lui vantaggioso, ma eziandio a popolatori, attesa la perizia nella coltura delle campagne, piantagione di viti ed innestamento di oliastri che in quantità se ne trovano in quest’isola, al che ha dato principio il sig. Piloto Millelire e l’aggiunto regio cappellano, ma non sa potuto andar avanti in difetto di soggetto perito ………..”
13 gennaio
Nota-delibera inviata al viceré dove si rappresentano le ragioni del consiglio nel contrasto contro il comandante di terra, Raynardi, e le solite richieste riguardanti le provviste alimentari. La diatriba con Raynardi rappresenta un momento emblematico della vita istituzionale e sociale di quel momento. Furono botte da orbi, all’interno di una faida di famiglie isolane schierate su fronti opposti. Il viceré, pur disprezzando il comandante, pretese dal consiglio piena sudditanza a Raynardi, che pochi mesi dopo cacciò in malo modo dall’isola, sostituendolo con il più noto Riccio. Questi un ufficiale piemontese del corpo franco in piena carriera e che era già stato per un breve periodo alla Maddalena con gradimento degli isolani.
9 febbraio
Volendo il re Vittorio Amedeo propagare il bestiame, specie bovino, nell’Isola per rapporto all’agricoltura – primaria sorgente di ricchezza del paese – con editto 9 febbraio 1790 abolisce tutti i privilegi per provvigione forzosa di carne da scarto e da macello contro la libera volontà del proprietario e del pastore; e proclama libera la vendita delle carni senza soggezione di tassa nei contratti privati.
Nessun proprietario doveva obbligarsi – per titolo alcuno – a vendere bestiame in qualsiasi quantità alle città, collegi e persone, né imporsi alcuna tassa o limitazione di prezzo.
Proibivasi nei pubblici macelli la macellazione del bestiame bovino che non avesse raggiunto i dieci anni di età: e del pecorino in genere, salvo di quei capi non più atti alla propagazione.
La tassa doveva andare regolata sul valore corrente del bestiame. Abolivansi pure le tasse sul prezzo dei selvatici e degli animali da caccia.
30 aprile
Un piano di riconversione finanziario e di potenziamento del sistema di sorveglianza e di difesa costiera basato sul «torreggiamento» venne discusso nel «congresso» del 30 aprile 1790. Il nuovo piano, che si soffermava a lungo sulle prospettive di recupero di risorse finanziarie nel bilancio del Regno per procedere ai lavori, prevedeva la costruzione di 14 torri, di cui ben 8 erano dislocate lungo i litorali della Gallura e della Baronia. Le località prescelte erano: l’isola della Maddalena; il porto di Terranova; Porto San Paolo; Cala Sarraina nelle coste di Aggius (questo sito era considerato “l’emporio dei contrabbandi”, infatti il toponimo Cala Sarraina viene da Cala Saracina o Saracena. Infatti il sito si contraddistingue dagli altri per il basso fondale e dagli scogli a fior d’acqua. I saraceni utilizzavano scafi leggeri e col fondo piatto che consentiva loro di passare dove gli inseguitori non potevano. E questo consentiva loro di restare in agguato o, nel caso, di fuggire in condizioni di sicurezza); Porto Cervo o, in alternativa, Capo Libano (“entrambi sono d’importanza per la difesa dalle incursioni de’ barbareschi, per prevenire gli sfrosi”); Capo di Ferro o l’Isola delle Bisce; Capo Comino; Porto di Orosei.
9 maggio
Preda di una galeotta barbaresca di 20 uomini ed un ricco carico nelle acque delle Bocche di Bonifacio.
