CronologiaMilleottocento

Correva l’anno 1857

Nel censimento di La Maddalena si registrò un nuovo decremento, con 1.712 abitanti. La popolazione rimase sostanzialmente stabile anche nel 1861, con 1721 abitanti di fatto, di cui 813 maschi e 908 femmine, registrati al primo censimento generale del Regno d’Italia. Tuttavia, se considera anche il numero degli abitanti di diritto, che risultavano cioè essere residenti a La Maddalena ma che non erano presenti, la cifra saliva a 1.901, di cui 939 maschi e 962 femmine. In altri termini, 180 maddalenini, di cui 123 maschi e 54 femmine, si trovavano fuori dall’isola. Probabilmente, molti uomini erano arruolati nella Regia Marina, mentre altri erano imbarcati su mezzi navali della Marina mercantile.
Questo secondo i censimenti. Tuttavia, per gli anni quaranta, siamo in possesso di altre cifre fornite da studiosi e viaggiatori sia italiani che stranieri. Infatti, nel 1840, secondo quanto riportato da Goffredo Casalis nella voce La Maddalena del suo Dizionario geografico, storico-statistico-commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, gli abitanti dell’isola sarebbero stati 2.115, di cui 1025 maschi e 1090 femmine, distribuiti in 425 famiglie. «La parte maschile – scrive Casalis – appare troppo scarsa, perché non si vedono nel giusto numero che le due età estreme i fanciulli e i vecchi, o manca la maggior parte delle persone di miglior età, per i molti che travagliano nella marineria». Ciò troverebbe conferma anche dall’analisi dei dati forniti dallo stesso autore sulle professioni esercitate dai maddalenini, con una netta prevalenza del mestiere di marinaio. Quasi il 66% degli occupati dell’isola svolgeva l’attività di marinaio, cifra che raggiunge il 73% se si sommano i meccanici addetti alla manutenzione delle imbarcazioni. Complessivamente, coloro che svolgevano attività legate al mare, compresi, quindi, i pescatori, rappresentavano l’80,1% del totale della forza lavoro impiegata.
Nell’isola aveva sede anche un presidio della R. Marina con circa 70 uomini, mentre il porto offriva un ormeggio sicuro a una ventina di battelli per il trasporto merci da e per la penisola e la Sardegna, più a circa 25 barche da pesca, ospitando, periodicamente, dalle 20 alle 40 gondole per la pesca del corallo, battenti bandiera napoletana o sarda. Di quelli che sono addetti al mare la maggior parte sono coscritti nella marina regia, gli altri o servono in navi di commercio, o ne’ piccoli legni del loro porto. Questi battelli non saranno più di 20. Essi importano dalla Sardegna e dal continente grani, vini, legumi, olio, ferro, zucchero, caffè, manifatture, e altri molti articoli per il bisogno degli abitanti e per li popoli della Gallura: ma poi o una volta o l’altra importanti alcuni di questi articoli da navi nazionali o francesi (della Corsica). Un piccol battello fa tutti i giorni la corrispondenza di quest’isola col prossimo continente trasportando merci e passeggieri.
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In questi anni, approdò sull’isola James Webber. Pur sbarcato accidentalmente, si innamorò da subito della Maddalena. “Gli isolani erano cortesi, lo salutavano per via come se lo conoscessero da tempo; fu colpito dalla straordinaria varietà delle forme del granito e dalla strenua lotta delle forze della natura. La vegetazione si misurava col vento e con la roccia quasi fosse pensante e mobile come un’animale. Il mare, che ruggiva ancora come mille leoni contro le coste settentrionali, si ammansiva poi in una trasparenza di calme irreali nelle molte cale e calette ridossate. Isole come sogni si stagliavano ad ogni punto cardinale intorno a La Maddalena e lo spettacolo era superbo, d’un tipo di bellezza che commosse Webber fino in fondo all’anima. Per la prima volta dopo anni mangiò di gusto e non ebbe alcun disturbo d fegato e di stomaco. Camminò e camminò senza la minima palpitazione, anzi, i suoi polmoni si allargavano come fossero affamati d’aria e quell’aria gli dava energie nuove che non aveva conosciuto nemmeno in gioventù. Godeva fino in fondo il sapore di una sensazione nuova: si sentiva essere, semplicemente, indipendente da ogni senso razionale della vita. Per farla breve, allorché la nave fu pronta a salpare dopo alcuni giorni, James Webber era pronto a non lasciare più le “sue” isole beate, a ritirarsi dagli affari, a chiudere per sempre l’assurdità alla scalata divoratrice al successo. Anziché esibire le sue ricchezze davanti alla sofisticata società inglese, preferì esibirle sotto il sole e il vento de La Maddalena, davanti allo sguardo tranquillo, distaccato e soltanto leggermente ironico di quella gente di mare, solida, nobile e povera che la felicità la trovava in tutt’altra dimensione.” Nasce Villa Webber; costruita tra il 