14 luglio
Pasquale Paoli tornava in Corsica dopo un esilio, in parte volontario, di ventuno anni. A Londra era stato ricevuto con grandi onori, percepiva una pensione regia e frequentava la migliore società inglese; apprezzato da Boswell ed ammesso in una loggia massonica, frequentava gli intellettuali più celebri del tempo (tra cui Samuel Johnson) al Literary Club di Londra. La fama del generale era universale: era il momento della sua apoteosi. In America gli venne dedicato il nome di una cittadina della Pennsylvania, mentre altre città cambiarono il nome in Paoli, Corsica o Corsicana; Caterina di Russia gli offrì ospitalità ed una pensione annua, mentre il Gran Duca di Toscana e l’Imperatore d’Austria lo avevano ricevuto con i massimi onori; i poeti italiani, tra cui Alfieri, l’avevano celebrato come un eroe. Ma l’esilio era amaro e, soprattutto, non permetteva di avere una giusta visione degli avvenimenti. Tra la Rivoluzione e Paoli c’era un grande malinteso: «La sua formazione e le sue abitudini mentali sono tipiche dell’Ancien Régime, per lui la Monarchia è il frutto naturale della saggezza politica ed il dispotismo illuminato è l’ultimo stadio del progresso». Al di là dei dibattiti sulla reale o presunta partecipazione alla causa rivoluzionaria, Paoli si adeguò al nuovo ordine di cose: «…di chiunque sia la mano che ha dato la libertà alla nostra patria, io la bacio con tutta la sincerità del mio zelo e della mia sollecitudine». Temendo l’insorgere di complotti antifrancesi, precisò il suo pensiero affermando che «…La libertà della Patria è il mio unico scopo; e non sosterrò altro per assicurarle la protezione di una così grande nazione». Tuttavia il Generale esitava ancora a rientrare in Corsica: temeva di non avere nell’isola «alcuna parte attiva nella direzione degli affari», anche se preferiva «l’unione alle altre province francesi ad una libertà indipendente, tanto se ci venisse privata, o qualcuno la vendesse, o se ci fosse un tiranno». Alla fine, dopo lunghe tergiversazioni, smentite e riflessioni, il Generale decise di tornare in Corsica. Dopo aver accettato l’invito di una delegazione dall’Assemblea generale, Paoli si recò a Parigi il 3 aprile 1790. Accompagnato da Lafayette e Mirabeau, ricevuto dal Re, acclamato dall’Assemblea Costituente, salutato da Robespierre, il generale dichiarò ai deputati che quello era il giorno più felice della sua vita e che, trovando libera la patria che aveva abbandonato schiava, non si doveva dubitare della sua fedeltà e della sua lealtà (22 aprile 1790). Il ritorno in Corsica assunse dei toni trionfali: lungo la valle del Rodano, ad Aix, l’attendevano Giuseppe Bonaparte e Pozzo di Borgo; a Tolone, dove Paoli si imbarcò, la folla lo salutava con entusiasmo. In Corsica era il delirio: sbarcato a Macinaggio il 14 maggio, in mezzo ai colpi a salve dell’artiglieria ed al suono delle campane, Paoli ripartì il 17 per Bastia, dove venne ricevuto in maniera grandiosa. Qui il generale rincontrò il fratello Clemente, mentre da ogni parte dell’isola giungevano delegazioni per rendergli omaggio; ad Ajaccio venne eretta addirittura una statua in suo onore. Tre mesi più tardi, alla Consulta d’Orezza (settembre 1790) il Generale venne eletto, all’unanimità, Presidente del Congresso dipartimentale, ricevette in dono un’importante somma di denaro e venne nominato Comandante generale delle Guardie Nazionali. Tutto sembrava sorridergli: il potere era di nuovo nelle sue mani, anche se soltanto in apparenza. La realtà era ben più complessa: i suoi avversari politici erano agguerriti e potenti; i “gafforisti” si erano ritirati a Corte e non avevano alcuna intenzione di cedere il potere. Anche se il clan venne decapitato con l’esilio di Gaffori e dei suoi congiunti, il pericolo non era affatto diminuito: il “partito Buttafoco” era ancora influente e restava sempre ostile a Paoli. Il problema principale era, innanzitutto, l’anarchia in cui la Corsica sembrava essere ripiombata nel periodo 1791-1792. Apparentemente, l’isola era pacificata e ben governata: ogni distretto era amministrato da un Consiglio, da un Direttorio e da un Procuratore Generale Sindico, incaricato di controllare l’applicazione delle leggi. Sul piano giudiziario, furono istituiti dei Tribunali distrettuali, formati da membri eleggibili. Infine, il 15 novembre 1790, l’Assemblea Nazionale scelse Bastia come capoluogo del nuovo Dipartimento: l’assimilazione alla Repubblica era completa. Tuttavia il largo potere accordato alle autorità locali lasciava la Corsica in balia dei piccoli re elettivi: l’isola, ancora una volta, era stata lasciata nelle mani dei capi clan. Alcuni corsi arrivarono a chiedere all’Assemblea Costituente: «Governateci Voi, perché mai, con il nostro spirito di partito, un Corso renderà giustizia ad un altro»34. La stessa combinazione di favoritismi e di intrighi caratterizzò la formazione delle Guardie Nazionali e dei battaglioni di volontari: i capi clan si erano spartiti i posti di ufficiali, come si erano già accaparrati quelli di giudici. L’unica novità era che i benefici di questo caos restavano nelle mani degli isolani.
1 luglio
Vengono abolite per legge le diocesi della Corsica, tutte, tranne quella di Mariana abolita nel 1801, e sempre nel 1801 con bolla papale venne ristabilita solo la diocesi di Ajaccio come unica nell’isola, suffraganea dell’arcidiocesi di Aix fino al 1815, poi dell’arcidiocesi di Genova fino al 1860 quando tornò suffraganea di Aix. Il cristianesimo arriva nell’isola nel I o II secolo, anche se come nella vicina Sardegna la nuova religione si affermò sulla costa (specialmente quella tirrenica) mentre l’interno rimase più refrattario, i primi secoli della nuova religione sono poco conosciuti. Quasi tutti i santi isolani (Devota, Giulia, Reparata, Appiano, Fiorenzo) sono infatti di origine africana. Il cristianesimo entra ufficialmente nella storia con papa Gregorio Magno (590-604) che afferma che l’isola ancora nel VI secolo era ancora “largamente pagana e l’autorità della Chiesa era quasi inesistente” e nella sua lettera per l’evangelizzazione dell’isola chiede ai suoi monaci di “costruire [chiese], battezzare, estirpare il culto del bosco e della pietra”, poi dopo esser stata completamente evangelizzata si organizzarono le sei diocesi isolane (Accia, Ajaccio, Aleria, Nebbio, Mariana, Sagone). In dettaglio tutte le antiche diocesi dell’isola, per secoli legate a Pisa o a Genova, infatti il papa Innocenzo II nel 1133 decise che tre di esse dovevano essere suffraganee dell’arcidiocesi di Genova (Accia, Mariana, Nebbio) e tre a Pisa (Ajaccio, Aleria, Sagona). Inoltre l’arcivescovo di Pisa ebbe il titolo di primate della Corsica, che conserva tuttora.
Diocesi di Accia: Eretta nel IX secolo o secondo altre fonti nel 1133 per evitare dispute territoriali con i vescovi confinanti prende nome da Accia, frazione oggi abbandonata di Quercitello in Castagniccia presso il Monte San Petrone (1.766 m), era la più piccola diocesi dell’isola e comprendeva solo due pievi (Rostino e Ampugnani) che erano la prima parte della diocesi di Aleria e l’altra di Mariana, nel 1553 un’epidemia di malaria decimò la popolazione di Accia e su richiesta del vescovo di Mariana venne unita a Mariana fino al 1801 quando venne definitivamente soppressa. Era suffraganea dell’arcidiocesi di Genova. La diocesi comprendeva 15 parrocchie suddivise tra i comuni di Bisinchi, Casalta, Castello di Rostino, Gavignano, Giocatojo, Morosaglia, Quercitello, Scata e Valle di Rostino. Nel 1968 è stata ricreata come diocesi tiolare e l’attuale vescovo è Levi Bonatto, vescovo ausiliare di Goiânia (Brasile).