1855 e il ’57, senza badare a spese, a mezza costa dello splendido e selvaggio anfiteatro granitico sopra il Padule; la brillante Speranza Von Schwartz, che non mancò di visitarla appunto nel ’57, mentre fervevano i lavori di rifinitura, ne scrisse un quadretto gustosissimo. “L’aristocrazia del denaro fa sentire quì il suo potere, e se La Maddalena avesse molti di questi ricchi coloni ai quali l’oro rende tutto facile, la sua sognante solitudine sarebbe presto sostituita da un rumore assordante”. Speranza non sapeva di essere in ciò profetessa dei guai dei nostri giorni!” “un’attività convulsa regnava dentro e fuori della casa. Squadre di operai lavoravano nel parco e intorno alle costruzioni. Numerosi domestici accudivano i loro focosi cavalli, altri valletti toglieva dalle casse mobili di rara eleganza. L’interno degli appartamenti era pieno di operai genovesi, venuti appositamente per disporre i pavimenti di stucco veneziano. Il rumore dei martelli e delle seghe si mescolava al canto degli operai: chi fischiava, chi parlava, tutti erano così occupati nei loro lavori che ci fu difficile trovare qualcuno in quella folla per farci annunciare.” “fummo introdotti in una camera piena di oggetti d’arte, di quadri magnificamente incorniciati, di libri rilegati con lusso… il Signor Webber era tutto preoccupato dei suoi tesori ed anche della sua nomina a vice – console, che tra poco gli sarebbe stata conferita ufficialmente; questa carica gli faceva tonto più piacere, in quanto l’aveva ottenuta a dispetto dell’opposizione dei suoi compatrioti.” “….Le costruzioni, di uno stile moresco – italiano, fanno onore al gusto del Signor Webber…”. Il Webber era felice. La sua casa era indubbiamente la più sontuosa, non soltanto dell’isola (ci voleva ben poco a superare le linde casette isolane) ma di tutta la Gallura e poche potevano starle a confronto nell’intera Sardegna. Vi raccolse una biblioteca degli autori più importanti d’Europa, con i volumi rilegati in raffinati marocchini e pelli fregiate in oro, che non permetteva a nessuno di spolverare, riservando a se stesso l’intimo piacere di quel rituale contatto; la pinacoteca raccoglieva anch’essa alcune delle firme più quotate del tempo, ed egli mostrava con orgoglio ai visitatori paesaggi di scuola fiamminga, le nature morte la sua Susanna con i vecchioni e il Sansone e Dadila, senza trascurare di richiamare l’attenzione sulle cornici, che per di se erano dei veri gioielli di artigianato. I mobili, molti dei quali fatti cercare presso antiquari inglesi e italiani, davano alla dimora quella impronta di sostanziosa ricchezza che, per Webber, era l’indispensabile corollario del buon gusto. Ma il nostro ex industriale voleva anche misurare la solidità delle sue sostanze con le forze della natura e quindi circondò la villa con un parco di cui ogni albero era una sfida al vento e alle intemperie del mare; gli splendidi “Pini Pinea”, “Marittimi” e “Inzenga” furono piantati nel 1862 ciascuno con particolari muretti di protezione del virgulto. Il frutteto, per il quale fece trasportare la terra appositamente, crebbe difeso da un colossale muro alto sei metri per fermare l’urto del violento “ponente”: Per cinque volte il vento lo abbatté, e per altrettante Webber lo fece ricostruire potenziandone lo spessore e sostenendolo con poderosi contrafforti verticali. Finché la spuntò e poté far piantare oltre 150 varietà della frutta più pregiata, piante nane fatte venire a qualunque prezzo dall’estero; creò boschetti di aranci, limoni e cedri, che fino allora nessuno era riuscito a far sopravvivere agli insulti del vento delle Bocche, difendendo le piante con tanto piccoli paraventi di frasche e giunchi. Il viale della marina saliva alla villa fiancheggiato da una fuga di meravigliosi ginepri arborei, che si possono ammirare ancor oggi, immersi nella sterpaglia. Per l’irrigazione delle culture e del giardino, Webber provvide alla costruzione di grandi serbatoi per la raccolta dell’acqua. Le pendici del Padule furono coltivate a vigneto, con vitigni delle specie più pregiate; le cantine furono attrezzate per l’invecchiamento dei vini fino a 14 – 20 anni. Nelle adiacenze coloniche fu avviato l’allevamento di razze speciali di polli, conigli, suini. Il Signor Webber aveva ora una sola preoccupazione: a chi lasciare quel paradiso e d i suoi beni alla sua morte: gli era insopportabile l’idea di non essere continuato. Perciò prese la grande decisione di adottare un figlio. Tutto quanto ho potuto ricostruire e che adottò un uomo e non un fanciullo e che costui sposò una signorina Tamponi, gallurese, e visse col padre adottivo sino alla morte di questi. Webber morì in tarda età, a Pisa, dove s’era recato forse per acquisti o richieste di opere d’arte per il suo regno, e la fu sepolto.