Diocesi di Ajaccio: Diocesi eretta nel III secolo si hanno notizie certe a partire dal VI secolo, la diocesi a partire dal basso medioevo era costituita da dodici pievi (Ajaccio, Bonifacio, Mezzana, Celavo, Cauro, Ornano, Talavo, Cruscaglia, Valle, Veggiani, Tallano e Sartena) e da 14 comuni (Ajaccio, Bastelica, Bonifacio, Figari, Forciolo, Grossa, Moca-Croce, Santa Maria-Figaniella, Santa Maria-Sichè, Sartena, Sotta, Urbalacone, Vero, Zigliara) che rimasero invariate tranne Bonifacio nel 1516 che venne incorporata da papa Leone X nell’arcidiocesi di Genova. Il 1° luglio 1790 la legge francese ordinò la soppressione di tutte le diocesi isolane, tranne quella di Mariana che aveva sede a Bastia, ma con una bolla papale di papa Pio VII del 1801 fu l’unica dell’isola a venire ricostituita con tutto il territorio dell’isola, a cui erano state aggiunte le isole d’Elba e Capraia, il Principato di Piombino e alcune parrocchie di Castiglione della Pescaia e divenne suffraganea dell’arcidiocesi di Aix. Nel 1816 perse i territori toscani e divenne suffraganea dell’arcidiocesi di Genova, fino a quando l’italiano non venne reso illegale negli atti pubblici dell’isola, infatti nel 1860 ritornò suffraganea di Aix. Dal 2012 il vescovo è Olivier de Germay; nel 2015 la diocesi aveva 251.000 battezzati su 307.000 abitanti pari al 91,7% della popolazione nelle 434 parrocchie dell’isola, 71 sacerdoti di cui 51 secolari e 20 regolari, 17 diaconi, 27 religiosi uomini e 41 donne.
Diocesi di Aleria: Diocesi eretta nel VI secolo, era costituita da 19 pievi (Govellina, Campoloro, Verde, La Serra, Bozzio, Alesani, Orezza, Vallerustio, Talcini, Venaco, Rogna, La Corsa, Covasina, Castello, Aregno, Matra, Niolo, Carbini) e da 29 comuni (Aleria, Altiani, Aregno, Cambia, Canale di Verde, Carbini, Castellare di Mercurio, Castirla, Cateri, Cervione, Corte, Erbajolo, Focicchia, Giuncaggio, Lano, Lavatoggio, Muracciole, Piazzole, Piedicorte di Gaggio, Pietroso, Prato di Giovellina, Prunelli di Fiumorbo, Santa Lucia di Mercurio, Santa Reparata di Balagna, Tralonca, Valle di Campoloro, Valle d’Orezza, Ventiseri), già immediatamente soggetta alla Santa Sede, nel 1092 con papa Urbano II divenne suffraganea dell’arcidiocesi di Pisa. Nel 1571 divenne vescovo il milanese Sant’Alessandro Sauli che spostò la cattedrale da Aleria a Cervione, dato che ormai era zona malarica e insalubre; la cattedrale di Cervione venne rimaneggiata nel XVIII secolo in forme barocche. Nel 1769 dopo la morte del vescovo e il passaggio dell’isola alla Francia venne nominato l’unico francese, Jean-Joseph-Marie de Guernes, nel 1791 il vescovo accettò la Costituzione civile del Clero ma l’anno dopo scappò in Toscana a Lucca, Livorno e a Pisa dove morì nel 1798 e nel 1801 la diocesi venne soppressa. Nel 2002 è stata ricostituita come sede titolare e l’attuale vescovo titolare è Guido Fiandino, già vescovo ausiliare di Torino.