Sempre nel 57, Elpis Melena nel 1857 nel suo libro “Escursione all’isola di Caprera”: “…Il trasporto delle lettere e dei viaggiatori è così male organizzato e in uno stato totalmente primitivo che quando il corriere arriva al Parau raramente trova dei mezzi di comunicazione per raggiungere La Maddalena. Allora si accende un gran fuoco che serve da segnale agli abitanti dell’isola; questi appena il tempo lo permette, inviano un battello per prendere i passeggeri e la corrispondenza”.

Il Conte polacco Carolath, acquista il forte Carlo Felice.

7 gennaio

Garibaldi al ritorno da un viaggio da Genova, l'”Emma”, carica di calce, pozzolana, ferro e legnami, naufragò nei pressi di Caprera; fu una svolta decisiva nella sua vita, da quel momento egli decise di abbandonare il mare e di dedicarsi definitivamente all’agricoltura. Inizialmente Garibaldi possedeva solo metà dell’isola di Caprera, l’altra metà era di un inglese, già citato, di nome Collins col quale talvolta litigava. Pare che il Signor Collins trascurasse i suoi maiali che sconfinavano nella terra dell’eroe dei due mondi danneggiando vigne e orti. Menotti, figlio di Giuseppe, uccise a fucilate un maiale provocando le rimostranze di Collins. Garibaldi gli propose di risolvere la questione con un duello….Collins si acquietò e divenne ottimo amico del barbuto vicino. Alla morte del Signor Collins, la vedova propose all’eroe di acquistare la sua metà dell’isola, ma Garibaldi non aveva il denaro per farlo. La faccenda fu risolta dal quotidiano Times di Londra, che aprì una sottoscrizione tra i numerosi ammiratori di Garibaldi, raccogliendo così la somma di denaro necessaria per l’acquisto della quota di Collins e per il rimpatrio in Inghilterra della vedova Collins. Ben presto Garibaldi creò a Caprera una piccola comunità di pastori, mezzadri, fattori e amici; la casa venne ingrandita e vennero via via aggiunte tutte le strutture necessarie: il forno, il mulino a vento, il magazzino per gli attrezzi, la stalla e la dispensa. Circondato dall’affetto dei maddalenini e dei pastori galluresi presso i quali si recava sovente, Garibaldi, da avventuriero qual era stato, divenne finalmente uomo, padre di famiglia, patriarca di una comunità che il pensatore rivoluzionario russo Bakunin che si recò a visitare nel 1864, e definì “una vera repubblica democratica e sociale”. ……. “verso le cinque pomeridiane si arena il bastimento nella bocca del porto dello Scabeccio, passo della Moneta, in faccia alla casa del Sig. Ricardo Collins”. Il comandante non è uno qualunque. Si tratta nientemeno che di Giuseppe Garibaldi e il bastimento in questione è il cutter Emma, di sua proprietà, inesorabilmente perduto quel giorno. A raccontare tutte le fasi, dalla scoperta di un incendio nella stiva fino all’affondamento finale nelle acque antistanti Caprera, è lo stesso “eroe dei due mondi”, il giorno seguente il naufragio, in un manoscritto firmato di suo pugno davanti all’avvocato Salvatore Azara. Un atto ufficiale per chiedere “che i fatti da me sopra esposti siano legalmente constatati nell’interesse della verità e della giustizia per tutti i diritti a me spettanti…”. Da allora, con il suo carico di calce, ferro, legnami e piastrelle, giace sul fondo del mare nel Passo della Moneta. Vedi anche: Il Cutter e il naufragio

2 marzo

Muore il pastore protestante inglese George Bitton Jermin, residente già da alcuni anni alla Maddalena: essendo anglicano e, quindi, scismatico per la Chiesa cattolica, il suo corpo viene seppellito in un vecchio cimitero abbandonato sull’isola di Santo Stefano.

3 marzo

Ci sono molte notizie di seppellimenti estemporanei in varie isole. A S. Stefano, in particolare, ci fu il seppellimento di coloro che morirono in quell’isola a seguito della ferite e soprattutto delle bruciature riportate nel combattimento del 3 gennaio 1794 contro due sciabecchi tunisini, uno dei quali saltò in aria per lo scoppio della sua santabarbara. A S. Stefano facevano la quarantena e le regole di sanità obbligavano il seppellimento immediato e la intrasportabilità dei cadaveri. La quarantena avveniva nei locali dei magazzini vicini alla torre di Villamarina. In una lettera del vice console inglese alla Maddalena, Peretti, al console inglese a Cagliari (rintracciata negli archivi inglesi da Giovanna Sotgiu e Alberto Sega per il loro libro “Inglesi nell’arcipelago”) si legge che il sacerdote anglicano Bitton Jermyn residente alla Maddalena non poté essere seppellito nel camposanto ma: “A Santo Stefano, nel cimitero di Villamarina, per non averle potuto dare sepoltura in questa a tenore di questo parroco [che] ne fece opposizione“.

24 maggio

Si getta un cavo telegrafico sottomarino fra Cagliari e Malta.

1luglio

Nel 1855-6 il Maggiore Generale del Genio Militare, cav. Verani, fu incaricato di ispezionare le fortificazioni maddalenine e di farne un rapporto in merito al loro possibile utilizzo. In seguito alle sue conclusioni ed agli scambi di opinione tra i vari organi militari del Ministero della Guerra, in data 1/7/1857, radiò tali strutture dal novero delle difese dello stato. infine nel 1864 i fortini vennero messi all’asta, vendita di beni del regio demanio autorizzata con L. 21 agosto 1862 n. 793.

22 giugno

Le prime fortificazioni, quelle costruite negli anni 1767 – 1806, appaiono oramai superate rispetto alle nuove esigenze difensive, così una legge, la n° 2249, dispone: “Le fortificazioni dell’isola della Maddalena, consistenti nei forti Guardia Vecchia, Carlo felice, Santo Agostino, Balbiano, Santa Teresa, Santo Stefano, cessano dall’uso cui sono destinate. Verranno perciò disarmate e rimesse dal Dicastero della Guerra a quello delle Finanze che avviserà a trarne il miglior partito possibile nello interesse dello Stato.” Sono le prime privatizzazioni ……

18 agosto

Nel suo “Diario del bestiame”, il generale Garibaldi ha annotato il capo del bestiame, quantità, costo, morti per malattia o uccisione.
Tra le tante informazioni che ha registrato, ha anche fatto curiosi schizzi dei diversi tipi di tagli alle orecchie fatti ai suoi animali, usati per differenziare i suoi animali da quelli degli altri pastori di Caprera. Ogni animale aveva un taglio specifico all’orecchio, più il marchio “G” per il bestiame di Garibaldi.
Raccolte le pecore ci sono 46 grandi e 26 agnelli. Il segno degli agnelli è entrambe le orecchie troncate come capre. Il segno della pecora è l’orecchio sinistro troncato e la destra a forma di V romana una parte troncata… “