Diocesi di Mariana: Istituita probabilmente nel IV secolo, la sede vescovile era la Cattedrale di Santa Maria Assunta detta “A Canonica” a Mariana nell’odierno comune di Lucciana, nel 1440 la sede vescovile venne spostata nel paese di Belfiorito che prese il nome di Vescovato e nel 1570 nella Co-Cattedrale di Santa Maria Assunta a Bastia dove rimase fino alla soppressione nel 1801. Già immediatamente soggetta alla Santa Sede, dal 1092 al 1133 fu suffraganea dell’arcidiocesi di Pisa e dopo il 1133 di Genova; comprendeva i comuni di Bastia, Bigorno, Biguglia, Borgo, Brando, Cagnano, Canale, Castellare di Casinca, Furiani, Lento, Lucciana, Luri, Meria, Morsiglia, Pietracorbara, Pietralba, Rogliano, Santa Maria di Lota, Rogliano, Santa Maria Poggio, Scolca, Sisco, Sorbo Ocognano, Tomino, Urtaca, Vescovato, Ville di Pietrabugno. Nel 1563 venne unita a quella di Mariana la diocesi di Accia; e la diocesi che in origine comprendeva 17 pievi, divennero 19 dopo l’unione della diocesi di Accia: Bastia, Capo Corso, Luri, Brando, Lota, Orto, Mariana, Bigorno, Caccia, Casinca, Tavagna, Moriani, Ostricone, Tuani, Sant’Andrea, Giussani, Casaconi, Ampugnani e Rostino. Nel 2002 venne istituita come sede titolare e l’attuale vescovo titolare è Paolo De Nicolo, già reggente della Prefettura della casa pontificia.
Diocesi di Nebbio: Diocesi eretta nel V secolo, era la penultima per estensione e comprendeva solo 7 pievi attorno al golfo di San Fiorenzo: Canari, Nonza, Patrimonio, Santo Quilico e Santo Pietro. La diocesi comprendeva i comuni di Barbaggio, Canari, Farinole, Murato, Nonza, Olcani, Olmeta di Capocorso, Patrimonio, Poggio d’Oletta, Rapale, San Fiorenzo, San Gavino di Tenda, Santo Pietro di Tenda, Sorio e Tomino. Sede vescovile era la città di Nebbio presso San Fiorenzo che cadde in rovina, la cattedrale ancora oggi esistente è dedicata a Santa Maria Assunta, e il vescovo si spostò a San Gavino di Tenda. Dal 1092 al 1133 fu suffraganea dell’arcidiocesi di Pisa, poi divenne suffraganea dell’arcidiocesi di Genova con la bolla di papa Innocenzo II, soppressa dall’Assemblea Costituente nel 1790, la sua abolizione non venne riconosciuta dal papa fino al 1801. Nel 2006 è stata istituita come de titolare e il vescovo titolare è Francisco Montecillo Padilla, nunzio apostolico in Arabia.
Diocesi di Sagona: Documentata per la prima volta nel 591, comprendeva 18 pievi e 27 parrocchie divise tra i comuni di Balogna, Calenzana, Calvi, Cargese, Cristinacce, Galeria, Letia, Lumio, Manso, Marignana, Moncale, Montemaggiore, Osani, Partinello, Piana, Porto, Renno, Salice, Sari d’Orcino, Serriera, Vico e Zilia. Dal 1092 divenne suffraganea dell’arcidiocesi di Pisa, la sede vescovile era a Sagona oggi frazione del comune di Vico; in seguito alle incursioni saracene e alle distruzioni dell’abitato il papa autorizzò il vescovo a trasferirsi a Vico dove risiedette dal 1569 al 1625. Nel 1625 il vescovo si trasferì nella fortezza genovese di Calvi dove rimase fino alla soppressione delle diocesi nel 1790, che però non venne riconosciuta dal papa fino al 1801. Nel 2002 venne istituita come sede titolare e l’attuale vescovo titolare è Paolo Rocco Gualtieri, nunzio apostolico in Madagascar, nelle Seychelles e a Mauritius e delegato apostolico nelle Comore con funzioni di delegato apostolico a Riunione.