26 ottobre

Sbarca a La Maddalena la scrittrice Speranza Von Schwartz col preciso intento di conoscere Garibaldi, l’uomo di cui tutto il mondo parlava. Nata in Inghilterra, e naturalizzata cittadina inglese, Speranza era figlia di un ricco banchiere di Amburgo; sposata una prima volta, rimase vedova a sedici anni; si risposò con il banchiere Schwartz, dal quale divorzio. Attraente, ricca, elegante, intelligentissima, essa conosceva molte lingue europee, compreso il greco, e scriveva indifferentemente in ciascuna di esse; era molto colta, conosceva le letterature e la storia dei vari paesi, ed era una buona intenditrice di arte e di musica. Ma forse ciò che colpì maggiormente Garibaldi fu lo spirito indomito, inquieto e avventuroso di lei, che la spinse a viaggiare senza sosta per l’Europa, la dove più incandescenti si facevano le lotte di indipendenza, dove fervevano il pensiero e l’opera dei molti “profeti” degli ideali di redenzione. Dotata di un coraggio virile, unito alla dolcezza e a una grande sensibilità, amazzone perfetta, signora della conversazione, diplomatica sottile: queste le qualità che forse più di ogni altra fu vicina, dopo Anita, al Garibaldi dell’epoca. L’amore scoccò subito, fin dal primo giorno a Caprera e appena essa lasciò l’isola, in novembre, già partivano le appassionate lettere del Generale; ma Speranza fu tanto intelligente da saper indirizzare quel sentimento dirompente in un profondo legame di solidarietà, quasi come tra compagni d’armi, che piacque a Garibaldi in maggior misura di un rapporto fisico che non vi fu mai. L’amore fu tutto espresso da lui nelle lettere e nell’accettazione riconoscente dei mille servizi e doni che riceverà dall’amica negli anni seguenti; da lei, in una generosità senza limiti. Tra l’altro, Speranza scriverà moltissimo sull’Uomo di Caprera, sia col suo nome sia con lo pseudonimo di Elpis Melena, traduzione in greco di Speranza (Elpis) e Schwartz (= nera = Melena): essa fu tra i massimi divulgatori contemporanei delle idee e delle gesta del Generale. Ma fece assai di più: rischiò alcune volte la vita per recapitare messaggi clandestini di lui e una volta fu anche catturata e chiusa in una squallida prigione da cui evase in modo romanzesco; riuscì ad introdursi con abilità al Varignano quando Garibaldi vi giaceva ferito e prigioniero, isolato da tutti, e lo curò come una sorella. Accorse, mandata da lui, a curare i garibaldini feriti, a tramarne la fuga, a soccorrerli con viveri e mezzi economici. Fu a conoscenza di tutte le debolezze e gli errori del grande amico e seppe contenere le gelosie che egli assai spesso suscitò in lei con la sua disarmante ingenuità, dentro alla calda maturità di quel suo essere donna davvero eccezionale. Tenne infine per lui una mole incredibile di rapporti con diplomatici esteri, col mondo internazionale dei cospiratori, con gli editori della pubblicazione delle Memorie e di altri scritti. Quando Speranza visitò Caprera la prima volta, le bastarono pochi giorni non solo per infiammare l’animo del Generale, ma per conoscere a fondo l’ambiente che lo circondava e la comunità maddalenina: visitò i Roberts, i Collins, Webber, esplorò La Maddalena, il Parau (Palau), parlò con la gente. A Caprera, Speranza aveva compreso benissimo dalle occhiatacce della Battistina il rapporto intercorrente tra questa e il Generale; e ne ebbe conferma quando nell’agosto successivo tornò nell’isola. Garibaldi le propose di sposarlo ad essa, con molto tatto e buona grazia, declinò l’offerta pur lasciando in lui la certezza del profondo sentimento che li univa. Seguirono poi le molte lettere d’amore dell’Uomo di Caprera alla bella inglese: esse iniziavano invariabilmente con: “Speranza amatissima”, oppure “Preziosa amica mia” con espressioni come: “Voi dovete considerarmi per l’avvenire come cosa vostra… Mi sento l’uomo più felice della terra dacchè vi ho avvicinata…”, ecc. le risposte di Speranza iniziavano sempre con “Amico mio, amico amatissimo” o al massimo, con ” amico unico e amatissimo” e si occupavano degli scritti autobiografici di lui, e della sua salute, degli incarichi che egli le affidava, i quali andavano dalla liberazione di un prigioniero, alla ricerca di una donna di servizio. Venne la campagna di Lombardia e, mentre Speranza cercava di aiutarlo in ogni modo, Garibaldi si innamorò follemente della diciottenne marchesina Raimondi, la sposò affrettatamente a Fino Mornasco e la lasciò il giorno stesso delle nozze perché avvertito da una lettera anonima, sulla porta della chiesa, che la moglie era incinta di un altro. Speranza verrà a sapere ciò dai giornali. Si aggiunga che, sette mesi prima a Caprera, la servetta Battistina Ravello aveva partorito una bambina, Anita, frutto del suo rapporto col Generale. Il 10 febbraio del ’60, un mese dopo lo sconsiderato matrimonio, Garibaldi riprese la corrispondenza con la donna amata come se nulla fosse avvenuto, solo chiedendole “… se posso con sicurezza mandarvi lettere e manoscritti. Vostro sempre”. Speranza superò questi colpi con grande dignità, comprendendo che essi erano conseguiti alla stessa natura di tale uomo: fu da questo periodo che il loro rapporto prese l’impronta di una amicizia tra compagni d’armi.. Essa tornò a Caprera nel ’61 e poi ancora ne ’63 e nel ’64 e ogni volta ne ripartì con la certezza che il vero Garibaldi era l’uomo che passava dalle epiche battaglie alla vita dei campi, rozza ed elementare, circondato dagli amici, dai figli e dalle donne che il destino gli mandava; chiedergli una qualsiasi adesione a sentimenti più esclusivi e sottili, sarebbe stato come pretendere da lui che si uniformasse ad etichette e consuetudini formali: impossibile! Battistina Ravello, dopo la nascita di Anita, aveva lasciato Caprera e se n’era tornata al suo paese con la bambina, mettendo il Generale nelle angustie per la sorte di questa; egli ne parlò a Speranza ed essa subito gli offrì di assumerne l’affidamento. Passarono alcuni anni in cui la servetta si oppose a consegnare la piccola al padre ed egli dovette rivolgersi anche al tribunale per poter esercitare la patria potestà. Ecco un altro aspetto peculiare dell’animo di Garibaldi: nutriva per i figli un amore di tipo patriarcale; che fossero legittimi o meno, egli li voleva per se, come un dono del cielo e gli amava con identico calore. La Schwartz lo comprese fino in fondo e seppe essergli vicina anche in ciò. Quando Anita ebbe nove anni, finalmente egli poté riaverla per intervento del tribunale e dopo un mese, nel luglio 1868, la affidò all’amica perché provvedesse alla sua educazione. La dama inglese si trovò di fronte ad una piccola selvaggia, violenta e vendicativa. Impossibile tenerla con se: era indispensabile metterla in un ottimo collegio