22 luglio
Il bailo Carzia il 22 luglio del 1790 scrisse al viceré “Questa sera nell’ora della processione di Santa Maria Maddalena abbiamo provato lo sparo di cinque cannoni del nostro nuovo fortino, tanto a palla che a polvere, e troviamo che vanno a dovere, a riserva del più grosso che non ha palla adatta”.
6 agosto
Viceré di Sardegna è don Vincenzo Balbiano dei marchesi di Calcavagna.
11 agosto
Il ministro Graneri rinuncia al progetto di fondare a Cagliari una società di agricoltura simile alla Reale Accademia d’agricoltura operante a Torino.
settembre
Il comandante militare, De Castelberg, dava già finita la piattaforma del forte S. Andrea. Dal francese: “…con 100 uomini e una mezza galera si può fare una considerevole resistenza contro chiunque pensi di voler prendere quest’isola, o di infastidire questa popolazione, ora che si ha il forte di S. Andrea in stato e che si è riparato considerevolmente il Castel Magro” (la batteria della Trinita).
12 ottobre
Il maggiore De Castelberg, che succedette nel comando del distaccamento, intervenne anch’egli sulla questione negli stessi termini: “Sondando il modo di pensare di questa popolazione ho potuto convincermi che se si tratta di battersi contro i tunisini ci si potrà attendere da loro un buon aiuto, ma contro i cristiani e forse loro vicini e parenti c’è poco da sperare”. Con questo problema si visse la lunga vigilia dell’attacco franco-corso, con un continuo monitoraggio su ciò che accadeva in Corsica e in particolare a Bonifacio, e quando nell’autunno-inverno del 1792/93 la situazione sembrò precipitare l’urgenza del problema si ripropose nelle parole del comandante Riccio. Questi preoccupato delle scarse risorse umane disponibili, scriveva al viceré il 12 ottobre: “in queste circostanze poco vi è da fidarsi delli isolani, essendo tutti apparentati in Corsica e della medesima nazione. Se fosse per andare contro i barbareschi potrei compromettermi di loro in tutte le occasioni, ma contro i loro parenti e patriotti non lo fanno. E io credo che sarebbero in quell’occasione i primi nostri nemici”. Il viceré affrontò la questione dell’affidabilità dei maddalenini con intelligente pragmatismo, incrementando i benefici alla popolazione. Iniziò con la remunerazione di turni di servizio di guardia diurno e notturno fatto nei “punti di scoperta”; ma la vera provvidenza fu l’esonero dal pagamento dei 5 reali per l’importazione della carne: “per animare la fedeltà e coraggio di codesti isolani”. La situazione si sbloccò ai primi di novembre in occasione di una sorta di assemblea riunita in casa del comandante Riccio per la provvista del grano. La circostanza fu utile per porre la questione su come gli isolani intendessero agire in caso di attacco franco-corso. Ne relazionò il comandante di mare De Costantin: “Mi hanno provata la più viva penetrazione di riconoscenza verso V. E., – scrisse al viceré in data 8 novembre – e le loro dimostrazioni come altresì la determinazione di voler disfarsi della famiglia facendola passare in Sardegna, mi fanno credere che non cederanno all’attaccamento e prove date per il regio servizio in più occasioni, e che in queste contingenze sapranno sacrificarsi per la difesa della patria e per l’onore del sovrano, come mi hanno promesso”. Non furono certo i benefici appena avuti a far cambiare l’atteggiamento dei maddalenini, che però giocarono un po’ sull’equivoco per ottenerli. Gli isolani incamerati questi benefici dovettero considerare più oggettivamente la situazione complessiva in cui si trovava la loro comunità. Gli uomini più validi erano al servizio del re sardo, tanti altri navigavano in legni mercantili sotto