ed essa ne scelse uno svizzero costoso e famoso, dove la piccola rimase alcuni anni, sempre a sue spese e seguita nel migliore dei modi. Ma nella sua visita a Caprera, Speranza si avvide anche che la famiglia Garibaldi era cresciuta di un’altra donna e di un’altra figlia: fin dal 1865 infatti vi era giunta Francesca Armosino in qualità di nutrice dei figli di Teresita e di Stefano Canzio. Si trattava di un’astigiana, cercata accuratamente dagli amici del Generale perché non potesse con le sue grazie insidiare tutti quegli uomini; e infatti non era affatto bella e neppure graziosa. Ma, a differenza della Battistina, Francesca era intelligente e di piglio energico, sapeva ispirare fiducia o per lo meno la seppe ispirare al capofamiglia, che a poco a poco la lasciò prendere possesso del ménage domestico. In breve tempo la donna divenne la serva – padrona e di lì il passo fu breve perché conquistasse il ruolo di incontrastata compagna del Generale. Il 16 febbraio 1867 nacque Clelia. Il fatto che un anno dopo egli affidasse Anita a Speranza lascia intendere che allontanasse volentieri dalla Casa Bianca un motivo di risentimento della sua donna, risolvendo nel contempo il problema dell’educazione della bambina; e la Schwartz era troppo esperta delle cose della vita per non rendersi conto che in questo momento Garibaldi stava strumentalizzandola in nome di quel gagliardo egoismo che è uno dei tratti caratteristici dei grandi uomini d’azione. Non disse nulla perché in realtà non sarebbe stata intesa dalla perfetta buona fede dell’amico; ma d’ora in poi la sua devozione si espresse soltanto nell’educazione di Anita, dalla quale per altro non ebbe alcuna soddisfazione e compenso morale. Si diradarono anche le visite a Caprera, dove tornò nel 1870 e poi nel ’74, quando ormai i figli di Francesca Armosino erano tre. La scrittrice rivolse il suo ardore ideale alla causa della libertà del popolo cretese e si stabilì a Creta per parecchi anni, dedicando tutte le sue energie intellettuali, fisiche ed economiche a quegli infelici patrioti, fino ad ammalarsi e quasi a morirne. Garibaldi la seguiva da lontano sempre con affetto, ma nelle lettere la sua partecipazione pare attenuata per l’età e per i guasti che l’artrite andava producendo nel suo forte fisico. Nel ’75 Speranza, che si trovava ad Atene per riprendersi dalla malattia, si fece raggiungere da Anita: non si è mai saputo esattamente cosa sia intervenuto tra Garibaldi e lei in quella circostanza. Io propendo a credere che Anita, ora quindicenne, si sia incapricciata di voler raggiungere il famoso genitore – che aveva visto soltanto nell’infanzia – e abbia fatto ricorso a una menzognera messinscena scrivendogli che la Schwartz la maltrattava: la cosa non è incompatibile col carattere sempre dimostrato dalla ragazza. Ma credo anche che la Armosino e i figli maggiori del Generale, che non avevano mai celato la gelosa antipatia per la scrittrice, abbiano dato particolare credito ed enfasi alla lettera di Anita. Menotti fu incaricato di andare ad Atene a prendere la giovane e di accompagnarla a Frascati, dove allora si trovava Garibaldi con la famiglia. Quindi tutti insieme tornarono a Caprera. Qui, Anita poté scatenarsi in tutta la sua naturalità, ma dopo pochi giorni fu assalita da una fortissima febbre e morì, non si sa se per un’infezione intestinale o per un’insolazione.