la bandiera sarda, la qualità della loro vita era determinata dalle relazioni con il resto della Gallura e della Sardegna. I più anziani dei nativi che provenivano dall’esperienza della subalternità ai mercanti bonifacini, e gli altri sopraggiunti che lasciarono le precedenti condizioni insoddisfacenti, e comunque tutti quelli che avevano beneficiato della forte crescita demografica ed economica dell’isola, non potevano pensare che il futuro dovesse essere un ritorno al passato, con la perdita di quanto avevano sino ad allora ottenuto. Tanto più che, nonostante i timori, nessuno fu conquistato dalle idee rivoluzionarie che avessero potuto mettere in secondo piano il loro interesse al mantenimento dello stato di benessere acquisito sotto la bandiera sarda a favore degli ideali francesi. (Salvatore Sanna)
5 novembre
Nel tardo autunno del 1790 la comunità parrocchiale isolana fu squassata da uno scandalo raccontato, con molti particolari e con passione di parte interessata, da don Giacomo Mossa al viceré con una lunga nota datata 5 novembre di quell’anno. Il racconto, seppur unilaterale, rappresenta uno spaccato di vita isolana, arricchito dalla curiosità dell’oggetto del contendere, dalle considerazioni di costume e dai giudizi sulle situazioni e sulle persone. Vedi anche: La guerra delle sedie
17 novembre
Nel 1790 i bonifacini avevano sollecitato «la destinazione di un porto in Longon Sardo per ricevervi i legni di Corsica» che avrebbero caricato «vettovaglie» per i «Corsi di Bonifacio». La questione venne discussa in una riunione di giunta col viceré. Il ministero torinese avrebbe risposto il 17 novembre 1790 spiegando che sarebbe stato «opportuno [ … ] vegliare esattamente al fine di scoprire se continuino i passati abusi o altri, se ne introducano di nuovi, mentre in tal caso dovrà rivocarsi l’accordato esperimento e lasciare le cose nello stato di prima».
21 novembre
Scontro con due grossi legni barbareschi, che da qualche giorno erano in agguato contro le isole, che affrontati con risoluzione dai sardi si ritirarono. Vedi anche: Antonio Carlo Millelire
24 novembre
Quasi a fine anno, un incidente che rischia di aver conseguenze molto serie. Il 3 dicembre, Balbiano, dopo aver riferito della breve presenza a Cagliari di 2 fregate dell’Ordine di Malta, scrive: «La notte del 24 entrarono in questo stesso Porto la nave la Sirena Veneta comandata dal noto Vice Ammiraglio Sig. Cav.e Condulmero con la fregata la Pallade della stessa Nazione provenienti da Trapani. Essa nave o sia per l’oscurità o per forza del vento, od altro andò ad arenarsi verso l’imboccatura del ponte della Scaffa [un ponte che tuttora passa sopra lo stagno cagliaritano di Santa Gilla, vicinissimo al mare] e per disimpegnarla convenne disarmarla delle artiglierie, e munizioni. Con molta fatica di tre giorni poté la medesima mettersi a gala [sic], e la fregata ruppe e perdette il timone.» Nella stessa lettera, il Viceré scrive che un “armamento Tunisino, che giusta la prevenzione , che se ne avea comparve nei carruggi coll’idea forse di attaccare le R.e mezze galere, e andò non saprei, se pel tempo o per procurarsi notizie di queste a rifugiarsi parte in Porto vecchio di Corsica e parte in Bonifacio”: dal che, avvisi di attenzione e di allarme a Gaetano Demay che comanda appunto i “Regi legni” basati a La Maddalena. La Pallade dovrà quindi sostare nel porto, nel quale, lamenta giustamente il Balbiano, manca ogni tipo di materiale che possa servire, per esempio, a ricostituire l’armamento di una nave disalberata, ed il timone per la fregata dovrà essere spedito da Trapani, mentre la Sirena può partire per Malta il 7 dicembre ’90. Le galeotte Amazzone e Diana che erano partite, alla notizia della presenza di corsari tunisini a Nord delle Bocche di Bonifacio, verso l’Isola di San Pietro in dicembre, vi erano state trattenute da “I tempi assai burrascosi” sino a poco tempo prima e solo da poco avevano potuto far di nuovo vela e dar remi verso il Golfo degli Angeli. Fatta una tappa che si sperava breve tra Teulada e l’Isola Rossa, «una di esse, cioè la Comandante venne dalla furia del vento, e delle onde spinta contro la suddetta Isola, e sfasciata, essendosi però potuto salvare tutto l’equipaggio, benché alcuni di esso si trovino danneggiati nelle braccia, e nelle gambe: quanto agli effetti, ed attrezzi poco si è potuto recuperare dal sofferto naufragio. Trovandosi ancora qui la fregata di detta Nazione La Pallade, che aspetta da Malta il timone, il di lei Comandante di concerto col Sig. Brigadiere Cleva Donà, che già comandava le suddette due mezze galere hanno subito fatto noleggiare un battello per andar a raccogliere l’equipaggio del legno naufragato, ed io non lascio di ordinare al Deputato di Sanità di Teulada di fargli prestare ogni soccorso, ed assistenza. Trovandosi l’equipaggio suddetto in pratica non è occorso dare disposizioni per cautela della pubblica salute, e ciò eviterà, che il Regno non sia assoggettato a quarantena informandosi di quest’accidente i Magistrati esteri» .
1 dicembre
Un editto rinnova la proibizione dei giochi d’azzardo.
3 dicembre
Il 18 ottobre, partite da Porto Farina e da Tripoli, dopo una navigazione di 66 giorni, gettano l’ancora a Cagliari le galeotte Amazzone (10 cannoni e 110 uomini) e Diana (12 pezzi e 90 uomini). La squadriglia, comandata dal Brigadiere Donat Cleva, dato che ha lasciato da tanto tempo le coste africane, viene ammessa immediatamente a pratica. Si viene a sapere che sono queste le “mezze galere” che, in luglio hanno sostenuto il combattimento vittorioso contro dei legni tunisini che ora si afferma fossero 6, con 1.200 uomini a bordo, e con perdita non di 18 feriti ma di 17, compreso il comandante della Diana, più un caduto. Quasi a fine anno 1790, un incidente che rischia di aver conseguenze molto serie. Il 3 dicembre, Balbiano, dopo aver riferito della breve presenza a Cagliari di 2 fregate dell’Ordine di Malta, scrive: «La notte del 24 entrarono in questo stesso Porto la nave la Sirena Veneta comandata dal noto Vice Ammiraglio Sig. Cav.e Condulmero con la fregata la Pallade della stessa Nazione provenienti da Trapani. Essa nave o sia per l’oscurità o per forza del vento, od altro andò ad arenarsi verso l’imboccatura del ponte della Scaffa (un ponte che tuttora passa sopra lo stagno cagliaritano di Santa Gilla, vicinissimo al mare) e per disimpegnarla convenne disarmarla delle artiglierie, e munizioni. Con molta fatica di tre giorni poté la medesima mettersi a gala (sic), e la fregata ruppe e perdette il timone.» Nella stessa lettera, il Viceré scrive che un “armamento Tunisino, che giusta la prevenzione, che se ne avea comparve nei carruggj coll’idea forse di attaccare le R.e mezze galere, e andò non saprei, se pel tempo o per procurarsi notizie di queste a rifugiarsi parte in Porto vecchio di Corsica e parte in Bonifacio”: dal che, avvisi di attenzione e di allarme a Gaetano Demay che comanda appunto i “Regj legni” basati a La Maddalena. La Pallade dovrà quindi sostare nel porto, nel quale, lamenta giustamente il Balbiano, manca ogni tipo di materiale che possa servire, per esempio, a ricostituire l’armamento di una nave disalberata, ed il timone per la fregata dovrà essere spedito da Trapani, mentre la Sirena può partire per Malta il 7 dicembre ’90.