La von Schwartz descrive anche la stazione di posta di Palau e l’arrivo a uno stazzo situato nei pressi: nota l’abbigliamento degli abitanti, la loro ospitalità, la vita semplice ma dignitosa.

Speranza, invitò a cena presso le sorelle Fazio che la ospitavano, il Generale e Pietro Susini, amico di mille avventure. Il menù, sorprendente ed eccellente per quei tempi: cinghiale di Caprera (c’erano anche allora) con lattughe, ravanelli (ravanetti), e ‘armuracia rusticana’ (cren o barbaforte), armuraccia in isolano. Era senza dubbio un menù speciale, non sempre all’isola si mangiava così. Quotidianamente si seguivano i sistemi di bordo: lunedì, brodo, martedì, pastasciutta; mercoledì, magro; giovedì, pastasciutta, venerdì, pesce; sabato, brodo; domenica, pastasciutta. Il pane si faceva una volta alla settimana, il sabato; c’erano i cocchi, i mizzoli, u pani di risciammu e pane bianco. Per Natale si facevano i spungati, per Pasqua i cucciuléddi cu l’ou, per i Santi i mustaccioli e i niuléddi, i fucacci d’ua sicca o di baghi (corbezzolo). Il vino (rosso) veniva per la maggior parte dall’Ogliastra. Per la festa della Patrona (22 luglio) turroni ‘e mendula o col miele di Lungono (era il migliore!). Durante i fidanzamenti venivano offerti i liquori: il rosolio, l’Archermes ed il latte di vecchia. Normalmente, però si stringeva la cinghia e si risparmiava per il giorno dopo, incerto ed insicuro quanto mai. Certo c’erano differenze nel mangiare quotidiano; i pescatori (quasi tutti di origine campana), non avevano difficoltà a trovare un po’ di pesce e da loro ci arrivano le prime ricette che ancor oggi troviamo nelle nostre tavole o nei ristoranti dell’isola. U zimminu (zuppa di pesce, le razze cucinate al verde, le fritture di giggioni, sciarrai e, minchie di re, u lucapanti, i gritti, i bardulini, u gruncu cui patati, i sughi cui faoni, fino ai più piccoli: connari e connaretti, zerri e zerrittoli. Gli scalpellini di Cava Francese, che lavoravano all’aperto, con il sole e con il vento, nel breve intervallo per consumare il pranzo andavano a pane e formaggio e mortadella, minestrone del giorno prima (più bonu) e vino a volontà contro la silicosi. Per chi aveva terreni e viveva in campagna, oltre i prodotti della terra anche la cacciagione: pernici, cinghiali e conigli per non parlare del cormorano (u magrò) in agrodolce. Nei pochi ristoranti-trattorie di allora: Mamma Raffo, Remigio Firugeli, l’Osteria degli Amici che esponevano un’insegna che parlava da sola: “Amico, vieni e penza, cortesia si fa, e non credenza!” , si cercava di arginare le continue visite di comitive dirette a Caprera. (Francesco Ramon Del Monaco)

8 novembre

Il Consiglio comunale di Santa Teresa, “per garantire la pace”, chiede l’aumento del contingente dei Carabinieri reali (da portare a dieci) o un distaccamento di bersaglieri in modo da poter contare su 25 uomini: sfugge la gravità della situazione paventata. Diego Sotgiu è sindaco. Ricoprirà l’incarico fino all’anno successivo. Gli abitanti sono 1328.